RECENSIONI TARDIVE: LE ROSE DI ORWELL

Nella primavera del 1936 uno scrittore piantava rose. Quello scrittore è George Orwell, e alcune delle sue rose sono ancora vive. Anzi, permettono a una scrittrice profondamente politica di provare a opporre la bellezza all’orrore. E’ un libro molto particolare e difficilmente definibile, quello di Rebecca Solnit, notissima per Gli uomini mi spiegano le cose e Ricordi della mia inesistenza: questo Le rose di Orwell, che è uscito per Ponte alle Grazie nella traduzione di Laura De Tomasi, segue una strada singolare, ovvero non soltanto rintraccia un’altra biografia possibile dello scrittore, ma prova a capire quanto le nostre singole vite possano essere diverse grazie agli alberi, alle piante e alla sensazione di forza e comunità che trasmettono. Scrive Solnit: “se dovessimo pensare a qualcosa che è l’esatto opposto della guerra, forse dovremmo pensare ai giardini, e la gente infatti trova nelle foreste, nei prati, nei parchi e appunto nei giardini un peculiare senso di pace”.
Orwell trovò il suo il 2 aprile 1936, pochi mesi prima di compiere 33 anni: arriva infatti a Wallington, nella contea di Hertfordshire, affitta un cottage e insieme alla fresca sposa Eileen  O’Shaughnessy comincia a piantare rose e alberi da frutto, a coltivare ortaggi e a vendere i prodotti della sua proprietà in un piccolo emporio. Scrive, naturalmente: in particolare, La Strada di Wigan Pier. Molto più avanti, nel 1946, in un articolo per il Tribune, farà delle considerazioni esplicite su cosa significhi coltivare piante: “Piantare un albero, dice, specialmente se si tratta di una latifoglia di quelle che vivono a lungo, è un modo per fare un regalo alla posterità senza spendere quasi nulla e praticamente senza problemi: se l’albero mette radici, sopravvivrà di gran lunga agli effetti di qualsiasi vostra azione, buona o malvagia che sia”.
Solnit, per cominciare, va in cerca delle piante di Orwell in quel che resta del cottage: gli alberi da frutto non ci sono più, ma le rose sì. Sono due grandi cespugli ribelli, uno di boccioli rosa pallido, l’altro con fiori quasi color salmone bordati di giallo oro. Vivissime, al punto che Solnit ne è esaltata: “quell’uomo, la cui fama era legata alla sua capacità di prevedere e di descrivere i totalitarismi e la propaganda, di guardare in faccia fatti spiacevoli, allo stile sobrio della sua prosa e alla sua intransigente visione politica, quell’uomo aveva piantato rose”. Dunque il piacere, la bellezza, il tempo trascorso senza un tornaconto possono occupare un posto centrale in alcune vite. E dunque, ci dice Solnit, dovremmo fare spazio a tutto questo anche nelle nostre.
Per dimostrarlo, compie un viaggio tra le rose, e non solo di Orwell. Nel gesto di piantare e curarle, dice, c’è già quello che sosterrà Michael Pollan ne La Botanica del desiderio, dove si sostiene che noi pensiamo alle piante come a qualcosa che abbiamo addomesticato, mentre sono state loro ad addomesticare noi, “affinché ce ne prendessimo cura e ne favorissimo la diffusione”. Peraltro, quel che Orwell scrive nel suo roseto riguarda il carbone, inteso come lavoro, come smog, come malattia. Orwell scrive di minatori, e della nostra smemoratezza nel non comprendere il loro lavoro, o dimenticarlo subito. Quando arriva al cottage, era stato nei distretti minerari e industriali inglesi. A dicembre di quel 1936 si sarebbe unito ai miliziani nella Guerra civile spagnola, che avrebbe raccontato in articoli e in Omaggio alla Catalogna. In un certo senso, sia nei libri che nei gesti, sapeva di essere dalla parte del futuro.
Ma George Orwell non è il solo protagonista del libro. C’è una donna, per esempio, che nel 1924 fotografa rose: Tina Modotti, che sosteneva appassionatamente i rivoluzionari. Ce ne sono altre. Ci sono Helen Todd, attivista per il suffragio femminile che nel 1910, durante un viaggio in Illinois, incontra Maggie e Lucy e la loro madre novantenne. Maggie, raccontando di un raduno, spiega che la parte più bella “è quella storia delle donne che votano in modo che tutti abbiano il pane e anche i fiori”. Quella storia diventerà una frase, Bread for All, and Roses Too e verrà ricamata su un cuscino e narrata negli articoli di Todd. Un anno dopo il poeta James Oppenheim pubblica la poesia Bread and Roses, dove le donne marciano lottando per entrambe.
E qui Solnit dice la sua su letteratura e impegno: “L’idea che l’arte debba esortarci a fare qualcosa contiene la sottovalutazione dei bisogni e dei desideri di coloro che sono già impegnati a favore di qualcosa e di ciò che li spinge …L’arte che non ha come soggetto la politica qui e ora può rafforzare il senso di sé e della società, dei valori e dell’impegno, o anche quella capacità di mettersi in ascolto che fa sì che una persona sia in grado di reagire nei momenti critici”. Insomma, ci aiuta a costruire una coscienza politica.

 

 

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