Come promesso, pubblico qui il mio intervento a Multi del 1 ottobre, come contributo alla discussione sugli Stati Generali dell’Immaginazione.
Che fine hanno fatto le storie?
Perché spesso, a forza di decretare la morte del romanzo, si rischia l’effetto Pierino e il lupo, perché ogni tanto qualcuno, circa intorno all’equinozio di primavera, afferra la tastiera e scrive che il romanzo è morto. Quasi sempre aggiunge per colpa delle scrittrici che sono troppo sentimentali e intossicano i lettori.
Però a forza di dirlo non ci si rende conto che le cose stanno davvero cambiando, anzi, che i lettori sono già cambiati e che l’editoria si adegua ai lettori, e dunque, per forza di cose, anche i premi letterari che del mondo dei libri sono specchio. Infatti, i vincitori e la cinquina del Premio Strega e del Premio Campiello di quest’anno sono un chiarissimo indicatore di quel che avviene, a volerlo vedere. Fra parentesi: non si discute in alcun modo della qualità di quei libri, che sono tutti, va sottolineato più volte a scanso di equivoci, di altissimo livello per quanto riguarda lo stile e la lingua e l’inventiva. Si discute, invece, di una tendenza che è in atto non da oggi ma che in questo 2023 raggiunge il suo culmine.
Dunque, dei cinque finalisti dello Strega, soltanto uno è un romanzo a tutti gli effetti: Mi limitavo ad amare te di Rosella Postorino. Romanzo storico o delle emozioni non importa, romanzo è. Rubare la notte di Romana Petri, che ha la magnifica scrittura che è propria dell’autrice, è una biografia (di Antoine de Saint-Exupéry) elevata a fiction, ma pur sempre proveniente dalla realtà. Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone è uno struggente memoir, che racconta la breve vita della madre biologica dell’autrice. Del padre parla Andrea Canobbio in La traversata notturna, mentre il vincitore Come d’aria di Ada D’Adamo è un ulteriore memoir sulla malattia della figlia e dell’autrice stessa, morta pochi giorni dopo la proclamazione della dozzina.
Veniamo al Campiello, dove D’Adamo non è in gara ma ha ottenuto una menzione speciale. Anche qui, il romanzo è uno solo, Centomilioni dell’esordiente Marta Cai. Gli altri (ripeto: tutti libri molto belli e importanti) no: La Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi, che ha vinto, è un saggio, La Sibilla di Silvia Ballestra è una biografia (di Joyce Lussu), come, in termini molto ampi, Diario di un’estate marziana di Tommaso Pincio (su Ennio Flaiano), mentre In cerca di Pan è la raffinatissima esplorazione nel mito cui Filippo Tuena ci ha abituati da anni (e dunque è libro a sé, che non rientra in alcuna categoria).
Dunque, nella stragrande maggioranza dei casi, si può dire che dai libri candidati si evince che in questo preciso momento a chi scrive si chiede di raccontare storie vere: proprie o di altri non importa, ma vere. Non spetta a questo me, ovviamente, stabilire cosa sia letteratura e cosa no: l’intenzione è semplicemente prendere atto che esiste un principio di realtà che oggi viene richiesto con forza ai libri.
Per inciso, alcuni scrittori se ne sono accorti. Massimo Carlotto e Patrick Fogli, che sono scrittori di finzione (fa un po’ impressione scriverlo, in effetti, come se la finzione fosse una sottocategoria) hanno indetto per il oggi, in questo momento, una giornata di confronto e discussione sullo stato delle cose, e questo sarà uno dei punti.
Ma nulla nasce da un giorno all’altro, e tutto questo comincia da lontano.
