IL CONTRIBUTO DI GIULIA ABBATE: LA DISTOPIA, LE MACERIE

Giulia Abbate è una scrittrice, nonché editor, e mi manda un suo articolo scritto per Leggendaria (questo numero). Si intitola Macerie e affronta la questione della distopia. Affronta il tema con molta acutezza e la ringrazio per aver contribuito a proseguire la discussione sugli Stati Generali dell’Immaginazione.

 

 

Dopo più di quindici anni di successo, l’affermazione della narrazione distopica non è ascrivibile a una moda passeggera, e si configura come uno dei principali fenomeni culturali dei primi due decenni del secolo. Ma dopo questi anni di massiccia diffusione, la distopia può ancora dirci qualcosa? Questa forma di fantascienza sociale e di controcultura, un tempo potente dispositivo al servizio della critica politica, ha ancoa una sua funzione, dopo essere stata declinata dall’industria dell’intrattenimento in tutte le forme possibili – romanzi, serie TV, cinema, giochi di ruolo, etc. – in una vera e propria inondazione del mercato?

 

Per tentare una risposta, partiamo dalle definizioni. Nel “Manuale di scrittura di fantascienza” (Odoya, 2019) scritto con Franco Ricciardiello, abbiamo così definito la distopia: “Nasce in opposizione all’utopia, fin dal nome: consiste nell’immaginare un futuro peggiore del nostro, tramite il quale speculiamo su problematiche e tendenze che vogliamo criticare, o sulle quali vogliamo mettere in guardia i nostri contemporanei.”

Nello stesso Manuale, abbiamo distinto la distopia dal “distopico”: “si tratta di una definizione filologicamente scorretta, ma che in questo momento è talmente usata da meritare considerazione (…) Nel ‘distopico’ rientra tutto ciò che abbia in sé tratti di distopia: dai classici di Orwell e Huxley, alla space opera, alla sofisticata speculative fiction esistenzialista, fino alle saghe YA con amori adolescenziali e pistole laser. Il tratto che accomuna scritture così diverse è lo scenario del ‘futuro peggiore del presente’: e diventa il principio di definizione di un genere percepito come a sé stante, senza bisogno di ulteriori distinzioni.”

Aggiungerei oggi un altro tratto distintivo del “distopico”: lo sfruttamento commerciale da parte di un settore non specializzato, industriale, dominante e generalista (ovvero: mainstream), che presenta i “distopici” come romanzi e basta, li colloca negli scaffali della narrativa, e omette con metodo la parola “fantascienza”, che contrassegnerebbe il prodotto come qualcosa di storicamente e letterariamente più connotato.

 

Pensando a quando la parola “distopia” risultava oscura ai più, risulterebbe logico un atteggiamento comunque costruttivo: ora che la distopia è diventata popolare, se ne può ragionare con un pubblico più informato, e amplificarne il portato di critica, analisi, monito, divulgandone il valore di crescita culturale e sociale. Eppure, questo non sta avvenendo: e non solo perché non ci stiamo provando abbastanza. Risulta infatti sempre più chiaro che la “potenza di fuoco” al servizio dei prodotti “distopici” va di pari passo con l’impegno nel tenerli ben separati dal filone madre, critico e sovversivo, della fantascienza sociale: si creano prodotti ex novo, ripetitivi o persino frutto di plagio, ignorando quello che già esiste. E capita che si chiamino, all’inquadramento teorico di tali prodotti, persone che di fantascienza non sanno nulla, e anzi la considerano letteratura scadente e derivativa; senza mai coinvolgere, nemmeno dietro le quinte, chi sul tema ha invece contezza.

 

Dagli stessi prodotti “distopici” risalta la differenza sostanziale con la distopia propriamente detta: l’assenza quasi totale di critica e speculazione sociale. La “distopia” tra virgolette, quindi la forma mainstream già definita “il distopico”, presenta situazioni estreme, complesse e varie. Quello che le manca è la sostanza della distopia: “la speculazione su problematiche che vogliamo cambiare, o sulle quali vogliamo mettere in guardia i contemporanei”.

La “distopia” si concentra sulla creazione di scenari catastrofici, che con il tempo ha saputo diversificare, mantenendo però l’omissione di un tratto fondativo: l’inquietudine verso qualcosa che esiste, che si estremizza per ragioni narrative ma si connette con urgenza al reale. Manca il potenziale generativo che lascia chi legge (o chi guarda) con una domanda aperta, e con la straniante sensazione di dovere affrontare qui e ora i problemi dell’altrove futuro appena esperito.

 

Alla ricerca generativa si sostituisce una condotta tipica dell’industria dell’intrattenimento mainstream – da sempre parte del sistema dominante e luogo della sua costruzione[1], della sua giustificazione, del suo culto  – ovvero la furia estrattiva.

Vale la pena di ricordarlo: il successo della “distopia” è stato colto, voluto e alimentato, da quello che è il “braccio ideologico” dell’ecologia-mondo capitalista[2], che una distopia degna di questo nome oggi non dovrebbe esimersi dal denunciare e decostruire.

Seguiamo per sommi capi questo processo estrattivo: la “distopia” estrae dalla distopia storica il meccanismo narrativo, gli spunti letterari, le ambientazioni, il nome e il prestigio intellettuale; questi elementi sono messi a reddito e spremuti senza pietà; l’estrazione ultima è come sempre quella del valore-capitale. Intanto, si impegna a occultare il resto: la sovrapposizione del nome mira a (ottiene?) occupazione, sostituzione e appropriazione della vera distopia. A lungo andare, il pubblico non conosce né cerca altro che l’altra, la “distopia”; peggio ancora, autrici e autori non vanno oltre l’imitazione di tale liofilizzato privo di nutrienti, spacciato in luogo di cibo, dalla “Macchina M”[3] talmente insistente e pervasiva (e remunerativa, va detto) da soffocare le alternative e dipingersi come inevitabile.

