POST LUNGO: NESSUN VERSO PUO' ROVESCIARE I REGIMI (MA)

Post lungo, appunto, che si deve non solo alle sensazioni che provo in queste ore girovagando in rete, dove in modi diversi la questione della lettura, e degli intellettuali, sembra diventare dirimente nel dopo-elezioni: abbiamo perso perché c’è gente ignorante, si dice da un lato, e si protesta perché il mondo non somiglia a quello che si vede alle presentazioni dei libri, ma guarda. Avete perso perché siete spocchiosi, respingenti, e ci prendete in giro se non leggiamo, si ribatte.
Mi sembra una questione da approfondire, e non per quell’occupazione oziosa, da allegria dei naufragi, che coglie dopo un mutamento profondo (o meglio: la conferma di un mutamento), ma perché se si riescono a sfrondare un paio di luoghi comuni sul punto magari si prova a ripartire, con lentezza naturalmente, ma con un obiettivo chiaro.
La letteratura non coincide con le buone maniere
Il primo spunto viene da una dichiarazione di Maria Elena Boschi riportata oggi, dove Boschi stessa rimpiange la fine “di un mondo che è fatto di letture e buone maniere”. Qui ammetto di aver sobbalzato sulla prima delle mie quattro metropolitane quotidiane: associare lettura a educazione non mi convince. La letteratura è molto spesso maleducata, giustamente maleducata: non accarezza, ma striglia, quando è buona davvero. Anche quando apparentemente è gentile (pensate ad Alice Munro, o a Kazuo Ishiguro), sa strattonarti con una sola frase. Non è necessario essere maledetti per postura come Houellebecq: se sai cosa dire, e se quel che dici è nel mondo, e non nella tua stanza e nella tua sola vita, non sei accomodante. Penso a tutti gli scrittori che sono tutt’altro che accomodanti: ad Antonio Moresco, per esempio, a Helena Janeczek, per citarne due soli. Sono persone con cui è bello parlare, e sono gentili: ma le buone maniere non c’entrano niente con il loro modo di essere, e dunque di scrivere. Dunque, accostare il bon ton alla lettura è un errore. Ingenuo, anche. Così come è stato ingenuo, in questi anni, e infine suicida, contrastare il movimento 5 stelle a forza di sghignazzi sui congiuntivi e sui libri di Di Battista. E persino, se posso, tutto lo snobismo riversato su Fabio Volo ha fatto male, malissimo: non ha conquistato lettori, e neppure elettori, come si vede.
I felici pochi: uscire dalle roccaforti della lettura
Poi, però, arriva il mio buon amico, il poeta Mario De Santis, e immette dubbi nuovi. Scrive Mario, su Facebook:
“Però va detto anche che, per eccesso di entusiasmo certamente tutta la nostra comune passione dei libri di fatto è stato un recinto – con l’autore del manifesto di Torino sotto un post del direttore m’è capitato d’avere uno scambio di idee sul mio percepito da quel manifesto “un giorno tutto questo” così come quello di Libri Come e Tempo di libri. Un mondo astratto, sereno, felice della propria passione capace di guardare oltre i confini – o tenere buio intorno nella felicità del leggere. Ma incapace di vedere dentro i confini con i libri che come l’aureola di Baudelaire dovrebbero cadere nel fango delle strade – e secondo me c’era e c’è in quei manifesti un eccesso di serenità involontaria che non appartiene ai giorni che viviamo. Sporcarsi. Ridurre le occasioni libresche: adesso dall’8 marzo al 12 maggio stare dentro queste realtà astratte che sono i festival a discutere di un mondo là fuori che ci è sfuggito di mano. E quand’anche lo avessimo capito, non abbiamo avuto il tempo di frequentarlo – specie “tra marzo e maggio” per dire o come per tutta l’estate – da un weekend all’altro dalla Puglia al Trentino da Lampedusa a Ventotene nonostante i fantasmi evocati, in troppi persi nel solito giro di presentazioni parole bicchieri di vino allegra compagnia ecc …..Il mondo sfugge facilmente: Francesco Piccolo aveva scritto mesi fa un pezzo sui forzati dei festival, gli scrittori:  è ora di riscriverlo quel pezzo, ma con tono drammatico. Questo vale per chi scrive,  per il mondo che ci sta intorno ma pure per il pubblico, ceto consapevole che forse si arrocca e resiste nella lettura,  ma che è come noi parte di questo stesso segmento eroso di società che ci somiglia, e tutti assieme siamo quel pezzo di mondo italiano sempre più minoritario. Perdente elettoralmente. Siamo ricchi di cuore, certo: ma a che serve se non possiamo incidere nel mondo? Invece di prenotare la stanza per Mantova a settembre, usare quel tempo per prendere otto metropolitane e arrivare al capolinea e parlare con chi incontreremo. Idealmente questo dovrebbe essere il compito. C’era un libretto di qualche anno fa di cui non riesco a trovare i riferimenti e raccontava di quando il Partito comunista spedì Italo Calvino (erano i ’50) in Puglia a fare incontri con i braccianti, e non per presentare un libro. Ma per parlare di politica e condizioni di vita e certo anche dell’importanza dell’istruzione. Calvino parti con la Topolino amaranto. E gli fece bene. Anche se non ne aveva bisogno. Ma stare nella confortevole Torino poteva essere rischioso. A noi, nessuno ci spedisce, tutti ci invitano. Rifiutare una quota di inviti, usare il tempo in maniera differente”.
Duro, con una molta parte di verità. Però con il rischio di non vedere che all’interno di quelle che appaiono roccaforti di lettori e di scrittori questo uso del tempo in maniera differente c’è già. Penso ai Wu Ming. Penso a Paolo Rumiz. Penso, sì, ad Alessandro Leogrande e a chi ne raccoglie il testimone oggi.  Su un punto, soprattutto, dissento da Mario: incontrare i lettori è indispensabile, anche per seminare dubbi da coltivare insieme. Certo, con la consapevolezza continua che stiamo parlando in molta parte a persone che ci somigliano. E che ognuna di queste persone va spinta a prendere la propria metropolitana, e spesso già lo fa, per pensare a cosa mettere in comune con i dissimili,  da subito.
Noi siamo l’arco, voi siete le frecce