C’è una data possibile per capire la diffusione contemporanea dell’autofiction, che non è semplicemente una postura letteraria o una moda editoriale, ma la conseguenza di una mutazione non dissimile da altri spartiacque, dall’invenzione della stampa alla nascita di quella televisione definita paradossalmente “della realtà”. La data è il 2006: l’anno in cui Time uscì con una copertina a specchio dove il lettore poteva vedere il proprio volto riflesso e sentirsi “persona dell’anno”, come l’anno prima i tre “buoni samaritani” Bono, Bill e Melinda Gates e l’anno successivo, ma guarda, Vladimir Putin. Erano gli anni Zero, e dunque il momento felice dei blog, dei fanwriter, dei videogamers, della cultura popolare che invece di essere indirizzata dal mercato si indirizzava da sola, trasformando i consumi in partecipazione. Almeno, così credevamo: credevamo che quello You, quel Tu che campeggiava sulla copertina di Time fosse la prima fiammella di un immaginario a cui tutti avremmo potuto contribuire con le nostre parole e le nostre immagini e che la scrittura, la fotografia, la musica, si sarebbero aperte al contributo di una moltitudine geniale.
Non è andata esattamente così: e avremmo dovuto immaginarlo già dalla stagione, immediatamente precedente, dei reality televisivi: perché quel “Tu” significava anche che il concetto stesso di realtà veniva sdoppiato. Chi erano davvero, infatti, i concorrenti del Grande Fratello? Quelli che venivano mostrati in televisione coincidevano con le persone reali oppure Salvo, Rocco e Marina interpretavano un ruolo dove la propria personalità veniva levigata, abbellita oppure esasperata ad arte? Più tardi, avremmo imparato che erano vere le due cose, allo stesso modo in cui, quando ci scattiamo un selfie, il nostro volto è reale ma viene schiarito e reso luminoso grazie ai filtri prima di diventare pubblico su Instagram.
A intuire che la televisione non era un oggetto narrativo con cui giocare impunemente fu David Foster Wallace, che nel 1990, in E Unibus Pluram, scrisse che la cultura televisiva si era evoluta a livelli così alti da sembrare invulnerabile, fino a inglobare la stessa letteratura:
“La realtà è che, da almeno dieci anni a questa parte, la televisione astutamente assorbe, omogeneizza e ripropone la stessa cinica estetica postmoderna che una volta incarnava la migliore alternativa alla seduzione della letteratura bassa, commerciale, ultra-superficiale. Capire come la televisione sia riuscita a far questo è sinistramente affascinante”.
Poi sono venuti i reality. Poi è venuto Facebook. Nel 2007, quando cominciò a diffondersi in Italia, Facebook era ancora innocente e teneva separate realtà e rappresentazione: chiedeva all’utente di scrivere in terza persona, come in un possibile romanzo che raccontasse il mondo. I like non c’erano. Arriveranno nel 2010 e nel 2011 si passa alla prima persona, e a quel punto la narrazione, piccola o grande, comincia a coincidere con la realtà. Da allora, non c’è stato più bisogno di guardare le vite degli altri in un reality. Siamo quel reality, o quell’autofiction: senza produttori televisivi e senza editori. Basta scrivere, e scrivere “io”.
Che i social abbiano condizionato i lettori è, temo, un fatto: noi trascorriamo ore a leggere le vite degli altri, in ogni dettaglio e, letteralmente, dalla nascita alla morte. Ci inteneriamo sul braccialetto posto al polso di un neonato, conosciamo ogni fase della sua crescita, dallo svezzamento alle prime parole all’asilo nido. E se siamo costanti arriviamo all’adolescenza e alla laurea con la coroncina di alloro in testa, e persino al matrimonio. Conosciamo la morte, in virtù del racconto che i familiari ne fanno: e a volte la vediamo, o meglio vediamo una mano inerte stretta dal figlio o dalla figlia. Conosciamo la malattia: spesso, in ogni dettaglio, a volte persino in video, quando qualche genitore colpito di Alzheimer viene filmato dal figlio o dalla figlia. E tutto il resto: le scarpe nuove che abbiamo acquistato, il vassoio di sushi di cui ci cibiamo, la pila di libri sul tavolo, il tavolo stesso ricollocato in nuova casa dopo un trasloco. Accogliamo nella nostra vita ciò di cui quelle degli altri si compongono, e scriviamo insieme forse un database, sicuramente una storia collettiva, con le piccole e grandi cose che la costruiscono Un nuovo paio di scarpe. Una coppa di gelato o di vino o di macedonia. L’imbarco in aereo. Ai tempi della pandemia: il primo selfie con la mascherina. Più avanti: tutti i selfie con la siringa che si infila nel braccio per il vaccino. In tempi normali: le prime parole dei figli, le seconde e le terze, le pagelle, la laurea con la corona d’alloro (e poi il matrimonio e i nipotini e si ricomincia). La pelle liscia del cranio durante una chemioterapia. La confessione di un nuovo amore. L’annuncio di un suicidio.
