PAROLE. NOMI. STORIE DI ROM.

Parole. Nomi. Nomina nuda tenemus, come sempre. E dunque, parole. Quelle che il mio eteronimo ha già usato. Quelle che torno a usare oggi.
Zingari. Zigauner. Allogeni.
“Esistono comunità che non sono integrabili nella nostra società. Mi chiedo come sia possibile integrare chi considera pressoché lecito e non immorale il furto, il non lavoro perché devono essere le donne a farlo magari prostituendosi, e non si fa scrupolo di rapire bambini o di generare figli per destinarli all’accattonaggio. Parlare di integrazione per chi ha una cultura di questo tipo non ha senso”.
Parla l’allora presidente della Camera, Gianfranco Fini, in una dichiarazione al Corriere della Sera del 4 novembre 2007.
Porajmos.
Porajmos, in lingua romanì, significa “divoramento” e indica lo sterminio degli zingari all’epoca della soluzione finale del nazismo. Inizia nel 1936, alla vigilia dei giochi olimpici di Berlino, quando Hitler decide che la città dev’essere ripulita. Ordina dunque la costruzione di un campo di concentramento a Marzahn per internare centinaia di Rom e Sinti. Non fu l’unico campo.
Furono fra i cinquecentomila e il milione e mezzo le vittime. Trattate, se è possibile, in modo ancora peggiore degli altri internati. Rom e Sinti, contrassegnati dal triangolo nero che si assegnava agli individui “anti-sociali”, venivano usati preferibilmente come cavie per gli esperimenti scientifici, soprattutto ad Auschwitz. A molti di loro furono inoculati germi e virus patogeni per osservare la reazione dell’organismo di fronte alle malattie, altri vennero obbligati a ingerire acqua salata fino alla morte. Le donne giovani venivano sterilizzate, con pratiche atroci. Quelle più anziane venivano spogliate e utilizzate per riscaldare i corpi di coloro che erano stati soggetti agli esperimenti sul congelamento. Sia le donne che gli adolescenti rom impiegati per gli esperimenti venivano tenuti rinchiusi in minuscole gabbie o stanze all’interno dei laboratori, completamente nudi e costretti a pisciare e defecare davanti a tutti.
Ma l’Italia, per i rom di tutta Europa, è il paese dei campi: perché prima dell’arresto di Mussolini fu nei campi italiani che vennero internati. Nessuno lo ricorda. O pochi.
Però, pochi mesi dopo quel novembre 2007 in cui tutti i politici, di qualunque schieramento, dichiararono che romeni e rom (con notevole confusione fra i termini) erano la mala pianta dell’Italia, la polizia irrompe all’alba nel campo rom milanese di via Impastato. E’ il 6 giugno 2008. Censimento. Rilevazione di impronte digitali. E altro. La maggior parte delle famiglie ha la cittadinanza italiana. Fra loro c’è Giorgio Bezzecchi. Suo padre, Goffredo, venne recluso nel campo di detenzione di Tossicia, provincia di Teramo, in quanto zingaro. Suo nonno era morto a Birkenau.
“Vergogna”, mormora Bezzecchi. Nessuno lo ascolta. Dal 2007, la narrazione era un’altra.
Atzinganoi.
E‘ la parola greca da cui deriva il termine “zingari”. Significa “intoccabili”.*
In dodici anni, sui rom è stato detto e scritto di tutto, grazie ai social. E’ facile. Lo penso e lo scrivo, perché ho il diritto di dirlo. Questo è il ragionamento. Lo penso e lo scrivo perché sono dalla parte giusta. Lo penso e lo scrivo perché è democratico farlo. Lo penso e lo scrivo perché se urlo più forte, se sputo più in alto, se ti ferisco più a fondo, ho ragione.
Dal 2007, l’odio per un popolo è stato rinfocolato. Esisteva da prima, certo. Esiste da millenni, un po’ ovunque. Qualcuno lo spiega così.