Quello che non vedo, soprattutto, è il salto in avanti, lo sguardo sul futuro. Oh, per carità, questo è un paese dove di figli si parla moltissimo, ai limiti dell’ossessione. Ma dove si investe poco sul loro futuro. Non solo il posto fisso, attenzione. Ma il modo in cui saranno nel mondo e in cui potranno provare a plasmarlo. Leggete cosa si scriveva quattro anni fa nel Rapporto Stiglitz, elaborato dalla Commissione sulla misurazione della performance economica e del progresso sociale. Fra le molte altre riflessioni su quel cambio di rotta, c’è questa:
“Il benessere delle future generazioni rispetto al nostro dipende dalle risorse che conferiremo loro, dalle dimensione degli stock di risorse esauribili e dal modo nel quale riusciamo a conservare in quantità e qualità tutte le altre risorse naturali rinnovabili necessarie per la vita. Dal punto di vista economico tale benessere dipende dall’importo trasferito del capitale fisico, macchine ed infrastrutture, e dagli investimenti in capitale umano, quindi essenzialmente in istruzione e ricerca. Dal punto di vista sociale esso dipende dalla qualità delle istituzioni e della cultura che lasceremo loro in eredità, un tipo di capitale indispensabile per il corretto funzionamento della società umana e per assicurarne il progresso”.
Ora andate a leggere le risposte date all’Istat dalle persone cui ha chiesto, nello stesso anno, di fornire  un punteggio da 0 a 10 ad una lista di 15 condizioni che corrispondono ad altrettante dimensioni del benessere. Ai primi posti c’è la salute, la possibilità di assicurare un futuro ai figli, la preoccupazione per l’ambiente,   avere un lavoro dignitoso (9,2) e avere un reddito adeguato (9,1) con rispettivamente il 59,5% e il 56% di 10. E poi avere buone relazioni con parenti e amici ed essere felici in amore.
La partecipazione politica e sociale è considerata meno rilevante, con punteggi medi inferiori a 8 sia per la possibilità di influire sulle decisioni dei poteri nazionali e locali, sia per la partecipazione alla vita della comunità locale. In particolare, la percentuale di chi ha dato punteggio 10 a questi aspetti è molto contenuta: rispettivamente 30,6% e 18,7%. E già qui si dovrebbe riflettere, per in quattro anni, credo, le cose non sono migliorate.
Sempre nel 2014, Culture Action Europe (CAE), la principale rete culturale europea, ricordava:
“E’ dal 2008 che ai cittadini europei viene detto che stanno attraversando una crisi, la peggiore dopo quella di 1929. Ogni anno, ci aspettiamo un miglioramento della situazione. Eppure ogni anno la realtà ci dimostra il contrario. Ciò che accade in Europa deve essere considerato come una transizione da un ordine mondiale verso un altro, non come una situazione di crisi. Questa transizione condurrà l’Europa verso disuguaglianze crescenti oppure verso un nuovo ordine sociale basato sulla sostenibilità e il rispetto dei diritti umani, per le generazioni presenti e future. Ciò che avverrà dipende dalle scelte che stiamo facendo ora. L’Europa possiede tutti gli strumenti necessari, sia materiali che culturali, per costruire un futuro sostenibile: dobbiamo sfruttarli sin d’ora!
La crescita sociale, e non economica, deve diventare la priorità dell’Europa di oggi. Occorre migliorare le nostre competenze culturali, la nostra capacità di cooperare e di considerare in modo critico la nostra apertura alla diversità, e la nostra curiosità: tutti questi elementi sono indispensabili per il fiorire di una società sostenibile in cui si possono sviluppare i diritti, le responsabilità e il benessere condiviso. Il settore artistico e scientifico contribuisce significativamente ad assicurare l’accesso all’istruzione per tutti, nonché il rigoroso rispetto dei diritti umani”.
Quello che sto provando a dire è che, a mio modesto parere,  dove il Pd, ma anche chi si è posto alla sinistra del Pd, ha davvero sbagliato, e non da oggi, è nel non aver lavorato su questo punto, con serietà, con costanza, dandogli priorità assoluta. Altro che buone maniere, chi se ne frega delle buone maniere e anche del vinello degli scrittori: sono i saperi su cui occorreva lavorare. Occorre, anzi.  E su questo penso che chiunque scriva e legga o semplicemente creda nelle parole e nell’importanza di fornirne di nuove a se stesso e agli altri, debba continuare (o cominciare) a impegnarsi. Titos Patrikios, uno dei massimi poeti greci, scriveva:
Nessun verso può rovesciare i regimi
Avevo scritto anni prima
E ancor oggi me lo rinfacciano.
Ma i versi assolvono alla loro funzione
mostrano i regimi, dicono il loro nome
anche quando cercano di abbellirsi
di rinnovare un poco la vetrina
di cambiare denominazione e insegna.
I versi, anzi, qualche volta sorprendono
i leader in posizioni inattese
sicuri che nessuno li veda
con le mutande ingiallite e aperte
prima d’indossare le brache o i pantaloni
con gambe ossute e pantofole stracciate
prima d’infilarsi le scarpe o gli stivali,
la pancia debordante prima di tirarla in dentro
per abbottonarsi la giacca militare civile
con la dentiera lasciata nel bicchiere
prima di riprovare lo storico discorso,
con la pappagorgia e le guance pendule
prima di alzare il mento volitivo
prima di  guardare, perennemente giovani, al futuro.
I versi non rovesciano i regimi
ma certamente vivono più a lungo
di tutti i loro manifesti.
Aspetta, cosa stiamo dimenticando?
Le donne, care e cari. Perché in questo compianto collettivo (e nei paralleli festeggiamenti), manca quello che non è un tassello: i movimenti delle donne, e quello che hanno saputo fare e quello che potranno ancora fare. Una valanga di commentatori (maschi) in televisione, una valanga di parole che, fin qui, non hanno preso in considerazione che le rivoluzioni si possono o non si possono fare con i poeti e i pittori, come avrebbe detto Giaime Pintor. Ma non si possono fare senza le donne.
Ps. A proposito, e per chi fosse interessato: giovedì 8 marzo alle 21 va in onda, in diretta da Via Asiago e ovviamente su Radio3, un mio adattamento radiofonico de “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood. Io sarò a Milano, da domani a lunedì, per Tempo di Libri, dove spero di poter fare e dire qualcosa che abbia un senso oltre a a bere i vinelli di cui parlava Mario. Il blog non verrà aggiornato fino a martedì, ma credo che ci sarà pur da riflettere su quanto scritto sopra. Buon tutto, commentarium, nonostante tutto.