Siamo avidi, e mai sazi, delle vite degli altri, e questo chiediamo oggi e con decisione alla narrativa. Che, per millenni, ha certamente raccontato il vero ma trasfigurandolo in finzione: cosa sarebbe, oggi, Moby Dick, se non il diario di un’ossessione narrato dalla voce non di Ismaele ma di Achab? Ed è per questo che in luogo di quella che veniva chiamata Alt Lit (Alternative Literature, la letteratura che nasce con l’immersione in rete), oggi nasce e prospera la Selfie Lit o semplicemente autofiction: si usano parole diverse per raccontare la stessa cosa. Noi stessi. Non è una moda ma una mutazione, simile e diversa a quella che ha permesso di passare, grazie agli smartphone, dalle cartoline con il Colosseo al selfie con se stessi in primo piano e il Colosseo alle spalle. Non più “guarda questo”, ma “guarda dove sono”. Non più finestre, ma specchi.
Ora, non necessariamente gli specchi dicono la verità come chi scrive autofiction pretende e come chi legge desidera. L’esigenza del vero, in effetti, precede i social. In una gloriosa intervista di Joyce Carol Oates a Margaret Atwood, pubblicata nel 1978 sul New York Times, Atwood racconta: “I lettori a volte si sentono ingannati quando dico loro che un libro non è autobiografico, cioè che gli eventi descritti non sono accaduti a me. Stavo parlando di questo durante una lettura, spiegando che il personaggio centrale non ero “io”. Poi ho letto un capitolo di “Lady Oracle”, dove la ragazzina grassa frequenta la scuola di ballo. La prima domanda al termine della lettura è stata: “Come hai fatto a perdere così tanto peso?””
Ma l’inganno c’è comunque. L’autofiction è come il selfie: ovvero, come sostiene il sociologo olandese Geert Lovink, un atto di protezione nei confronti del nostro io: “Il selfie non è uno strumento per conoscere se stessi, ma per controllare se stessi”. Per eliminare rughe e cellulite, mostrandoci più giovani e magri, e ugualmente levigando e rendendo accettabile, in un libro, anche la parte oscura delle nostre vite. Probabilmente, tutto questo non viene percepito come finzione da chi scrive, e neanche da chi legge. Vero o falso, non importa più.
Poi ci sarebbe anche altro da sottolineare: che la nostra attitudine alla veglia continua e il nostro culto del realismo sono il sintomo di un perenne disincanto che ci accompagna da molto tempo. Ma, per rimanere alla letteratura, almeno qualche interrogativo andrebbe posto, davanti a quello specchio che ci pone davanti senza permetterci di attraversarlo.
E allora la domanda è: “Siamo ancora capaci di pensiero magico?” Lo si chiami immaginazione, mito, irrazionale, qualunque sia il nome che vogliamo dare alla percezione del non tangibile, lo possediamo ancora? E, se lo possediamo, possiamo parlarne senza timore di essere tacciati di anti-illuminismo? Prendiamola alla lontana: mentre lavorava alla raccolta di fiabe e folklore irlandese (Irish fairy tales and folklore esce peraltro in volume unico ad aprile per Clydesdale), William Butler Yeats si imbatté in Mrs. Connolly, che conosceva un numero sterminato di storie sulle fate. Dopo averla ascoltata per un giorno intero, Yeats la ringraziò e intraprese la via del ritorno, ma si fermò dopo pochi passi, si girò e le chiese: “Un’ultima domanda, Mrs. Connolly, se posso. Lei crede nelle fate?” La donna rise: “Oh, no, no davvero, Mr. Yeats, no davvero.” Yeats si avviò, non sappiamo se tranquilizzato o deluso, ma Mrs.Connolly aggiunse: “Ma ci sono, Mr. Yeats, ci sono.”
