SEDICESIMO INTERLUDIO: PERCHE' NON CONCORDO CON VITO TETI

Uno dei libri più belli e importanti degli ultimi tempi lo ha scritto Vito Teti, ed è Quel che resta. L’Italia dei paesi tra abbandoni e ritorni. Pochi hanno la sua attenzione alla strategia dello svuotamento, pochi sanno raccontarla svicolando da retorica e nostalgia. Proprio per questo, non sono d’accordo con quanto ha scritto su Linkiesta. Non del tutto, almeno. Scrive Teti, fra l’altro:
“Anche gli “intellettuali” soffrono la crisi, sono disgustati, non se la sentono di scegliere il meno peggio; certo ci sono tante attenuanti per il loro silenzio, ma la sensazione è che il loro silenzio sia interessato, calcolato, dettato da troppe paure e troppe premure. L’intellettuale, come diceva Alvaro, però, sembra avere rinunciato; arretra, attende, aspetta un giro. Non sa chi vincerà o meglio sa che non vincerà, del tutto, nessuno e, allora, meglio attendere, tutti hanno famiglia, libri da pubblicare, Festival da dirigere, Musei da aprire, chiacchiere e distintivi da promuovere. Quando vincere non puoi, dice un nostro proverbio, cerca “appattare”, cerca di fare pari. Poi, ci sarà la partita di ritorno.
Perchè sbilanciarsi? E nella convinzione che tutte le forze politiche finiranno col perdere o col non vincere in maniera definitiva, perde l’Italia. L’Italia dei saperi, degli uomini e delle donne libere, di chi avrebbe il diritto e dovere di dire la sua. E i calcoli e la paura degli intellettuali sono un altro segno di un’omologazione, di una decadenza, di un “neo-fascismo” o di una crisi della democrazia (oltre che dei partiti e dei movimenti ormai come i partiti) che fanno parte del nostro vivere quotidiano”.
Sembra, il mio disaccordo, andare nella direzione opposta di quanto scrivevo qualche giorno fa, a proposito del disinteresse verso quanto accadeva, e accade,  in Turchia, e dove pure sottolineavo la sensazione di chiusura nel proprio mondo. Ma mi sembra che, per quanto riguarda le elezioni incombenti e a differenza dello sguardo fuori dai confini,  ci siano decine e decine di intellettuali che si sono schierati e si stanno schierando, spesso e volentieri dichiarandolo, quel voto (cosa che mi piacerebbe fare, ma che non posso fare: qualche tempo fa, mi è stato poco garbatamente detto da una serie di ascoltatori di Radio3 che in quanto conduttrice di una pubblica emittente non devo permettermi di esplicitare per chi voterò. E per non creare problemi alla mia radio, non certo a me, non lo faccio, pur mordendomi le dita per l’oscurità dei tempi e di certe menti). Ci sono decine e decine di intellettuali che stanno evidenziando quanto sia importante pronunciarsi e battersi contro i fascismi di ritorno e i criptofascismi: e c’è chi lo fa anche in tempi non elettorali, peraltro, e quasi tutti giorni, peraltro. Infine, se posso, anche immaginando un Festival si può fare politica: perché la politica non sta solo in una dichiarazione di voto, ma in quanto si fa e si dice e si scrive in ogni momento della propria vita. Poi, certo, a fronte ci sono anche quelli che si preoccupano solo di quante recensioni avrà il proprio libro, e che non si curano di come la letteratura possa e debba incidere nel mondo in cui si vive. Legittimo, ma preferisco pensarla come Murakami Haruki:
“Tra un muro alto e solido e un uovo che si rompe contro di esso, starò sempre dalla parte dell’uovo. Sì, non importa quanto il muro abbia ragione e quanto l’uovo abbia torto, io starò dalla parte dell’uovo. Qualcun altro dovrà decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; sarà forse il tempo a farlo, o la storia. Ma se ci fosse un romanziere che, per qualsivoglia ragione, scrivesse stando dalla parte del muro, che valore avrebbero le sue opere?”

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