Immaginate un re dell’anno Mille, un re che porta il nome di Costantino IX. Quel sovrano ha un debole per le cose belle, come tutti i suoi simili, e ha radunato per il suo piacere un gran numero di animali pregiati, che sono la gloria e il vanto di Costantinopoli. Un giorno, i suoi adorati vengono aggrediti da bestie selvatiche, rozze, feroci, aggressive. Il cuore del re si rattrista. Dunque, chiama a sé “i Simoniaci, discendenti dei samaritani, atsincani, affinché usassero la loro magia per salvare le sue preziose bestie”. Gli atsincani rispondono al’invito e uccidono gli animali selvatici con pezzi di carne avvelenata collocata all’interno del parco, facendo credere all’imperatore che si trattasse di magia”.
Da allora vennero chiamati ingannatori.
Da allora vennero chiamati avvelenatori.
Da allora vennero chiamati stregoni.
Atsicani.
Atzinganoi.
Zingari.
Si chiamava Giovanna Reggiani. Era una donna di 47 anni, aggredita, seviziata e uccisa a Tor di Quinto, Roma. L’assassino è individuato in Romulus Mailat, nato a Vurpar, Romania. Vive in un accampamento. E’ rom, rumeno. Lo sdegno è unanime e non si appunta sul singolo criminale, ma su un intero popolo. Colpevole uno, colpevoli tutti. Politici di ogni segno dichiarano che la misura è colma. Anche Veltroni, sindaco di Roma all’epoca, cavalca la tigre e sostiene Roma era la città più sicura del mondo “prima dell’ingresso della Romania nell’Ue”.
Tutti partecipano ai funerali della sventurata Giovanna, una delle tante, tantissime donne aggredite e uccise nel nostro sventurato paese.
A lei tocca diventare un simbolo. I suoi familiari subiscono l’abbraccio di decine di esponenti politici. In suo nome, poche ore dopo, viene firmato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano un provvedimento che dà ai Prefetti il potere di espellere per motivi di sicurezza anche i cittadini comunitari.
Come posso parlare così di una donna morta?
Non io ne ho parlato. Ma i giornali stranieri.
Leggete.
Il Guardian: “ciò che è accaduto a Giovanna Reggiani ha fatto cambiare la legge del suo paese e fatto esplodere una protesta xenofoba senza precedenti nella storia italiana“.
Il Telegraph: “l’orribile attacco ha scatenato la rabbia degli italiani“.
Tre giorni dopo, a Roma, un gruppo di squadristi incappucciati attacca con spranghe e coltelli alcuni rumeni all’uscita di un supermercato, ferendone quattro. Il giorno prima una donna rumena viene violentata e ridotta in fin di vita. Non è dato sapere da chi. Le forze dell’ordine sgomberano la baraccopoli in cui viveva il presunto assassino. Duecento persone, tra cui donne e bambini, sono gettate in mezzo a una strada.
Sicurezza, si urla. Emergenza!
Emergenza che, scorrendo i dati contenuti nel Rapporto sulla Criminalità (1993-2006), non esisteva: omicidi e reati erano ai livelli più bassi dell’ultimo ventennio, mentre erano in forte crescita i reati commessi tra le pareti domestiche o per ragioni passionali.
Si tace sul resto. Sulle morti bianche degli operai rumeni nei cantieri. Sulle trentamila donne rumene costrette a prostituirsi, metà delle quali minorenni.
E’ più facile, così.
A giugno 2010, una notizia non appare su nessun giornale italiano. La Corte europea dei Diritti Umani potrebbe riaprire il caso Mailat, condannato all’ergastolo: i dubbi riguardano un’indagine frettolosa, spinta da una necessità politica (approvare il decreto sicurezza) e dall’urgenza di avvolgere il paese in una nube xenofoba che è dannatamente utile.
Funziona così.
Le zingare compiono il crimine più odioso, rapire i figli (bianchi e rosei e addormentati nei loro passeggini) degli italiani e li fanno sparire nel nulla, per condannarli a una vita di elemosine. Chiedete, e vi risponderanno che, davvero, l’hanno visto con i propri occhi.
C’è un antropologo. Si chiama Leonardo Piasere ed è uno dei massimi esperti europei in materia di rom. Ha lavorato su vent’anni di casi e sentenze (ne ha tratto un libro, “La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze 1986-2007”, Cisu editore). I risultati? Nessun bambino è mai stato veramente rapito dai rom.