 

Qui sta un conflitto esiziale: la vera distopia è una lotta contro quell’inevitabile. In ciò, distopia e utopia sono ancora sorelle: combattono e superano lo status quo – distruggendo tutto, o costruendo altro. Eppure, mi spingo ad affermare che non è casuale che l’appropriazione avvenga proprio ai danni della distopia.

Lo spirito dell’epoca aiuta: come in momenti passati, è sedotto da visioni apocalittiche. Oggi, però, c’è qualcosa di nuovo: c’è l’industria dell’intrattenimento più potente di sempre, che ha esigenze e scopi che ben si accordano ad alcuni tratti precipui della distopia. Lo scenario catastrofico garantisce tensione narrativa e intrecci apparentemente complicati (anche se basta un’analisi narratologica per ridimensionare questa impressione); il lato thriller e del conflitto suscita emozioni forti; la varietà degli scenari aiuta il posizionamento dei prodotti; e il rimasuglio della componente problematica, che è lasciato spesso sulle sole spalle dell’ambientazione, aiuta a far sentire gli spettatori più “virtuosi”, come se nel consumare quel prodotto si stiano impegnando in un attivismo. Così non è; anzi, la sovrarappresentazione di scenari peggiorativi e angoscianti produce disperazione e paralisi esistenziale. “Non siamo in grado di immaginare un orizzonte diverso, migliore, e così si genera un discorso molto reazionario e conservatore” afferma la scrittrice ed editora Layla Martinez[4]. La scrittrice Laura CZ Dominguez, del collettivo Commando Jugenstil, afferma: “Se qualcuno fa un film di un tizio che incatena una tipa per cinque anni a un calorifero, cosa che magari è successa una volta nella storia umana, quella è una ‘disamina bruciante della condizione umana’. Se qualcuno fa un film su due che si innamorano, cosa che succede migliaia di volte al giorno in tutto il mondo, allora è una roba fluffy, magica e poco realistica.”[5]

La distopia è dunque appetibile non solo come “animale da reddito”, ma anche come arma ideologica, perché diventa funzionale allo status quo, da che dovrebbe metterlo in discussione. In particolare, quando indica insistentemente la catastrofe come destino intrinseco dell’utopia trasmette un messaggio di inevitabile fallimento di qualsiasi progetto di miglioramento, o creazione di alternative. Le numerose distopie che rovesciano l’afflato utopico hanno una grande forza reazionaria, perché ci abituano a temere come sospetta e malefica qualsiasi costruzione o aspirazione per il meglio, e come pericoloso e bugiardo chi si esprime in tal senso. (Bisogna anche dire che questa tendenza è un tratto comune nella narrativa di vario tipo: l’espediente postmoderno del “rovesciamento” è ormai un retrivo stereotipo.)

Insomma, qui non parliamo “solo” di prevalenza schiacciante di una certa visione, ma anche dell’abile manipolazione culturale che si dispiega al servizio di una precisa ideologia.

Non possiamo chiedere un’azione generativa, né pienamente culturale, alla “distopia”: è una contraddizione in termini oltre che un’ingenuità. Come si fa a credere che domande e inquietudini sul presente siano favorite dal sistema che deve mantenere proprio questo presente, questo eterno ed enfio e carcerario presente, per la propria stessa sopravvivenza – inutile e nociva, slegata ormai da ogni reale necessità e diretta contro la vita stessa?

La domanda di partenza si rovescia: se è lecito dubitare che la distopia possa ancora dirci qualcosa, non è perché essa sia un dispositivo che ha esaurito la sua funzione, ma perché tale funzione è stata soffocata. Ora che essa appare esausta, come una miniera depredata in un ecosistema compromesso… cosa mai possiamo chiederle?

Forse, al posto di una richiesta, è il caso di porgerle il nostro soccorso. Tornare sul luogo della brutale estrazione, ancora sotto le grinfie dei rapaci signori dell’oro, e aggirarci caute tra le macerie, prendendoci cura di ciò che resta e vive ancora. Ma come?

Cominciando da questo? Da ciò che resta e vive ancora? Sì: è qualcosa che la vulgata le nega, ma che esiste anche nella distopia, nelle sue intenzioni, nei suoi scenari, nella sua lotta pessimista e perciò incredibilmente coraggiosa.

Parlo della speranza, naturalmente.

Anche nella distopia c’è speranza. E c’è speranza, se lotteremo e ce ne cureremo, anche per la distopia.

 

Giulia Abbate

02/03/2023

 

[1] Si legga “Dominio” di Marco d’Eramo, che ricostruisce gli investimenti di specifici gruppi nello sviluppo ideologico.

[2] Definizione mutuata da Jason Moore, “Antropocene o capitalocene?”

[3] O “Moloch”, da “Metropolis” di Thea von Harbou

[4] “E se la fantascienza ci salvasse dal fascismo?” di Franco Ricciardiello, sul suo blog “Ai margini del caos”

[5] Intervista al Commando Jugendstil, a c. Giulia Abbate, per Solarpunk Italia

Un pensiero su “IL CONTRIBUTO DI GIULIA ABBATE: LA DISTOPIA, LE MACERIE

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto