PIANTARE TUTTA LA FORESTA: PENSANDO A SIMONE DE BEAUVOIR

Quando si è fermi si rimugina, e io rimuginavo pure prima, quindi figurarsi in questi ultimi mesi. Pensavo, in questi giorni, a quanto diventa difficile per chi, come me, è nella più-che-maturità reggere l’ondata competitiva (oh, giustamente competitiva) delle più giovani. Com’ero io a trent’anni? La prima definizione che mi è venuta in mente è affaticata, divisa tra cento lavori per ricavarne uno stipendio intero (sono stata precaria fino alla bellezza di 45 anni), appena orfana di padre e con una madre infragilita e smarrita, e poi, verso la metà della decade, alle prese con due gravidanze difficili, e con tutti i mille impegni che derivano dall’essere madri e precarie.
Ero, mi chiedo, competitiva in quanto giovane donna? Godevo anche dell’apparente benevolenza verso le giovani donne? Non so. Per quanto possa sembrare blasfemo, si è molto più benevoli oggi (certo a parole, che costano poco e niente) rispetto agli anni Novanta.
Dunque, quando rimugino troppo penso a Simone de Beauvoir.
“Poiché io stessa non avevo mai subito discriminazioni da parte degli uomini, mi rifiutavo di credere che esistessero discriminazioni per le altre donne. Questa convinzione errata è entrata in crisi a New York. Lì ho fatto esperienza di come donne intelligenti venissero ridicolizzate e sorpassate se osavano partecipare a discussioni fra maschi. Davvero, le donne americane di allora avevano un ruolo molto subordinato. Gli uomini le usavano per il sesso, per i bambini e per le pulizie della casa, e le donne stesse, in fondo, non desideravano altro”.
Il secondo sesso uscì nel 1949. Sette anni dopo venne inserito nell’indice vaticano dei libri proibiti. Non importa, è comunque arrivato fino a noi (anche se in Italia giunse tardissimo). Io l’ho avuto fra le mani intorno ai vent’anni, su suggerimento di quella che era allora la mia insegnante e a cui ancora oggi  non posso che essere grata dal profondo del cuore: Ida Magli lo volle come libro indispensabile per il suo esame di antropologia, dunque, e quella vecchia copia con la copertina verde e bianca è ancora nella mia libreria, fitta di sottolineature e incorniciata di nastro adesivo.
Penso anche alla sua morte,  nella primavera del 1986, pochi mesi dopo aver subito una ferita che le fece molto male, come raccontò Laura Lilli che invano tentò di mettersi in contatto con lei in un gelido dicembre, in occasione dell’uscita della biografia di Claude Francis e Fernande Gontier che risultò una pugnalata:
“Le autrici erano davvero andate da lei col manoscritto in mano, e lei lo aveva trovato un “tessuto di errori”, come ha rivelato in un’ intervista rilasciata a Le Matin del 5 dicembre: l’ unica che abbia rotto il suo silenzio umiliato e infuriato. A incontrarla sono stati Cathy Bernheim e Antoine Spire. “Durante tutto settembre”, ha detto, “ho ripetuto alle autrici: “correggeremo insieme i vostri errori, cambieremo tutto”. Ho passato tutti i miei momenti di libertà e di lavoro, mattinate intere e pomeriggi a lavorare con loro. Una aveva il magnetofono, l’ altra prendeva appunti. Mi dicevano: “vedrà, correggeremo tutto”. E poi mi hanno mandato questa roba”. Non corretta in una sola virgola. E infatti, nella sua copia del libro Simone de Beauvoir ha scritto: “Questo è un romanzo. Ogni riferimento ad avvenimenti e personaggi reali è del tutto casuale”. E, praticamente in ogni pagina, i margini sono costellati di note come: “No”. “Ma no!”. “Assolutamente no”. “Falso”. “Tutto questo è inventato”. “Nessun rapporto con me”. “Errore”. “Assurdo”. “Idiozia e confusione”. E non si tratta solo del comprensibile disagio di vedersi guardati con freddezza da fuori. Si tratta di veri e propri sbagli storici, di notizie false. Per esempio, nel ‘ 57 Simone de Beauvoir andò negli Stati Uniti per una serie di conferenze sull’esistenzialismo e la vita culturale in Francia. Aveva scritto solo L’ invitèe e Le sang des autres, che non erano stati tradotti in inglese, e non avevano nemmeno avuto un enorme successo a Parigi. A New York non l’ aspettava nessuno, tranne una signora inviata da “non so più quale ufficio culturale” che la condusse prima a cena e poi in albergo. Ebbene: secondo le due biografe, era stata accolta e acclamata da una moltitudine di giornalisti. O ancora: tornando da un viaggio a Cuba nel ‘ 60, Simone e Sartre passarono da New York. Erano felici di avere un intero pomeriggio tutto per