In ogni vicenda ci sono elementi comuni. Innanzitutto sono quasi sempre le madri ad accusare una donna rom di aver tentato di rapire il proprio bambino, non ci sono testimoni del fatto e gli eventi si verificano spesso in luoghi affollati, come mercati o vie commerciali. «L’analisi comparativa dei casi», spiega l’antropologa Sabrina Tosi Cambini che ha concretamente realizzato la ricerca, «ci porta a poter affermare che laddove vi è la presenza di un infante, l’avvicinamento di una persona rom è subito vissuto come un pericolo per il proprio figlio: lo stereotipo “gli zingari rubano i bambini” risulta essere molto più potente di qualsiasi altro».
“Molto spesso – aggiungono i ricercatori – i media denunciano il “fatto” dando come provato e “vero” il tentato rapimento ignorando poi le dichiarazione anche ufficiali che lo smentiscono. Se poi qualche volta tornano sulla vicenda, non è per comunicare che i Rom non c’entrano niente, ma è perché l’esito scioglie in sé altri eventi: truffe, fatti drammatici, situazioni che suscitano ilarità”.
Nessun caso.
Ricordate Ponticelli? Dobbiamo fare un salto avanti di qualche mese, dall’autunno 2007 al maggio 2008. Il presunto rapimento di una neonata da parte di una sedicenne rom, Angelica, scatena l’assalto ai campi nomadi. Viene fatta passare per rabbia popolare. Era camorra. E non c’era stato nessun tentativo di rapimento.
Volete venire a vedere le fiamme, i sassi gettati su vecchi e bambini, la devastazione? Volete capire perché avvenne e perché nessuno, se non i giornali stranieri, ne ha parlato?
Seguitemi.
Lei era nell’altra stanza, proprio così. E la bambina era sul seggiolone, con le cinture di sicurezza per non cadere. Era nell’altra stanza perché una madre non può stare sempre accanto alla propria figlia e si era allontanata per accendere il fuoco sotto la minestra di verdure, o magari per sciacquarsi la faccia, o anche, chi lo sa, per dare un tiro alla sigaretta.
Però vengono certi pensieri, certe paure, quando si lasciano i figli da soli. E quel giorno, che era maggio, la paura si è fatta carne: carne di ragazzina, una minorenne, Angelica. Che veloce entra, slaccia le cinture, afferra la bambina, e fugge.
Il nonno che vive al piano di sotto, sente le grida e sale. È un uomo alto e grasso. Ha il tempo di bloccarle la strada per le scale, ma la lascia misteriosamente fuggire. Dopo, solo dopo, la segue per 500 metri fino a prenderla. Un testimone racconta di aver chiesto alla ragazza se avesse tentato di rapire la bambina. Angelica nega, ha sempre negato. Alla polizia venne raccontato il contrario.
“Capisce, dottò? Ma come fanno, dico io, una bambina di sei mesi appena e la mamma se la deve portare in braccio a ‘na cosa fetente sul pianerottolo..”.
E’ un maestro di scuola di Ponticelli che parla, a uno dei pochi giornalisti indipendenti che hanno cercato di capire qualcosa di diverso da quanto riportato da tutti i quotidiani.
Perché la notizia era così ghiotta: zingara rapisce bambina di sei mesi. Titoloni. E il giornalista incalza. Non è un po’ strano? Nessuno si accorge di nulla? E il maestro: “A dotto’, lasci perdere. Uno, gli zingari entrano ovunque ormai, ce li ho anche nell’androne di casa mia. Due, è una cazzata che qui ci si avverta tra condomini. A Napoli ormai è quasi come a Milano. E poi, me le chiamate vie queste? Non ci sono nemmeno i nomi, solo i lotti contrassegnati: Lotto O (che chiamano Lotto Zero, ndr), Lotto G”.