Va bene, era Yeats, ed erano tempi lontani e diversi. Inoltre, Yeats era un poeta e uno scrittore, ed è ancora accettabile l’idea che in ambito letterario si possa scrivere di fate e di magia. Avviciniamoci, allora. Data imprecisata tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta: Lisa Morpurgo, che lavora come traduttrice e responsabile dei diritti esteri per Longanesi, si è appena avvicinata all’astrologia, che diventerà infine la sua professione. In una delle fiere internazionali del libro (probabilmente la Buchmesse di Francoforte) traccia i suoi primi temi natali a Gabriel Garcia Márquez e Dino Buzzati, che se ne compiacciono e la incoraggiano. Lo racconta Melissa Panarello in un libro della collana Mosche d’oro di Giulio Perrone: appunto, Lisa Morpurgo. Quando l’ho letto ho pensato che se oggi Don DeLillo o Claudio Magris raccontassero di essersi fatti fare un tema natale molte sopracciglia si inarcherebbero, o peggio.
Infatti, in una ferocissima discussione pro o contro l’astrologia che si è svolta un anno fa in rete, proprio Melissa Panarello, a sua volta astrologa, ha provato a ragionare sul punto ed è stata
massacrata al grido di oscurantista, superstiziosa, ciarlatana e reazionaria. In quell’occasione è tornata a circolare sui social un’antica vignetta che si chiama Scientist Hell e mostra Satana in persona che apre la porta dell’inferno a uno scienziato. Dentro c’è un gruppo di donne che discute di oroscopi. Quasi non si vedesse l’ora, da parte di molti, di riesumare certe convinzioni ancora vive sottotraccia sulla stupidità femminile che crede agli astri e ai tarocchi.
La dicotomia che vuole il razionale da una parte e dall’altra i millenaristi sembra diventata profondissima. Passi, appunto, scrivere romanzi non realistici, ma se si ragiona di irrazionale al di fuori dei libri si finisce accomunati nel vasto gruppo di terrapiattisti e, ecco il punto, complottisti.
E’ probabile che avvenga il contrario, invece, e che i seguaci di QAnon si approprino di quel territorio dell’incanto che è stato lasciato libero e anzi condannato. Come scrive Francesco Dimitri in Il potere della meraviglia (Rizzoli), “Ci viene detto che la modernità ha dissipato il nostro senso di meraviglia perché ci ha reso più forti: così forti, in effetti, da non avere più alcun bisogno della meraviglia. È vero il contrario. La modernità ci ha resi più vulnerabili per certi aspetti, e abbiamo dovuto rinunciare alla meraviglia perché non sappiamo più come gestirla”. La meraviglia, in effetti, non si tocca, non è monetizzabile, porta persino pochi like: meglio abbandonarla.
Ancora. L’antropologa Stefania Consigliere, in Favole del reincanto, uscito per DeriveApprodi, dice di più: alziamo gli scudi contro chi sostiene che di mito e di sogno è intessuto il mondo tutto, incluso quello che non vediamo, perché si ritiene indispensabile che l’individuo sia “auto-centrato, autosufficiente, nel pieno possesso delle sue capacità razionali, in stato di veglia, identico a sé”. Leggo:
“Per vivere come viviamo, siamo tenuti a separare continuamente ciò che sappiamo da ciò che ci muove, ciò che sentiamo da ciò che facciamo, in un regime psicopatologico di dissociazione e impotenza. Non sorprende, allora, la diffusione epidemica del disagio mentale: più di metà dei nostri concittadini fa o ha fatto uso di psicofarmaci regolarmente prescritti; quasi tutti, per arrivare in fondo alle giornate, impieghiamo una varietà di sostanze legali e illegali; mentre i più giovani, l’asettica «fascia pediatrica» delle statistiche, danno di matto come non mai.
Tanto basta per intuire tempi difficili. Eppure manca ancora qualcosa, l’enzima capace di precipitare i problemi in incubi: è la paralisi dell’immaginazione, l’incapacità di guardare oltre le mura della prigione che ci sta soffocando”.