5 pensieri su “POST LUNGO: NESSUN VERSO PUO' ROVESCIARE I REGIMI (MA)

  1. Mah, ho i miei dubbi. Mi sa che il punto è un altro. Ad esempio sentirsi abbastanza stanchi e disgustati da persone intimamente convinte d’aver capito tutto e, perciò, superbe nel loro descrivere il regime che vorrebbero: “maggiore scolarizzazione” grida una, e intanto Ivan Illich finisce nel cesso senza manco esser stato letto; “dobbiamo spingere sul melting pot e sul pluralismo culturale” grida un’altra, e intanto si scandallizza di fronte ad un uomo che defeca nascostamente sulla strada che batti (la tua strada attenta alla sua, quell’uomo è un pigmeo=cultura altra) e farà di tutto per correggere quell’uomo, ossia annientare la cultura dei pigmei ad esempio; un’altra ancora grida: “uffa uffa uffa: perché siete così deficienti, arretrati, ignoranti? Non avete idea del mio specialissimo intendimento del mondo e dell’esistenza, dovete imparare da me” e nel frattempo casca per terra ad ogni folatina, ad ogni sternuto che incontra – non previsti.
    Si è stanchi di persone cieche cieche cieche, che trovano giusta soltanto la propria strada che mai nomineranno direttamente perché, sai, la mia visione è cosa complessa, articolata, difficile a descriversi con parole chiare come sono le parole del cuore e, poi, sai, non la so nominare. Si è stanchi nonostante la clemenza e la comprensione usate verso queste persone.
    Cambieranno un po’ di cose, naturalmente; è ancora presto, ma cambieranno.

  2. Non è questione di risposte ed è qui il dramma. Prima di giungere alle risposte sarebbe ora di interrogarsi se si è disposti a considerare l’intendimento altrui degno ed esistente quanto il proprio – e il punto è proprio questo: la dignità non significa specularità della propria ragione o, in modo meno empirico, se possibile, della propria percezione.
    Ah… Sì, a scanso di fraintesi riguardo i pigmei: essi defecavano sulle strade battute dai colonialisti nel momento in cui questi dovevano raggiungere i loro villaggi per richiamarli al lavoro. Naturalmente i colonialisti non sapevano nulla dell’azione dei pigmei e, sempre naturalmente, per sé stessi i pigmei seguivano strade ben più pulite.

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