PERCHE' VOGLIO PARLARE DEL CERLETTI

Lasciate che vi racconti la storia del Cerletti: ovvero, della più rinomata Scuola enologica d’Italia, con sede a Conegliano. 133 anni di storia, un francobollo commemorativo in arrivo nel 2010, e un destino, forse, segnato. Il Cerletti è infatti un Istituto Tecnico Agrario. Come tale, potrebbe essere cancellato (insieme agli altri istituti – undici in tutto – che forniscono questa specializzazione) dalla riforma degli istituti tecnici. Nonostante il regolare numero di iscritti. Nonostante – e non dovrebbe essere un fattore secondario – il futuro lavorativo assicurato ai suoi diplomati.
Aver aperto la puntata di Fahrenheit, ieri, con il caso Cerletti ha suscitato perplessità in Valentina Aprea (“una trasmissione così importante che si occupa di questo?”).  Eppure, resto convinta che dalle storie, anche apparentemente piccole, si arrivi a ricostruire l’insieme.
Dalle storie e dalla lingua. Oltre ai contenuti, quello che mi ha colpito era la diversità di lessico utilizzato dai due interlocutori: Valentina Aprea e Girolamo De Michele, chiamati a discutere di quella che viene delineata come una dicotomia (istruire o educare?) dopo le lunghe discussioni sulla scuola partite dalla materia di studio su Cittadinanza e Costituzione. Aprea ha usato spesso la parola “successo” o “insuccesso” (riferendosi al profitto scolastico). De Michele ha parlato di cittadini.

18 pensieri su “PERCHE' VOGLIO PARLARE DEL CERLETTI

  1. Io l’intervista l’ho sentita e, vi assicuro, vale bene un riascolto. Solo che sono andata sul sito di fahre ma non sono riuscita a trovarla. Ovvero; nerll’archivio delle puntate, riascoltabili in streaming, non c’è, immagino sia solo una svista.
    Loredana ha parlato di storie e di lingua (in generale), io aggiungerei pure di ‘voce’, di toni, di inflessioni. La radio è un grande rilevatore e rivelatore di ‘non detti’, molto più che la televisione secondo me.

  2. L’intervista necessita di un commento (che prelude a una coda prossima ventura). Dopo aver menato il barboncino per l’aja, Valentina Aprea, con consumato mestiere, ha utilizzato i suoi ultimi minuti, sapendo che non ci sarebbero state repliche perché il tempo scadeva, per citare con almeno 3 “inesattezze” i rapporti in base ai quali l’avevo contestata.
    È invece rimasta senza risposta la mia richiesta di esprimersi sulla seguente dichiarazione del ministro Gelmini: «A quell’età, sei, dieci anni, non serve uno specialista di italiano e di matematica. Serve una persona che rappresenti la continuità della figura della madre».

  3. Finito ora di ascoltare l’intervista: sul caso del minorenne costretto a interrompere la scuola, il cinismo della risposta di V. Aprea (in sintesi: esistono corsi di studio che permettono di studiare e nel contempo lavorare) mi ha letteralmente steso.

  4. Quello di cui ha parlato Valentina Aprea è il quarto livello della gerarchia scolastica: i licei in alto, seguono gli istituti tecnici, poi i professionali, e infine i corsi di formazione professionale. La riforma-Gelmini, istituendo un livello di inferiorità didattica al di sotto degli istituti professionali, favorirà l’uscita anticipata dal ciclo dell’istruzione e rafforzerà la divisione (presupposta dalla riforma) tra chi è “per natura” portato al sapere, e chi al “fare”. Il resto consegue, ragazzo di Rovereto compreso.
    Ma, tanto per gettare un altro carico da 11 sul tavolo: non è che le cose fossero tanto diverse quando alla barra dell’istruzione c’era la coppia Fioroni-Bastico (con Padoa Schioppa in appoggio), in particolare per quel che riguarda i professionali. L’attuale classe politica italiana ha gettato la spugna, o forse la maschera, rispetto alla battaglia culturale sugli istituti professionali, accettandone il destino di anticamera del mondo del lavoro.

  5. Girolamo: le radici sono da cercare nell’ultimo scorcio di anni Ottanta in cui uno studio dell’Istituto Pedagogico iniziò a parlare di “polverizzare i saperi” (non nel senso di Mazinga, ma nel senso dello zucchero sul panettone) il problema, il grosso problema, è che l’I.P. ragiona per teorie da mettere in pratica su larga scala senza alcun tipo di sperimentazione.
    Un’ultima cosa: io sono favorevole all’abbassamento dell’età dell’obbligo ai 14. L’economia e l’antropologia italiana sono cambiate rispetto agli anni Novanta, ci sono nuove necessità, soprattutto da parte degli studenti extracomunitari. Ovviamente di pari passo bisognerebbe aumentare l’offerta di corsi serali. Il mio non è un ragionamento di “classe” nel senso Gelminiano, il mio è un ragionamento di “classe” e basta.