E allora parliamo di solitudine. Ogni volta che si discute della mancanza del senso di comunità (reale e non fittizia: qualcosa in cui riconoscersi, una strada su cui camminare insieme, come altri hanno fatto) si finisce a chiedersi cosa ci unisce, in questi strani tempi: quello che manca è proprio quello che veniva chiamato mito, ovvero la possibilità di una narrazione comune che includa e non escluda. Anche per questo, purtroppo, ci saranno sempre pessimi incantatori, da QAnon in giù, cui si tende a credere. Se si fanno sberleffi al pensiero magico, se si riduce la capacità di desiderare al solo tangibile, tutto rispunta proprio dove non vorremmo vederlo. Se si crea la spaccatura fra scienza e paccottiglia e se si confonde la scienza stessa con scientismo, si crea una disunione tossica quanto falsa.
Lo scrittore cileno Benjamin Labatut, autore di Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi) lo sottolinea con chiarezza in un’intervista: “La vera scienza sospetta sempre che dietro ogni sua scoperta giaccia qualcosa di più profondo, oscuro, strano. La sua più grande virtù è l’infatuazione per il mistero, un desiderio di sapere perseguito con lo stesso fervore con cui i santi desideravano il contatto con il Verbo”. E in un’altra dice: “Mentre camminiamo come sonnambuli attraverso la vita, senza mettere mai in dubbio la realtà o le cose strane, e sono molte, che succedono intorno a noi, ogni volta che andiamo a letto e sogniamo, ci ricordiamo che c’è una parte enorme della fenomenologia umana che sfida il modo di pensare razionalmente ordinato che usiamo per sopravvivere”.
E ancora Stefania Consigliere:
“Avvicinarsi al confine che separa il conoscere dal credere, la scienza dalla magia, il razionale
dall’irrazionale significa, nel Vecchio Mondo, correre due rischi. Il primo è quello epistemologico della squalificazione, del bando dalla città dei Lumi. Il secondo è quello politico dell’accostamento al mix di machismo, superomismo, banalizzazione, risentimento, arroganza e prevaricazione comunemente noto come «fascismo». Ci sono eccellenti ragioni perché, in Europa, le cose stiano così. Altrove, dove il totalitarismo storico non ha catturato e traumatizzato intere generazioni, negli ambienti della sinistra si può ragionare senza troppi preamboli di reincanto”.
Quando è avvenuta, quando si è fatta forte la spaccatura? Forse negli anni Zero, quando molto è cambiato nel nostro tempo. Ed è cambiata, molto, la sinistra. Come scrive ancora Stefania Consigliere:
“la sinistra ha disertato l’immaginario. Non solo: l’ha squalificato e ignorato. Un errore storico di proporzioni madornali, perché ha comportato la smobilitazione di intelligenza e sensibilità dal terreno più cruciale per qualsiasi forma di cambiamento. Anziché abbandonare l’immaginario agli avversari, avrebbero dovuto impedir loro di incatenarlo, pervertirlo e violentarlo a piacimento”. E oggi ci troviamo “nell’urgenza di curare le devastazioni portate nella zona più umbratile e cruciale del divenire umano. Stentiamo a comprendere il senso profondo, antropologico, di fenomeni come i rave, la ricerca del sacro presso altre culture, i dispositivi di fuoriuscita dalla corazza soggettiva”.
Quindi, guardiamo dove siamo:
“Oggi sperimentiamo sulla nostra pelle il dilagare di uno spazio esistenziale unico dove sparisce finanche l’intimità dei soggetti: nessuna parte di vita è sottratta allo sguardo pubblico e persino lo spazio del sonno è soggetto a un attacco senza precedenti. L’intero del soggetto si fa fungibile: le
profondità esperienziali che si aprivano nella noia, negli stati non ordinari, nei viaggi e nell’attesa si sono assottigliate; l’infanzia è irreggimentata; non esistono zone liminari di trasformazione, né tempi per occuparsi delle cose del mondo altro (o degli altri mondi o delle altre parti di noi). Da questo mondo unico, soprattutto, è bandito l’evento: l’irrompere di qualcosa di imprevisto, dell’irriducibile, dell’altrimenti. Forse per questo chiamiamo «evento» qualsiasi ripetizione spettacolare, mentre l’incontro con un evento vero prende spesso la forma del trauma”.
