Sto seguendo, in questi giorni, il blog minima&moralia, per vari motivi. Per esempio, per guardare e ascoltare gli interventi di Christian Raimo dal Teatro Valle occupato.
Questa mattina ho letto con interesse un intervento di Simone Barillari sull’editoria. Mi permetto di proporlo anche qui.
Da anni e anni, l’editoria italiana lamenta che si fanno troppi libri, e ne fa sempre di più. Li fa, soprattutto, abbassando in media gli standard qualitativi per poter raggiungere standard quantitativi sempre più alti con le stesse risorse – gli stessi uomini, gli stessi tempi, gli stessi budget, per pubblicare più libri dell’anno precedente. Si comprimono quei fondamentali tempi di lavorazione di ogni libro che separano l’acquisizione dalla pubblicazione, diminuiscono inesorabilmente le ore che ogni redattore può dedicare a un libro, si accorciano le scadenze – e non aumentano in modo congruo i compensi – per traduttori, revisori, correttori di bozze. Non meno che i tempi di lavorazione, si comprime in modo altrettanto inesorabile la durata della promozione di ogni libro, che è appena uscito ed è già incalzato dal successivo, diminuiscono le ore e i soldi che ogni ufficio stampa e ufficio marketing può dedicare a ogni uscita, così che sempre meno libri, non necessariamente i migliori, assorbono sempre più risorse, e sempre più libri, non necessariamente i peggiori, vengono abbandonati subito dopo l’uscita, durando in libreria meno tempo di quello che è stato necessario a scriverli. Negli ultimi due decenni il mercato ha imposto con darwiniana durezza di crescere per sopravvivere – “publish or perish”, per mutuare un’espressione diffusa tra i docenti dell’accademia americana – e ha contribuito a tutto questo, ne è stata causa ed effetto al tempo stesso, una mutazione del pubblico che legge, sia nella direzione di una sempre minor sensibilità alla cura editoriale dei libri, sia in quella di una sempre maggiore reattività a quella legge di mercato per cui un libro che vende subito venderà sempre di più e un libro che non vende subito rimarrà completamente invenduto.
Non si può disobbedire a tutte le leggi che regolano il mercato, non si può disobbedire da soli nemmeno a una sola delle leggi che regolano il mercato, senza che il mercato punisca severamente una simile disobbedienza. Si può però disobbedire a una delle leggi del mercato se a quella legge si disobbedisce in tanti – e se si disobbedisce a lungo, con orgoglio e tenacia, si può infine essere premiati per questa coraggiosa disobbedienza.
Ci sono in TQ dirigenti editoriali di almeno sei o sette diverse case editrici, tutte di grande prestigio e rilievo. Da sole queste case editrici non basterebbero ancora, naturalmente, ma potrebbero essere una cerchia iniziale per proporre seriamente un patto di decrescita o di non incremento della produzione di libri ad altri interlocutori e vedere se si riesce a raggiungere un accordo comune con una parte significativa dell’editoria italiana. Prevedo l’obiezione che si può muovere a questa proposta, e non ho difficoltà a capirne la fondatezza e l’importanza: non aderirebbero mai proprio gli attori dominanti del mercato, il gruppo Mondadori e il gruppo Rcs, per esempi, e rischieremmo così di fare il loro gioco. Ma non è detto che non riusciremmo a trarre dalla nostra parte alcuni marchi di quei gruppi, e – soprattutto – molti di noi hanno combattuto per anni contro questi moloch, e la situazione, nel complesso, non ha fatto che peggiorare, perché continuiamo a combatterli sul loro terreno e con le loro armi – la quantità, l’efficienza industriale invece della cura artigianale. Proviamo allora a concentrare i piani editoriali sui libri in cui crediamo veramente e strenuamente, che vogliamo non solo proporre ma imporre all’attenzione dei lettori, proviamo a spostare, con una campagna di sensibilizzazione nazionale, il fattore discriminante della competizione editoriale dalla quantità alla qualità dei libri, proviamo ad annunciare, anche e soprattutto al pubblico dei lettori, che intendiamo pubblicare meno per pubblicare meglio. Proviamo a opporci, con ancora più determinazione di quanto abbiamo fatto finora, al fatto che le case editrici in cui lavoriamo debbano essere anche, sempre più, dei librifici.
