QUINDICESIMO INTERLUDIO: LO STIGMA DELLA DEVIANZA

Conosco Federico Bonadonna da un po’. Nel 2005 scrisse un libro bellissimo, Il nome del barbone. Lo seguo, come posso, da lontano. Ma oggi voglio condividere qui il suo status, perché insegna a guardare il mondo in modo diverso (come gli antropologi veri sanno fare).
A proposito di senza tetto che rifiutano i centri di accoglienza: note sullo stigma della devianza
In queste ore di buriana, i media intervistano gli operatori sociali di strada che offrono beni di prima necessità ai senza tetto. Da Milano a Roma, il refrain è lo stesso: i senza dimora rifiutano i centri di accoglienza.
Questi operatori dicono la verità, naturalmente, ma al tempo stesso mentono. Non abbiamo nessun motivo di dubitare che a domanda (“questa notte fa freddo, vieni con noi al rifugio?”) ci siano dei senza tetto che rispondono no, grazie.
Perché? Sono pazzi e/o ubriachi quindi non sentono il freddo?
Sì, forse hanno anche un disagio mentale e sono alcolisti, ma non è questo il punto del rifiuto.
Nei primi anni 90 ho lavorato per un anno sulla strada con le persone senza tetto che rifiutavano i servizi, in particolare quelli di accoglienza notturna (ma anche le mense sociali e i panini dei volontari). Tutte le persone con cui ho parlato dicevano che i rifugi, pubblici o privati, facevano schifo. Effettivamente alcuni erano indecenti: feci sui muri dei bagni, sporcizia ovunque, vomito sotto le brande.
Giovanni Pieretti sostiene che le povertà urbane estreme possono essere affrontate soprattutto se si abbandona il modello privatistico e promozionale dell’intervento, un modello che ha un sapore medicale. Molte delle persone che vivono sulla strada per molto tempo, hanno bisogno di un affiancamento, un lavoro di prossimità che permetta di ristabilire un contatto con forme di realtà progressivamente perdute.
Le nostre politiche sociali locali, nel migliore dei casi, tentano di abbassare le soglie comunicative. “Mi pare però che un elemento venga completamente trascurato. Esso risiede nel fatto che si considera l’utente potenziale un individuo razionale, volterriano, e non un individuo umile, a volte vergognoso. Emerge una modalità univoca per definire povertà e bisogno. Sembra scontato visto che si suppone che povertà e bisogno abbiano una valenza auto evidente, che un cittadino, eventualmente aiutato perché le soglie sono state abbassate, si rivolga, allorché in stato di bisogno, ai servizi di welfare locale. E invece i sistemi di welfare vanno in crisi, perché sono apparsi, in particolare negli ultimi anni, individui e gruppi sociali che non hanno la stessa definizione di povertà e bisogno di quella in possesso dei servizi”, dice sempre Pieretti.
Così, quando ne ho avuto la possibilità, durante le giunte Rutelli e in particolare Veltroni, ho cercato di cambiare la qualità (e la quantità!) dei centri di accoglienza, articolandoli in varie soglie nel tentativo di andare incontro alle tantissime esigenze.
In particolare nel 2005 abbiamo aperto un centro di accoglienza sperimentale per “barboni cronici”, cioè persone “multiproblematiche” che vivevano sulla strada da moltissimo tempo e che avevano sempre rifiutato l’accoglienza. All’epoca dirigevo l’ufficio “Emergenza sociale e Accoglienza” e questo era rifugio di bassa soglia composto da prefabbricati che potevano ospitare un massimo di quattro persone.
I primi ospiti furono due signori sulla settantina, alcolizzati e malridotti soprannominati Cip e Ciop. Vivevano sulla strada da una vita e i volontari di associazioni e parrocchie li seguivano per portare loro coperte e pasti caldi.
I nostri operatori sono andati ogni giorno, e non solo nel momento del bisogno. Prima a parlare, a collezionare rifiuti, insulti e a condividere tempo con loro. “E fattela una doccia, dai, vieni a provare il nostro centro, ti accompagnano noi. Se non ti piace te ne vai, anzi ti riportiamo qui”. Un lavoro frustrante, quello dell’operatore. Ma alla fine Cip e Ciop sono venuti.