E’ un bel guaio per la letteratura se la accostiamo alle storie. Penso a un libro che ho amato molto La verità su tutto, il romanzo di Vanni Santoni (Mondadori): una storia-manifesto, che attraverso il misticismo e la psichedelia narra di come le reti di socialità spezzate trovino, forse, una nuova possibilità, come avviene del resto, fuori dalla narrazione, in quello che viene chiamato Rinascimento psichedelico significa che non sempre la spiegazione illuminista è sufficiente: non lo è stata in passato, non lo è oggi. Provare a comprendere il mondo non significa impedire di sognarlo. E capirlo significa non respingere il razionale, ma ammettere l’irrazionale.
Di cui è stato Roberto Calasso a dare la migliore definizione: “sotto l’etichetta di quell’incongrua parola, disutile al pensiero, si trovava di tutto. E si trovava anche una vasta parte dell’essenziale. Che spesso non aveva ancora accesso all’editoria italiana, anche e soprattutto per via di quel marchio infamante”.
Tutto quanto detto, attenzione, non è un giudizio di valore. Esistono autofiction di altissima qualità letteraria, quelle di Ernaux e Siti e Carrère, per citarne solo tre, e nate certamente sotto altro impulso. Quel che colpisce, e preoccupa anche, è la mutazione dell’immaginario, non solo letterario: da finestra a specchio, appunto, da narrazione del mondo alla narrazione della piccola porzione di mondo in cui si muove chi scrive, o si è mossa la sua famiglia, sua madre, suo padre (il numero di romanzi sui padri aumenta mese dopo mese). E quell’immaginario del sé sta cambiando oggi la letteratura, ma ha già cambiato la politica, l’informazione, l’idea stessa che abbiamo di collettività.
Anche qui, qualcuno l’aveva previsto. La poetessa Adrienne Rich, che nel 1991 scrisse In quegli anni, prefigurando un mondo dove si perde traccia “del significato di noi, voi”.
In quegli anni – diranno – perdemmo traccia
del significato di noi, voi
ci ritrovammo
ridotti all’io
e tutta la questione divenne
stupida, ironica, terribile:
stavamo cercando di vivere una vita personale
e sì quella era l’unica vita
che potevamo sopportare testimoniare
Ma i grandi uccelli neri della storia strillando si tuffarono
in picchiata nel nostro clima personale
Erano diretti altrove ma con ali e becchi spazzarono
la costa, attraverso i lembi di nebbia
dove stavamo intenti a dire io.
Infine. Come è nato tutto questo? Perché diciamo io? Anche qui, passo indietro.
E’ la primavera del 1990: Alex Langer, fra i più grandi ambientalisti italiani, scrive una lettera a San Cristoforo, di cui, bambino, ammirava le statue nelle chiesette di montagna. Gli dice che lo capisce, che comprende il suo sentirsi sprecato dopo aver prestato la sua forza ai signori più illustri, e ammira il suo “sentirsi assetato” di una Grande Causa. Quella Grande Causa gli sarebbe apparsa nelle sembianze di un bambinetto da traghettare dall’altra parte del fiume, ponendolo davanti al più difficile cimento della sua vita.
Trent’anni fa, Langer individuò in uno stile di vita diverso la nostra Grande Causa: con il rovesciamento, scrisse in quella lettera, del motto dei giochi olimpici, citius, altius, fortius, più veloci, più alti, più forti. Fermare la corsa, spiegare che la competizione è truccata, anzi autodistruttiva, “il passaggio da una civiltà del “di più” a una del “può bastare” o del “forse è già troppo”: questo era il compito, e lo è ancora.
Vari lustri dopo, siamo qui a constatare la verità di quelle parole e a non riuscire non dico ad attraversare il fiume, ma a vederlo. Pensate alla campagna elettorale di un anno fa. Quel di cui abbiamo sentito parlare sono gli io, non le Grandi Cause, e nemmeno il minimo sindacale costituito dai programmi: non ce ne lamentiamo, ma anzi siamo i primi a prestarci al gioco della personalizzazione. Ci soffermiamo a commentare il costume tricolore di Giorgia Meloni, o a ridacchiare sui meme dove viene rappresentata come lo squalo di Spielberg o come Jack Torrance di Shining. Sì, ma il suo programma? C’è, ma non ne parliamo. Ancora. Indugiamo sulle immagini mariane che fanno da sfondo agli interventi di Matteo Salvini e gli confutiamo le battute sulla sinistra che non suda. Sì, ma il suo programma? Vale anche per la sinistra, in verità: anche quando i programmi, ora detti agende, esistono, seguiamo rotture e possibili alleanze più che interessarci alla prospettiva. In pratica, siamo già disposti su due file, tre al massimo, pronti a fronteggiarsi sui nomi, la prossemica, il vocabolario dell’uno o dell’altra. Invece, dovremmo esser qui a ragionare su scuola, università, diritti civili, lavoro. Su un programma, come proveremo a fare dalla prossima settimana su queste pagine.