E’ vero. Ponticelli non ha strade, ha lettere d’alfabeto. Però è strana lo stesso, questa faccenda, notano anche i membri di Soccorso Legale. C’è questa mamma che “si era recata in camera da letto […] lasciando la figlia neonata da sola nella stanza accanto,[la rom] sarebbe riuscita a “prendere” la neonata, slacciandola dal suo seggiolone, e a uscire dall’appartamento, il tutto in pochissimi secondi, senza produrre il minimo rumore e senza provocare il pianto della bambina”. A un certo punto la madre della bambina, che fino a quel momento non si era accorta assolutamente di nulla, “[…] vedeva finalmente la quindicenne rom sul pianerottolo in procinto di allontanarsi con la neonata in braccio; riusciva, dunque, a strappare la figlia dalle braccia della rapitrice, a bloccarla e a farla arrestare, coinvolgendo una folla che si è subito scagliata violentemente contro la piccola rom”.
E’ la stessa polizia a trovare inverosimile la ricostruzione. E poi c’è un altro fatto. E’ un blogger napoletano a ricostruirlo.
“La bambina è la nipote del “ ‘O Cardinale”, un personaggio molto noto del quartiere. Difficile che uno può rubare a casa sua. La donna abita in uno stabile di tre piani , tutto occupato dalla famiglia Martinelli”.
E nessuno la ferma, nessuno interviene, la bambina non piange.
I giornali soffiano sul fuoco, la furia monta, i partiti invitano alla cacciata. Anche il PD.
Il blogger cerca di parlare con gli abitanti. “Voi vorreste fare il giusto”, gli rispondono quando va bene “ma qua, sentite a me, il giusto non si può fare proprio più, questa è brutta gente, è gente che se ne approfitta e noi ci dobbiamo salvaguardare”.
Salvaguardare.
Giorni dopo, nel pomeriggio del 12 maggio, scoppia la rivolta popolare: centinaia di abitanti del quartiere fanno irruzione nei campi e danno fuoco alle baracche abusive, mettendo in fuga tutti i nomadi che vi abitavano. C’è un’immagine con una donna rom che cerca di proteggere i suoi bambini dagli sputi. E’ difficile dimenticarla.
Ma c’è qualcosa che non è noto. La polizia , che dubita della versione ufficiale, apre un’indagine contro ignoti per reati di calunnia e procurato allarme. I familiari della madre , che ha montato la storia, vengono intercettati per mesi per capire i motivi della messinscena. Gli ignoti della propagazione della calunnia non saranno mai trovati . Nel rapporto consegnato ai magistrati gli investigatori esprimono fortissimi dubbi sulla verosimiglianza di quanto accaduto a Ponticelli.
C’è un’altra cosa che non è nota. O non troppo. La maggior parte delle baracche rom era sorta sui terreni del cosiddetto “Piano di recupero urbano” di Ponticelli, approvato in febbraio dal Comune, con una clausola: se i lavori non fossero cominciati prima del 4 agosto, sarebbe decaduto il finanziamento del ministero. Per cui, c’era fretta.
Il clan di Ponticelli è il clan camorrista dei Sarno. Il giovane che ha diretto gli attacchi contro il campo nomade è uno dei nipoti del cugino del sindaco di Ponticelli, Ciro Sarno, che dal carcere continua ad essere il boss del quartiere.
A campi sgombrati, la direttrice del Dipartimento delle Infrastrutture e dei Trasporti del Comune di Napoli, Elena Carmelingo, con le ceneri ancora fumanti, ha disposto che i tecnici andassero nel quartiere per cominciare a progettare il Palaponticelli. È un progetto storico, “venduto” così nel sito internet del Comune: “Il più grande multiuso in Italia, una Casa della Musica, della Cultura e degli Spettacoli che avrà una capacità di 12.000 spettatori, con spazi annessi per attività culturali, sociali, di attività commerciali e di ricreazione, realizzato interamente con investimento privato, che riempirà la carenza nel capoluogo di provincia campano e nel sud Italia, di luoghi coperti per concerti e altre attività legate alla cultura, alla musica e allo spettacolo, consentendo alla città di far parte dei giri musicali più significativi a livello internazionale”. Il disegno definitivo insiste meno sulla musica: ci saranno 11.000 metri di sala da concerti e 44.000 per il centro commerciale.
Inoltre.
