Scorrendo le schede editoriali, mi fermo a pensare a quanti romanzi raccontino il passato: storie di famiglia, o comunque vicende ambientate all’inizio del Novecento, o a metà. Storie individuali o collettive, poco conta. Intanto, c’è da chiedersi perché. Ma a questa domanda hanno già risposto altri, in passato. Per esempio, nel 2015 (qui), Wu Ming 2:
“lo smarrimento: l’individuo che si perde nel bosco, solo, senza mappa né bussola, circondato da tronchi a perdita d’occhio, d’istinto cerca di tornare sui propri passi, in cerca di un punto di riferimento, se non addirittura del luogo di partenza. Questo stesso istinto – che non è ancora “coscienza storica” – mi pare fondi l’attuale brama di passato, la ricerca di un punto d’origine del presente. Credo che le persone intuiscano, fiutando l’aria, quello che Jameson affermava venticinque anni fa: nel tardo capitalismo è solo “storicizzando sempre” che possiamo recuperare una distanza critica, e costruire mappe cognitive con le quali orientarci”.
E qualche tempo fa, Kazuo Ishiguro (qui) :
“Nel suo romanzo precedente, “Non lasciarmi”, lei ha immaginato una fuga nel futuro, mettendo in scena dei cloni allevati per donare i loro organi. Qui, invece, nel “Gigante sepolto”, la fuga è nell’alto medioevo della Gran Bretagna. Si sente più a suo agio evitando di ambientare le sue storie nel presente?
Nelle mie intenzioni, entrambi i libri riguardano il presente, anche se non in apparenza. Ho cominciato a scrivere Il gigante sepolto pensando a quanto è successo in Bosnia e in Ruanda negli anni novanta: proprio ricordando queste popolazioni che vivevano in una pace evidentemente fittizia, e che quasi all’improvviso si sono ritrovate al centro di tremendi conflitti, ho messo in scena la convivenza precaria di Bretoni e Sassoni. Nel caso di Non lasciarmi è vero che la trama sembra proiettata nel futuro ma in realtà siamo in quello che chiamerei “un presente alternativo”, e anche in questo caso mi sono valso della grande libertà del romanziere, della enorme scelta a disposizione tra geografie e tempi storici, per regire a quanto accadeva intorno a me. Il mio è un tentativo di defamiliarizzare cose familiari, per far vedere in modo efficace fatti ai quali ci siamo tanto abituati da non accorgercene più”
Sono strade simili nella diversità, e nei due casi l’idea è quella di recuperare un quadro d’insieme che, per dirla ancora con Wu Ming, fornisca “una via di mezzo tra la particolarità dei personaggi e l’universalità dei significati. In questo suo ruolo, direi epistemologico, sta la sua funzione sociale, e dunque la sua responsabilità politica”.
Ecco, non avviene con frequenza: spesso ho la sensazione che il romanzo storico venga utilizzato per proiettare all’indietro non qualcosa di cui non ci accorgiamo più, come dice Ishiguro, ma qualcosa che avviene ora. Il nostro io, i nostri problemi, le nostre emozioni. Che è cosa diversa (sempre Wu Ming) del “dar conto di sé” di Judith Butler, ed è cosa diversissima della ri-de-costruzione letteraria della storia di, per dire, Don DeLillo, o della proiezione nella distopia che appartiene a Margaret Atwood. E’ come se il tipo di narrazione che Le Guin definiva “da appartamento borghese di Manhattan” si fosse trasferita fra cascine o baite di un secolo fa.
Non sono sicura di essermi riuscita a spiegare, ma credo che il problema vada posto: è ovvio che esiste un’antica voracità nel perseguire i filoni, ma forse dovremmo tutti trovare il tempo di ragionare su cosa intendiamo per letteratura e storia.
E mi piaceva che la storia qui non circolasse a piede libero. Qui la segregavano, la storia visibile. La ingabbiavano, la fondevano e la brunivano, la conservavano in musei e piazze e in parchi commemorativi. Il resto era geografia, tutto spazio, luci e ombre, e un indicibile calore incombente.
(Don DeLillo, Underworld)