Il motivo? Manca non il famigerato storytelling (di quello ce n’è fin troppo) ma il reincanto, ovvero la possibilità di ricostruire una comunità attraverso l’immaginario e dunque attraverso un percorso comune. Consigliere sostiene che invece di opporsi al sortilegio del capitalismo che vuole l’individuo “auto-centrato, autosufficiente, nel pieno possesso delle sue capacità razionali, in stato di veglia, identico a sé”, la sinistra ha disertato, squalificato e ignorato l’immaginario.
In altri termini, prima di lei, lo aveva detto George Lakoff, professore di linguistica a Berkeley, che nel 2004 pubblicò quella che dovrebbe essere la Bibbia dei politici, Non pensare all’elefante. Sosteneva, cioè, che ogni volta che parliamo le nostre parole riflettono come vediamo il mondo, e la nostra visione si chiama framing. Se non riusciamo a entrare nei frame mentali degli altri, possiamo dire tutte le verità del mondo, ma scivoleranno via. Se, peggio, rispondiamo al frame del nostro antagonista politico, gli facciamo un regalo gigantesco: è il suo quello che passerà. Puoi dire a chiunque di non pensare all’elefante, ma nel momento in cui lo dici, tutti vedranno un pachiderma nella stanza. Un po’ come dire: votateci, o arriva Giorgia Meloni.
Allora, invece di piazzare elefanti nelle piazze reali e virtuali sarebbe il caso di ricostruire il famigerato noi, quasi scomparso dalla circolazione a partire dai famigerati anni Ottanta, quando Margaret Thatcher lasciò cadere in un’intervista la frase più tossica pronunciata in mezzo secolo. Questa: “La vera società non esiste: ci sono uomini e donne, e le famiglie. E nessun governo può fare nulla se non attraverso le persone. La gente deve guardare prima a se stessa”.
Quella frase si è trasformata in mito. I miti si smontano costruendone altri. Nel 1995 lo scrittore Valerio Evangelisti, scomparso nell’aprile del 2022, scriveva: “Colonizzare l’immaginario. Sembrava impossibile, eppure basta disporre degli strumenti opportuni. Televisioni, mass media, una stampa docile, un trend culturale. Finisce che intere generazioni si trovano immerse in un sogno, e lo confondono con la realtà. Ora, quali sono le caratteristiche di un sogno? Che si vive una vicenda priva di antecedenti e di conseguenze nel futuro. Esiste il presente e basta”.
Sembra impossibile, ma la politica dispone degli strumenti per ribaltare il tavolo: ma ragionando sulle grandi cause più che sulle agende. Ricostruendo il noi. Il tempo è poco? Verissimo, ma almeno usiamolo bene. Appropriandoci, per esempio, di quel che scriveva David Foster Wallace (sì, di nuovo: ma gli scrittori a volte sono meglio dei social media manager, giuro) in quel meraviglioso discorso agli studenti del 2005:
“il cosiddetto “mondo reale” degli uomini, del denaro e del potere vi accompagna con quel suo piacevole ronzio alimentato dalla paura, dal disprezzo, dalla frustrazione, dalla brama e dalla venerazione dell’io. La cultura odierna ha imbrigliato queste forze in modi che hanno prodotto ricchezza, comodità, libertà personale a iosa. La libertà di essere tutti sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio, soli al centro di tutto il creato. Una libertà non priva di aspetti positivi. Ciò non toglie che esistano svariati generi di libertà, e il genere più prezioso è spesso taciuto nel grande mondo esterno fatto di vittorie, conquiste e ostentazione. Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi che non hanno niente a che vedere col sesso, ogni santo giorno. Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito”.
Questa è l’acqua, sì.