Quando i tizzoni non si erano ancora spenti, l’allora ministro Maroni ha annunciato che sarebbe cominciato il censimento di tutti i nomadi d’Italia, inclusi i bambini. Di fronte alle denunce di Commissione e Parlamento europei, ha fatto retromarcia decidendo di applicare la normativa solo agli adulti. A luglio, 30 famiglie nomadi hanno avuto il coraggio di tornare a Via Argine. Prima che gli venisse dato il tempo di sistemarsi, gli abitanti incendiarono i luoghi dove si erano accampati. “Un avvertimento contro il loro ritorno”, dissero i ragazzi del quartiere.
E Angelica? E’ la prima condannata per tentato rapimento di bambini.
Commenta il quotidiano spagnolo El Pais: “La politica di repressione contro rumeni e zingari in Italia si è estremizzata. Angelica, una rumena di 16 anni, accusata di aver tentato di rapire una bimba a Napoli il maggio scorso, è stata condannata a quasi quattro anni di carcere nonostante le irregolarità e la mancanza di prove valide nel processo. Dietro la sentenza giuridica si intrecciano una serie di interessi politici e cittadini. E la mano della Camorra”.
Giusto, i titoli dei giornali su Ponticelli.
“Rivolta a Napoli: siamo ostaggio degli zingari” (Il Giornale, 13 maggio 2008)
“Campi nomadi, adesso basta” (Il Tempo, 14 maggio)
“Napoli si ribella: assalto al campo rom” (Padania, 14)
“Obiettivo: zero campi rom” (Il Giornale, 14)
“Così i rom vendono i bambini” (Il Giornale, 19).
Quanto ai telegiornali, mostrano – come ricorda il maestro di strada napoletano Marco Rossi-Doria – “gruppi di donne nel quartiere che ballavano e urlavano come nelle feste delle orde; esaltavano la vendetta contro la comunità rom in quanto tale, rea di essere tutta intera ladra di bambini. Un adagio cupo, che fin dal Medioevo ha accompagnato l’attacco agli ebrei e agli zingari d’Europa, fino alla Shoah”.
Non è finita, naturalmente.
In quello stesso maggio 2008, da Catania, si denuncia il tentativo di rapimento di un bambino nel parcheggio di un supermercato. Titolo di Repubblica: “Tentano di rapire una bimba, bloccati due rom”. Poi, per fortuna, ci sono gli studenti e giovanissimi cronisti di Step1. Vanno a indagare di persona: scoprono che i due rom arrestati, marito e moglie di vent’anni, frequentano abitualmente quel supermercato. Scoprono che la denuncia della madre è incerta. Scoprono che le videoregistrazioni delle telecamere puntate sul parcheggio sono state distrutte. Scoprono che il procuratore di Catania ha serissimi dubbi. La coppia viene prosciolta. Ma il campo rom vicino al supermercato è stato sgomberato. Nessun giornale riporta la notizia.
Non è finita, non finisce.
Un caso a ottobre, a Firenze. Una donna sostiene che due rom stanno per rapirle il bambino all’uscita – ovviamente – dell’ipermercato. Non era vero. E, clamorosamente, si arriva a giugno di quest’anno. A Prato tre persone indicate come rom si sarebbero avvicinate a un terrazzo per afferrare un bambino che si trovava sul medesimo. Un unico testimone li avrebbe scoraggiati. Tre persone vengono fermate e interrogate. Il vicino non li riconosce. La caccia prosegue, i campi vengono setacciati, i giornali gongolano (ma il bambino non è stato toccato, non ha urlato, non si è accorto di nulla). La sera stessa i telegiornali rilanciano: un neonato è stato rapito in provincia di Salerno, in ospedale. Si segue la pista rom. Vengono perquisiti i campi della zona.
Il rapimento era vero. Era stato commesso da una donna italiana. 29 ottobre 2010.
Il Comitato europeo per i diritti sociali si esprime contro l’Italia. Critica soprattutto le misure di sicurezza che, sulla scia di quel novembre 2007, vennero infine adottate nell’ambito della cosiddetta “emergenza nomadi”.
Secondo l’organo del Consiglio d’Europa, il Governo italiano non ha adottato misure sufficienti per contrastare la stigmatizzazione dei Rom. Anzi, con i “patti di sicurezza” avrebbe al contrario dimostrato “come le proprie politiche rispondano più a preoccupazioni di pubblica sicurezza piuttosto che a considerazioni di integrazione sociale delle popolazioni Rom e Sinti, con ciò aggravando ulteriormente la situazione di segregazione delle medesime”.