Il nostro centro di accoglienza era situato in una località relativamente isolata, quindi l’impatto sociale era modesto. Il centro si riempì presto di barboni, di marginali, di interstiziali, di quelle persone che quasi nessuno vuole avere tra gli ospiti perché se la fanno addosso, non si lavano, ruggiscono e vomitano.
Noi non parcheggiammo quelle persone in quel centro, né ci limitammo ad accoglierle. Le prendemmo in carico, le riconoscemmo come individui e non come generica umanità dolente né come carne in putrefazione. Ciò significa che gli operatori sociali, per tutto il periodo in cui ci hanno permesso di gestire quel servizio, si sono armati di guanti, tute e stivali di gomma per lavare queste persone perché per alcuni di loro il progetto sociale consisteva nel convincerli a tagliarsi le unghie e a farsi una doccia, obiettivo all’apparenza semplice su cui a volte abbiamo dovuto lavorare anche intere settimane. Lavate, ripulite e rivestite, molte di queste persone sono state accompagnate nei vari uffici dell’Inps e dell’Asl per sbrigare le pratiche sanitarie, per la pensione di invalidità o per far assegnare loro un tutore giudiziario. È emerso così che molti dei nostri ospiti non erano poveri, almeno non nel senso economico del termine. Alcuni infatti avevano diritto a una buona pensione d’invalidità e all’accompagnamento. Altri avevano maturato anche cospicui arretrati.
Dopo un anno i nostri prefabbricati da due o da quattro posti ospitavano cinquanta persone che accumulavano cicche di sigaretta e bottiglie di vino sotto il letto, proibito dai regolamenti ma gestito con intelligenza dagli operatori. A un alcolista cronico con settanta primavere sulle spalle che ha vissuto trent’anni sulla strada e beve fin dall’adolescenza, si può anche proibire di bere, ma questi abbandonerà il centro per tornare sulla strada, e l’istituzione l’avrà perso un contatto prezioso. Questo per dire dell’importanza di lavorare con operatori sociali qualificati.
Secondo Giovanni Pieretti, “Il punto di non ritorno della traiettoria di vita di questi soggetti consiste in un restringimento relazionale pressoché totale, in un crescente ritiro da ogni rapporto con gli altri più significativi nel sistema della personalità”. Le persone che hanno perduto il legame comunitario sono desaffiliès, nel macro quanto nel micro: “Il loro sistema della personalità è deluso, vuole ritirarsi, sino a lasciarsi morire. Spesso la traiettoria è veloce. Non vi sono servizi disponibili per coloro che appartengono all’area del non ritorno”.
In conclusione, gli operatori che ripetono che i senza tetto rifiutano l’accoglienza omettono un passaggio fondamentale: non è che se sei disperato, solo, in strada, devi accettare tutto da tutti. I senza dimora sono appunto persone, persino, una notizia!, quelli con diagnosi di disagio mentale e/o alcolismo. Chi dice: “meglio un centro di accoglienza della strada”, non sa di cosa parla, usa un “eccesso di razionalità” che non applicherebbe mai alla propria vita. E non solo perché non esiste un bene assoluto, ma anche perché ogni persona è diversa dall’altra e perché nessuno di noi accetterebbe qualcosa a scatola chiusa da sconosciuti. Poiché tali sono, mediamente, gli operatori. E non per colpa loro, è il modello che non funziona perché è disarticolato, fatto di interventi spot, emergenziali. E invece la presa in carico è un lavoro faticoso che necessita di un orizzonte temporale lungo, di fiducia reciproca perché è una relazione e a volte il progetto sociale consiste semplicemente nel riuscire a portare chi non si lava da anni, a farsi una doccia. E’ una scena terrificante e a volte c’è bisogno di un medico che intervenga sulle pustole, le unghie incarnite, le ferite, le croste. Nessuno accetta di farsi mettere le mani addosso da uno sconosciuto.
Per questa ragione bisognerebbe smettere di dire: “i senza tetto rifiutano l’accoglienza”. Perché detta così, è uno stigma, lo stigma della devianza.

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