PURCHE' LA COSA NON DURI MOLTO

Volevate notizie sul terremoto? Bene, non ce ne sono. O meglio, ce n’è una di cui si sono accorti in pochi: è stato nominato il nuovo commissario alla ricostruzione. Si chiama Piero Farabollini, insegna all’università di Camerino, è geologo, marchigiano e conosce il territorio. Se sarà messo in condizione di operare, potrebbe fare buone cose.
Ma il resto? Il resto quasi nulla. I paesi distrutti sono ancora distrutti, gli abitanti del cratere non sanno quando la ricostruzione arriverà, le semplificazioni non ci sono, continuano ad arrivare le bollette della luce per case in briciole.
Ieri Riccardo Gazzaniga, scrittore, genovese, ha scritto questo articolo su Repubblica:
“Ma cosa volete, sono passati 40 giorni e già rompete i coglioni?». Me lo ha scritto una signora di mezza età, sotto un post in cui descrivevo la mia vita in Valpolcevera, dopo il crollo di Ponte Morandi. Ho pensato a un focolaio isolato di stupidità, ma ieri – dai commenti agli articoli sulle manifestazioni dei genovesi per chiedere certezze – ho visto il virus dilagare.
Dopo l’affetto e le lacrime, dopo i nastri neri a lutto e i “Genova nel cuore”, per molti i genovesi sono diventati ora degli impazienti, i genovesi devono mettersi in coda fra gli sventurati, ché i terremotati dell’Abruzzo stanno pure peggio.
Gli sfollati, poi, cosa vogliono, abitavano sotto un ponte, che si aspettavano?
Non importa che le loro case esistessero prima del Morandi, non conta il sacrosanto diritto alla sicurezza, non fa testo che molte famiglie avrebbero fatto a meno di una casa vista-ponte, ma in una città in crisi e coi prezzi alle stelle, certi quartieri sono i soli che ti puoi permettere.
I genovesi non sono mica esausti dopo decenni di cementificazione selvaggia, una sfilza di esondazioni e una delle più gravi sciagure del paese.
No, loro remano per la vecchia politica, loro tramano contro il cambiamento.
E, guarda tu, non si limitano a post complottisti sui social network, ma parlano alle televisioni, coi giornali che tramano pure loro, nei megafoni di manifestazioni pacifiche, persino in un angoletto di quotidiano come questo.
Accidenti a questi genovesi, che si ostinano a far sentire civilmente la loro voce.”
Rompicoglioni, già. Perché siamo abituati a pensare che una tragedia duri solo quando è visibile, quando ha le prime pagine dei giornali, le aperture dei telegiornali, il cordoglio sui social network. Quando scivola via, smette di essere tale, appartiene al passato, c’è altro a cui pensare. Non è così, ed è ovvio, è banalissimo ricordarlo. Ma va ricordato. Il centro storico di Visso. Camerino. Castelsantangelo sul Nera. Muccia. E tutti gli altri di cui traccia non c’è più, solo macerie, e soluzioni provvisorie che diventeranno definitive, probabilmente. Rompicoglioni. Perché chiedono una vita normale, mica un’elemosina. Eppure chi disturba il manovratore, di questi tempi, viene considerato non solo un rompicoglioni, ma di certo al soldo di poteri misteriosi.
Su cento persone:
che ne sanno sempre più degli altri
– cinquantadue;
insicuri a ogni passo
– quasi tutti gli altri;
pronti ad aiutare,
purché la cosa non duri molto
– ben quarantanove;
buoni sempre,
perché non sanno fare altrimenti
– quattro, be’, forse cinque;
propensi ad ammirare senza invidia
– diciotto;
viventi con la continua paura
di qualcuno o qualcosa
– settantasette;
dotati per la felicità,
– al massimo poco più di venti;
innocui singolarmente,
che imbarbariscono nella folla
– di sicuro più della metà;
crudeli,
se costretti dalle circostanze
– è meglio non saperlo
neppure approssimativamente;
quelli col senno di poi
– non molti di più
di quelli col senno di prima;
che dalla vita prendono solo cose
– quaranta,
anche se vorrei sbagliarmi;
ripiegati, dolenti
e senza torcia nel buio
– ottantatré
prima o poi;
degni di compassione
– novantanove;
mortali
– cento su cento.
Numero al momento invariato
(grazie ad Alba Ciarleglio che ieri su Facebook mi ha ricordato “Contributo alla statistica” di Wislawa Szymborska)

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