Sono profondamente persuaso che questa potrebbe, se non dovrebbe, essere una delle battaglie cruciali di TQ, e che avrebbe un’ampia e potente eco mediatica che aiuterebbe a sostenerla e a vincerla. E, ripeto, dai libri andrebbe estesa a tutte le opere, in una grande, ambiziosa operazione di ecologia culturale.
C’è probabilmente qualcosa da perdere, per molti di noi, in questa battaglia, ma forse c’è ancora di più, per quegli stessi di noi e per tutti gli altri, da guadagnare.
E’ un discorso difficile, credo che le logiche del moloch siano un grande bluff, ma un bluff concreto che ci avvolge tutti come un incantesimo.
E’ la maledizione di un iper-produzione di libri che la popolazione non legge, che si auto alimenta e auto celebra. Una corsa spericolata che non guarda nessuno o quasi ma che sembra inarrestabile.
Non ho dubbi che esistano praterie di lettori potenziali, che non vanno in libreria, che non leggono recensioni che non si compiacciono di seguire l’autore di grido ma che se contattati con metodi nuovi, coraggiosi e verso il lettore farebbero la fortuna di una nuova editoria italiana.
D.
…e premurosi verso il lettore. ops.
D.
Ci vuole coraggio. Tanto coraggio. Bisognerebbe abbandonare le logiche del mercato per abbracciare quelle della cultura per la cultura. Chi sarebbe disposto a farlo? Pochi, quelli che non hanno da perdere. Pesci piccoli.
I grandi gruppi, quelli che fanno il mercato, guardano al libro come a un business. E basta.
(Recentamente ho trovato un brutto refuso nella quarta di copertina di Lessico Famigliare della Ginzburg (nell’edizione 2010, fresca di stampa!), una caduta che certo non mi aspettavo da un editore che fino a qualche tempo fa ci metteva cura, amore e passione nel suo lavoro. E’ il segno amaro dei tempi che cambiano. Che fare?
Purtroppo il peggio deve ancora arrivare: la fase in cui ognuno si pubblicherà (on line o print on demand) il proprio stesso manoscritto, senza passare per nessun filtro o per nessuna major o minor dell’editoria. Avremo cataloghi di milioni e milioni di titoli, in cui nessuno avrà più voglia o modo di sceverare il buono dal ciarpame. Oppure succederà l’esatto opposto: aggirarsi armati di fiocina in un oceano pullulante di misteriosi pesci-libro potrebbe diventare uno sport insospettatamente interessante.
@ Arriano
Secondo me anche la cultura per la cultura è un’approccio morto.
Il mercato si deve evolvere con i media e con la società.
La letteratura può ridiventare un bene per masse digiune se chi la diffonde cerca approcci alternativi al mercato dominante.
Bisogna partire dal presupposto che ogni persona ha il libro giusto che amerebbe e per cui spenderebbe soldi.
Bisogna solo trovare modi nuovi e contemporanei per far giunger quel libro da quella persona.
Ci vuole coraggio ed immaginazione.
@ Lucio,
autoproduzione ? certo si, sarebbe l’ideale per far morire quegli editori che non rappresentano un valore aggiunto.
I libri poi si diffonderanno in modi diversi basta trovare nuove piazze per scremarli.
Dopotutto grandi autori sono stati scartati da molti editor prima di diventare celebri e viceversa editor di peso ci a volte montano vere e proprie truffe letterarie, quindi l’autoproduzione non è poi l’argine all’anarchia.
Ribadisco che il mercato viaggia su un binario e ha la strada segnata, l’editore libero e visionario può scartare di lato, come il bufalo di De Gregori. Speriamo che non si estingua come il bufalo…
D.