  6. Premetto che l’intervento della signora Aprea non l’ho capito.
    Rispetto a quanto ha detto de Michele mi sento d’accordo al 50%. Il discorso dei cittadini è onesto e condivisibilissimo.
    Sul fatto che le nostre scuole elementari fossero l’eccellenza, francamente avanzo delle perplessità.
    Il nostro sistema didattico è ancora tuttora basato sul nozionismo. Anche alle elementari. Dove si studiano tante materie, secondo me alcune delle quali “inutili”. Mentre se ne tralasciano altre fondamentali (vedi la logica, il gioco, e la musica).
    Oltretutto le maestre non sono affatto all’altezza del compito. Innanzitutto perché sottostrapagate. Secondo perché devono gestire casi disparati e non possono fronteggiare tutto da sole. Terzo, a mancare è la preparazione. Com’è ancora pensabile nel terzo millennio che una docente elementare debba a rotazione insegnare italiano, storia, geografia, matematica, scienze, inglese e informatica? Non si può credere che una sola didattica possa valere per tutte queste materie.
    *
    Detto ciò, vorrei anche aprire un’ulteriore discussione. A cosa serve la scuola? A formare dei cittadini. Giusto. Le teste dei ragazzi non sono contenitori. Giustissimo. Bisogna creare in loro la forma mentis più flessibile e adattabile possibile. Avete vinto.
    Ma: per quanti anni? Per quanto può durare questo diritto allo studio?
    Il mondo non è più quello di 50 anni fa, o di 30 anni fa. Quando un titolo di studio garantiva lavoro. Adesso non è più qualificato. E questo non mi va bene.
    Troppi studenti che non si meritano di arrivare in fondo, arrivano in fondo.
    Prima o poi, in questo paese, bisognerà affrontare di petto la questione della meritocrazia. Che a destra e a sinistra ha sempre creato qualche problemino..

  7. Ekerot, cosa significa “troppi studenti non si meritano di arrivare in fondo”? Non stiamo parlando di una gara, non c’è un premio per chi arriva primo o decimo. Chi “non arriva in fondo” sarà, con molta probabilità, privato per tutta la vita degli strumenti cognitivi indispensabili per una vita degna di questo nome: una punizione a vita, un “fine pena (cognitiva) mai”, a fronte di una lacuna in una o due materie. Quale gradualità della pena insegna una scuola del genere? Che il “merito” dei 16 anni si sconta anche a 40, 50, 60 anni?
    L’obiettivo di portare avanti il maggior numero di studenti significa dotarli di questi strumenti. Poi, come altrove, una volta assicurati gli strumenti minimi per l’esercizio della cittadinanza (che equivalgono al diritto all’alfabetizzazione negli anni 60, quando si bocciava alle elementari, e a pagarla erano i figli dei contadini), ben vengano istituti di apprendimento di eccellenza (quelli veri, però, non le patacche: la “École des hautes études”, non la LUISS).

  8. Nessuno ha parlato di gara.
    Io non penso che sia necessario per vivere una vita degna di questo nome arrivare sino alla laurea. Penso certo che sia utile alla società che quante più persone arrivino a terminare gli studi.
    Ma non sto ovviamente parlando delle lacune in 2 materie.
    Sto parlando di aule universitarie stracolme di studenti che sono lì senza sapere perché, senza averne la voglia, e perché “oggi bisogna prendersi una laurea” sennò non vai da nessuna parte.
    L’argomento è spinoso e complesso perché sconfina nel “sistema”. Quindi non voglio cadere nella trappola delle generalizzazioni. Esprimo dubbi, e non certezze.
    Non vi pare che il sistema non sia in grado di supportare la massa studentesca indiscriminatamente? E’ tollerabile che ci siano tantissimi parcheggiati all’Università, con la scusa che loro “pagano”?
    Serve alla società laureare centinaia di ventenni senza offrirgli prospettive di un lavoro?
    Io penso che il sistema precedente scolastico non sia più in grado (e mi pare sia sufficientemente collassato) di preparare i nuovi “cittadini” al futuro.
    Mettiamola come vogliamo. Ma da qualche parte bisognerà cominciare a ricostruire con nuove strategie.
    [io in teoria l’ho anche fatta la scuola di eccellenza. E adesso sto guardando i siti di offerta lavoro, vedendomi rifiutare dai call-centre. Qualcosina, anche lì, non funziona.]

  9. Yes Sir, tant’è che avevo scritto: “vorrei aprire un’ulteriore discussione”. Sulla scuola primaria ho risposto nella prima parte del post.
    Spero ora di non dover aprire anche un dibattito metatestuale.
    Notte.

  10. Non entrerò nel merito della scuola: e nell’oggetto ‘scuola’ e nell’oggetto ‘merito’, anche perché ogni volta che sento nominare il termine ‘meritocrazia’ da questo governo e da questi/e ministri/e mi viene l’orticaria.
    Allo stato attuale delle cose parlare di serietà in Italia non è serio.
    Tornando all’intervista, invece, quello che mi ha colpito molto è stato il fastidio scandalizzato della d.ssa Aprea a sentire qualcuno che osava controargomentare di fronte alle sue asserzioni apodittiche.
    L’interlocutore non usa più da tempo qui da noi e Loredana e Girolamo, in effetti, facevano l’effetto di due marziani.
    Sarò pure ossessiva, ma quello che mi preoccupa di più di questi tempi è la confezione monopolistica della realtà: “le cose stanno come ve le racconto io. Punto”.
    Una buona scuola, secondo me, dovrebbe servire a smantellare quel ‘punto’, a non renderlo nemmeno pensabile e, tanto meno, possibile.
    Per questo – a prescindere da tutte le altre tante riflessioni che si possono fare a proposito – considero questi attacchi alla scuola pubblica, per non parlare dell’informazione, un segnale davvero sinistro.

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