Lo sapevate?
Penso di no.
Vi sentite più sicuri, dopo quelle misure?
Penso di no.
Sono passati anni e anni.
Non ho nulla da insegnare. Non ho morali da offrire.
Offro solo quello che ho visto, quello che ho letto.
“In un’epoca di disordini, i demoni si mescolano agli uomini e gli uomini a loro volta li frequentano senza averne paura.Quanto il paese è governato, sia gli dei sia i demoni si nascondono senza lasciare tracce.
Non esiste più il meraviglioso”
Ueda Akinari

2 pensieri su “PAROLE. NOMI. STORIE DI ROM.

  1. Grazie Loredana per questo post così importante. Credo di aver già raccontato quello che sto per scrivere, ma lo faccio comunque perché spero sempre che sia utile. Anche se su questo argomento mi pare che quel muro di pregiudizi e razzismo di cui parli sia così possente da essere inscalfibile. Ho fatto il mio tirocinio universitario nel doposcuola di un quartiere popolare di Bologna. Lì veniva una ragazzina Rom che si è affezionata a me. Viveva insieme ai suoi genitori e a 4 fratellini e sorelline più piccoli in una roulotte, nel parcheggio della sede di un’associazione. Erano tutti analfabeti, a parte una sorellina e un fratellino che andavano a scuola e cominciavano a imparare. Anche la ragazzina più grande andava a scuola, ma non riusciva a imparare a leggere e a scrivere. Non so se avesse un problema di apprendimento, un problema di dislessia o se semplicemente le mancasse il tempo di studiare, dato che doveva occuparsi di quattro bambini. Le altre educatrici se ne lavavano le mani, con la scusa che era seguita dai servizi sociali. Questi ultimi hanno lasciato lei e la sua famiglia per minimo un anno a marcire nel fango. Uno dei fratellini più piccoli aveva la scabbia. La madre aveva 27 anni, 5 anni più di me, e ne dimostrava almeno 50. La nonna è morta a 40 anni, di vecchiaia secondo la ragazzina. I rom vivono in Europa, in Italia e persino nella ricca Bologna come si vive (e si muore) nei paesi più poveri del mondo. Un rom che vive in Italia muore in media 10 anni prima di un italiano (fonte https://www.lastampa.it/2014/01/28/vaticaninsider/rom-aspettativa-di-vita-inferiore-di-anni-alla-media-9E72357moQDUrcDhMFKJ7K/pagina.html). Mai e poi mai una famiglia con 5 bambini sarebbe stata lasciata senza tetto, nella sporcizia, nella ricca Bologna. Ma loro sì, perché erano rom. Ovviamente i genitori della ragazzina non lavoravano. E che cavolo di lavoro vuoi fare se non sai leggere? Vivevano di elemosine e del cibo che gli passava l’associazione accanto a cui vivevano. Magari rubacchiavano pure. E che dovevano fare? Non ci vorrebbe tanto. Basterebbe trattarli come il resto della popolazione. Se sono così poveri da non avere un tetto, dargli una casa popolare. Far sì che i bambini possano avere un minimo di stabilità per andare a scuola. La madre della ragazzina si era sposata a 13 anni e aveva cominciato a sfornare figli. Lei, che pure non ha mai imparato a leggere e scrivere, ha resistito fino ai 16. Si è sposata in Francia, mi ha detto quando l’ho rincontrata per caso, e lei e suo marito, un coetaneo, erano così poveri che morivano di fame. A dimostrazione del fatto che in altri paesi le cose non vanno poi tanto meglio che da noi. Lui poi è finito in carcere per furto e lei è tornata in Italia. Qui ha finalmente avuto una casa popolare con il figlio che nel frattempo ha avuto. Lavorava due ore a settimana facendo le pulizie. Lei e il suo bambino erano puliti, sani, e aveva uno sguardo orgoglioso, serio, incredibilmente adulto per una ragazza di 18 anni. Ripeto, non ci vorrebbe tanto. Basterebbe trattarli come tutti gli altri.

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