@ Daniele Marotta. Riguardo al tuo discorso sulla possibilità di trovare lettori potenziali, Daniele, concordo pienamente con te. Se per caso hai voglia di leggerlo, ne ho scritto su Nazione Indiana proprio qualche settimana fa, dopo un intervento che avevo fatto in TQ.
http://www.nazioneindiana.com/2011/05/11/tq-%E2%80%93-fenomenologia-di-una-generazione-letteraria-allo-specchio-simone-barillari/
@ Lucio Angelini. Non penso che la funzione di filtro delle case editrici si ridurrà tanto più di quanto sia già adesso (con ilmiolibro.it abbiamo quasi toccato il fondo, resta poco da scavare), ma rimarrà solo quello: un filtro. Sempre più le case editrici non lavorano i libri in redazione, li mandano in stampa e li mettono in libreria, ecco tutto. Le case editrici, in altre parole, non editano più i libri, li distribuiscono.
@Simone. Credo di essere l’unico autore che ilmiolibro.it abbia prima pubblicato, poi censurato e rimosso dai cataloghi. La giocosa operina si intitolava ‘La bufala del New Italian Epic” e l’avevo inviata quasi per scherzo, ma qualcuno deve aver protestato e insistito perché venisse messa all’Indice dei Libri Proibiti*-°
@Arriano di Nicomedia, Daniele Marotta.
Tendo a pensare che l’editoria, e più in generale la cultura, sia uno di quegli ambiti che non dovrebbe essere lasciato al mercato – non interamente, almeno. Come la sanità, come la scuola, di cui è prosecuzione e complemento, la cultura dovrebbe essere in parte sostenuta dallo stato, che dovrebbe incentivare la produzione e la promozione delle opere di alta qualità, non diversamente da quanto avviene in Francia, per esempio. Viceversa resta, come suggerisce Arriano, solo la cultura per la cultura, il mecenatismo di alcuni grandi editori.
Mi permetto di copiare qui sotto un intervento postato nel forum di minima et moralia da Riccardo Trani, ed è un intervento che assume ai miei occhi particolare significatività, perché lo ha scritto un caporedattore eccellente a detta di tutti, uno dei due o tre migliori con cui io abbia lavorato in quasi quindici anni di editoria:
“Credo che nell’analisi di Barillari ciascun lavoratore dell’editoria – come il sottoscritto – legga con certa incallita amarezza la propria autobiografia. Fin da quando la cosiddetta piccola editoria è emersa dall’artigianato per candidarsi come alternativa ai grandi marchi (erano i primi anni Novanta, se la memoria non m’inganna, e penso alla prima Fazi, a minimum, a Instar, e ad altri che si sono via via affiancati), nessun piccolo/medio editore, pur bellicoso, pur idealista, è riuscito a risolvere la contraddizione tra il ritorno alla qualità delle scelte e della cura editoriale e, di contro, la necessità di adeguarsi a un mercato le cui regole erano e sono scritte dall’editoria maggiore. Qualche anno fa Marcos y Marcos annunciò che avrebbe ridotto di tre libri la propria produzione annua, per valorizzare selezione, promozione e permanenza in libreria dei titoli scelti. Nessuno, che io sappia, si è accodato. Temo che molti la considerarono una provocazione per farsi un po’ di pubblicità. Nella provocazione, invece, c’era una speranza: per battere i colossi bisogna puntare sulla paziente costruzione del catalogo, non sulla produzione elefantiaca e sulla ricerca ossessiva del best seller. Ma per farlo ci vogliono imprenditori tenaci, ambiziosi, capaci di circondarsi di intellettuali di valore – imprenditori incoscienti. Gente come Giulio Einaudi o Alberto Mondadori. Gente disposta a perdere denaro per restare (forse) nella storia della cultura. Ce n’è?”
Last but not least, @Loredana Lipperini. Grazie di questa ospitalità, e di quella a Fahrenheit. E’ un piacere.