loro, per visitare la città. Invece, furono “incastrati” in un cocktail dato in loro onore al Waldorf Astoria da un cubano filocastrista. Le due biografe scrivono che Simone era pazza di gioia per l’ avvenimento mondano, mentre lei si sentiva “disperata di sprecare così un’ eccezionale mezza giornata con Sartre a New York”. Un terzo esempio. Quando i due avevano rispettivamente trenta anni (lui) e ventisette (lei), vedono intorno a sè, secondo le biografe, una girandola di amici che scrivono, dipingono, “producono”: da Paul Nizan a Raymond Aron, da Lèvy-Strauss a Merleau-Ponty, a Colette Audry, a Simone Jolivet. “Tutto si muove attorno a loro”, scrivono, “ma loro girano a vuoto, e non sanno quale libro li farà uscire dall’ impasse. Sartre si dibatte contro la noia… e Beauvoir versa torrenti di lacrime ogni volta che beve un bicchiere di troppo. Si inabissano entrambi nelle angosce della vecchiaia, drammaticamente annunciata dalla perdita di qualche capello da parte di Sartre. Beauvoir è lacerata fra la gioia di esistere e l’ orrore di finire”. A margine di questo (nemmeno tanto divertente) paragrafo, la scrittrice ha semplicemente commentato: “falso”. Il libro la descrive come sempre abbagliata dalle meraviglie del mondo che la circonda, perennemente intenta a prendere nota di tutto: una via di mezzo tra la scolaretta diligente e la piccola star. Lei dice: “Ho tenuto un diario in certi momenti particolarmente penosi e difficili. Ma mai, certo, prendendo appunti lì per lì, sul momento”. Richiesta dal Matin se ritenga questo un esempio di biografia “all’ americana”, Simone de Beauvoir risponde di sì, che il libro è molto “americano”, ma che il fatto di essere “all’americana”non è di per sé sinonimo di “mal fatto”. E aggiunge che tutto ciò che vuole è far sapere alla gente che lei questo libro lo sconfessa. “Anzi, vorrei che ci fosse una vera sconfessione pubblica”, aggiunge.”
Però, mi dico, tutto questo è passato: abbiamo dimenticato quella biografia, ma non abbiamo dimenticato le parole di Simone de Beauvoir. Queste, soprattutto:
“Bisogna che si faccia una nuova pelle e si tagli da sé i suoi vestiti. Non può arrivare a questo che grazie a un’evoluzione collettiva. Oggi nessun educatore isolato può formare un “essere umano femminile”, che sia l’esatto omologo dell’essere umano maschile: se è educata come un maschio, la fanciulla si sente un’eccezione e perciò subisce una nuova forma di specificazione. Stendhal l’ha ben capito; egli diceva: “Bisogna piantare nello stesso tempo tutta la foresta.” Ma se immaginiamo invece una società in cui l’eguaglianza dei sessi sia realizzata concretamente, questa eguaglianza si affermerebbe di nuovo in ogni individuo”.
Siamo riuscite a farci una nuova pelle e a piantare tutta la foresta? Sì e no, come è normale che sia: molte cose sono state fatte e sono state rese vane, poi altre ne sono state costruite, e ancora verranno insidiate, in una perpetua onda che si abbatte sulla spiaggia, ogni volta però avanzando di qualche centimetro. Dunque, quello che, alla fine del rimuginio, riesco ad augurarmi è che le donne, in primo luogo, imparino a ringraziare le altre donne. Affinché non vivano i femminismi come occasione di protagonismi, e di risentimento verso le altre che considerano più visibili. Affinché comprendano (comprendiamo, la prima persona plurale è quella corretta) che non esiste un’esclusiva, non esiste una via privilegiata, certificata, unica. Affinché prevalga, infine, la generosità: quando si è detto quel che si aveva da dire, è giusto che siano altre (e altri) a parlare. Non esiste un femminismo “fondatore” e dunque corretto “in sé” da opporre ai femminismi “nuovi”: esiste una strada che donne e uomini devono percorrere insieme, una foresta che insieme va piantata. Per chi verrà dopo di noi, non per nostra gloria personale, e non per lenire i nostri personalissimi dolori.
Quello che mi piace pensare è che proprio oggi una ragazza di vent’anni entrerà in libreria, comprerà Il secondo sesso e comincerà a sfogliarlo seduta al tavolino di un bar, nella sua stanza, in metropolitana. E che le  parole di Simone diventeranno le sue e si trasformeranno in altro ancora: magari per raccontare nuove storie che non siamo in grado di prevedere, fra altri vent’anni. E prenderanno la forma di un nuovo ringraziamento che verrà da lontano, che userà mezzi ignoti, ma avrà lo stesso calore.

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