L’uroboro si morde la coda da millenni, e che sia serpente o drago poco conta. Certamente è stato interpretato come simbolo del ciclo vitale, di morte e rinascita, di potere immobile e continuativo. Mi sembra, al momento, che l’antica creatura simboleggi soprattutto la nostra impossibilità di uscire dalla solitudine.
Sono giorni come tanti, in cui, come spesso avviene, ci si scontra sui social, e sui social si viene aggrediti, e c’è sempre qualcuno pronto ad aiutare chi aggredisce in nome di un’ingiustizia percepita come propria: si tratti di lavoro, di soldi, di successo.
Non c’è da stupirsi, naturalmente, perché funziona così: si ritiene che l’altro o l’altra, colui o colei che sembrano premiati da un successo che noi riteniamo non meritato perché non tocca a noi, ci sottraggano qualcosa, che quella polverina dorata che immaginiamo piovere sulle vite altrui spettasse alla nostra persona, ed è sul meccanismo del rancore che conta, consapevolmente o meno, chi decide di additare l’altro o l’altra di cui si parla bene alla vendetta degli altri. Ci sarà sempre chi ci verrà dietro, ci sarà sempre chi sentirà il richiamo di quello che sembra un riscatto, una voce data agli invisibili, a quelli tagliati fuori da quel che appare potere o magari lo è davvero, a quelli che ritengono che l’insuccesso non sia mai propria responsabilità (e spesso hanno anche ragione, ma non sempre, non sempre) ma altrui elitaria chiusura e presunto disprezzo.
Ogni volta che accadono cose del genere, sto male. Sto male per chi è colpito soprattutto, ma anche, in un certo qual senso, per chi colpisce con crudeltà efferata e senza capirla, o capendola troppo tardi: perché non è che accusando altri del proprio fallimento, o semplicemente dell’essere nel medio, che è già cosa che dovrebbe rendere soddisfatti, si stia meglio. Non ci si sente meno soli, intendo, se non per lo spazio brevissimo di una polemica, dimenticata già dopo poche ore, il tempo di pensarne un’altra, o di essere vittima di un’altra. Non cambia niente, proprio niente.
E ogni volta penso che non impariamo, che non facciamo un passo avanti, che ci mordiamo la coda, che non sappiamo niente gli uni degli altri, perché la conoscenza social è un’illusione, e ognuno dice di sé solo quello che vuole far sapere (cosa pensate di sapere di me, a dispetto delle foto di gatti e di famiglia, di treni e città, di microfoni e libri? Oh, poco, molto poco: come io stia davvero è faccenda che neanche gli amici più cari sanno, perché mi hanno disegnata così nel lontano Novecento).
Forse, allora, dovremmo prendere il Gioco per quel che è, svicolare dalle tentazioni, ignorare i giornali che attingono a piene mani dai social per trasformare uno status in dichiarazione o in notizia, respirare a fondo prima di scrivere o non scrivere affatto se non quando siamo certi di quel che stiamo per fare. Le solite regolette da vecchia zia, dunque un niente. Oppure, come sempre, aprire il sito di Radio radicale e ascoltare cosa diceva Saskia Sassen a proposito della nostra solitudine, giusto tre anni fa: qui.