QUANDO LA POLITICA PARLAVA DI FELICITA’

Si ragionava ieri, a Fahrenheit, di sciopero della fame come pratica nonviolenta, ancora viva e presente. Come i ricordi di altri linguaggi. Linguaggi politici, intendo. Non per nostalgia, ma per desiderio che linguaggi simili e diversi tornino, sono andata a recuperare un famoso discorso di Marco Pannella al congresso di Verona del 1973 (qui l’integrale). Da leggere e rileggere, soprattutto per chi non c’era, per chi parla di quegli anni solo degli anni con le pistole in pugno.

“Cari compagni,

innanzitutto credo di dover tranquillizzare alcuni (o molti di voi, non importa): sto benissimo, sono molto vivo, non ho sistemi nervosi che vanno all’aria, proseguo a sregolare ragionevolmente e moralmente i sensi che sono i miei. Da molto tempo penso che la frase di Rimbaud, molto più che altre di Marx, potrebbe essere iscritta (e se dico di Marx è perché lo ritengo molto vicino a noi, o ritengo che noi siamo molto vicini a quello che lui ha rappresentato e rappresenta oggi per il nostro tempo) – ma dicevo, molto di più, se penso all’importanza che questo partito ha assunto per me, al punto da divenire un elemento di civiltà nel quale vivo con tutti i limiti e i rischi (una civiltà rischia anche sempre di essere soddisfatta di se stessa, di essere in qualche modo terroristica, e di non essere cultura. E’ un rischio, non è una realtà).

(…)

Questa storia della non scissione tra vita pubblica e vita privata, questa storia per cui amore e libertà, moralità e spontaneità, devono tendere a coincidere o a essere, come sono, la stessa cosa – vivo l’uno e vivo l’altro, o morto l’uno morto anche l’altro – dicevo, questa frase apparentemente non politica, “le reisonnable dèrèglement de tous les sens” – forse adesso più comprensibile anche grazie alla cibernetica, al fatto che sappiamo di essere meccanismi, che sappiamo che la libertà inizia nella misura in cui conosciamo i condizionamenti dei quali siamo vittime, sappiamo la relatività delle verità nelle quali crediamo giorno per giorno, sappiamo che l’unica cosa però che possiamo fare è di comportarci come se queste verità storiche, parziali, fossero la sola verità che abbiamo.

Credo che il rigore, credo che la linearità sia poi in realtà la premessa, la durata – mi pare dicesse Bergson, un filosofo (vi spiegherò poi perché oggi mi permetto anche delle citazioni culturali, con la disistima che voi sapete ho in genere per questo tipo di citazione): “La durata è la forma delle cose” – e questa lenta continuità che attraversa tanti di noi e che non termina qui… davvero presente, passato e futuro in certi momenti appaiono come sono punti di riferimento dialogici necessari a verità molto relative.

(…)

La felicità non tollera impazienze: è una creazione lenta e continua e non un oggetto da consumare nei momenti in cui si sentono dei bisogni.

Il momento è importante, il partito ha molto da fare, ciascuno di noi ha realizzato il progetto per il quale si è associato, nei momenti di maggiore importanza, lì c’è il bisogno di maggior rigore, lì necessario che ciascuno cresca, e decrescano i leaders e i testimoni e gli apostoli, senza di che non si è libertari.

Ed è con la serenità di sapere che il Partito radicale è importante per me, per le ragioni che sono le sue, così come le amicizie, gli amori, l’essere compagni, si difendono difendendo le ragioni per le quali le amicizie, gli amori, le compagnie nascono, e non incollandosi a esse e alle loro forme, che per forza di cose allora diventano molto presto mortali e finiscono. Tenendo presente queste ragioni, io vi parlo, qui, avendo da alcune ore deciso e sapendo di essere un sostenitore non iscritto del Partito radicale.

Il vostro Statuto mi consente di parlare e di usare il tempo del Congresso del partito: lo faccio. Credo a questo Statuto, credo a questo partito, dò il mio contributo, riguadagno libertà, ho sempre detto ai liberali (quando se ne trovano, col lanternino) che il vero liberale è quello che nei momenti di dittatura, che nei momenti di scontri violenti, crede – in quel momento – alla libertà, alla responsabilità; crederci, in Inghilterra, non significa essere liberali, significa credere che la libertà è la cosa migliore da vivere per crescere, per risolvere i problemi più drammatici. Le cose vanno capovolte: e allora un partito libertario che abbia un padre, un leader, un compagno “più importante”, qualcuno verso il quale l’amore è inquinato dall’ammirazione, o la disistima è inquinata dal risentimento, è qualcosa che non può permettersi. Se potesse permetterselo, poiché io credo che ciascuno di noi per un miliardesimo può crearlo, io sono impegnato a impedire questo e a creare, per me almeno, e per ciascuno di voi, un rapporto diverso.

Per questo, in termini di civiltà, in termini democratici di classe, il valore di questo partito è quello di prefigurare nei dolori e nella felicità che si conquistano, nelle vincite che fa davvero la società alla quale tutti possiamo sperare di arrivare, non un giorno troppo lontano, ma di arrivare giorno per giorno, un po’ di più. Non esisterà mai la società senza lotte, senza contraddizioni, senza dolori. L’unica cosa che possiamo chiedere a noi stessi, è di non essere mortificati da dolori inutili e fragili, estranei, quelli a cui la nostra condizione di donne e di uomini a questo punto della storia può chiederci appunto di non rinunciare, non morire per fame, non veder morire per fame, non linciare, no?, e queste altre cose”.

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