MEMORABILIA: JANE AUSTEN

Continuo con le memorabilia. Oggi, Jane Austen. Sempre da La Stampa.

 

Witty. Parola difficile da tradurre, parola che, grossolanamente, potremmo indicare come quella che suggerisce l’arguzia, lo spirito, l’intelligenza. Jane Austen, in una parola. Witty è infatti il termine scelto per definirla da Liliana Rampello, nello splendido saggio introduttivo all’imperdibile Meridiano Mondadori che di Austen raccoglie tre romanzi (Northanger Abbey, Ragione e sentimento, Orgoglio e Pregiudizio, tradotti da Susanna Basso) e altri scritti (Juvenilia e Lady Susan, tradotti da Stefania Censi, Letizia Ciotti Miller, Linda Gaia e Francesca Pinchera).

 Witty ci aiuta a svelare il mistero Austen, per alcuni mite autrice di storie per altre signorine, nei fatti punto di svolta nella letteratura di ogni tempo. Per lei, non dimentichiamolo, Virginia Woolf coniò la definizione di “attizzatoio di cui tutti hanno paura”, perché aveva riconosciuto lo sguardo acuto e incredibilmente sereno (ma feroce) con Austen osservava il mondo. Poco importa, oggi (ma importava moltissimo, allora) che scrivesse in una stanza di passaggio, su una scrivania di mogano esposta alle incursioni di domestiche e familiari: quella scrivania sarebbe divenuta il simbolo di un’emancipazione negata, ma nel tempo diventa sempre più evidente che è stata anche il luogo dove è nata una riscossa. Come sostiene Liliana Rampello, Austen dimostra “cosa succede quando, in un tempo dominato da millenni di pensiero e scrittura di uomini, in questo caso il Settecento europeo, irrompe la libertà di scrittura e di pensiero di una donna. E niente potrà essere più come prima, anche se ci vorrà tempo perché questo straordinario evento venga registrato”.
Tempo e ostilità.  Austonolatria, Austenofobia, dice Rampello: c’è chi la paragona a Mozart e chi, come Mark Twain, vuole dissotterrarla per colpirle il cranio con la sua stessa tibia. “What is all about Austen?”, scriveva Joseph Conrad a Wells nel 1901. Dunque, prima che Churchill e Rushdie le giurassero passione, molto prima del successo mondiale, dei quiz “Che eroina di Jane Austen sei?”, e anche prima degli appassionati ufficiali, o Janeites, che prendono il nome dal racconto che Kipling le dedica (una società segreta le cui parole d’ordine vengono dai romanzi di Austen). E prima che W.A. Auden mettesse a fuoco uno dei grandi temi austeniani nella sua Lettera a Lord Byron: “Voi non potreste urtarla/più di quanto essa mi urti:/Joyce accanto a lei è più innocente dell’erba./ Mi mette in imbarazzo lo scoprire/una zitella inglese della media classe/descrivere gli effetti amorosi del “contante”, /rivelare francamente con tale sobrietà/le basi economiche della società”. Esatto: dopo il nome e il grado di parentela, la prima informazione che viene fornita sugli uomini e le donne di Austen è l’ammontare della rendita annua. Ottenuta per nascita o nozze, non per impegno individuale.

Il tema, dunque. Perché solo in apparenza i personaggi di Austen sembrano impegnarsi per mettere su famiglia, salvo diventare insopportabili dopo aver conseguito il proprio obiettivo, e ritrovarsi in salotto a parlare di caccia (gli uomini) e di figli (le donne). Destino da evitare, scriveva Austen a sua nipote: “Tu sei un modello di fatuità e di saggezza, di banalità e di eccentricità, di tristezza e di allegria… Chi può tenere il passo con le continue variazioni del tuo estro, i capricci del tuo gusto, il passo con le continue variazioni del tuo estro, i capricci del tuo gusto, le contraddizioni dei tuoi sentimenti?… Oh, che perdita sarà, quando ti sposerai! Sei troppo simpatica da nubile, troppo simpatica come nipote. Ti odierò, quando abbandonerai le tue deliziose elucubrazioni, per adagiarti negli affetti coniugali e materni”.
Non è vero, insomma, che il mondo di Elizabeth, di Marianne, di Elinor e delle altre sia il mondo a parte che ignora la Storia. E’ la Storia che viene letta da uno sguardo femminile, che solo in apparenza si posa su quelle che appaiono piccolezze: il caprifoglio, il formaggio Stilton, lo sciangai, le trine, i cappellini piumati, i balli, le gite. Come scrive Rampello, “i romanzi di Miss Austen non parlano di matrimonio, ma di ben altro, e lei in realtà sa benissimo qual è la Storia che le passa accanto, ma per fortuna se ne infischia con un coraggio e una determinazione che farà di lei una delle voci massime della letteratura mondiale”.
Dotata di voce, coscienza, intelligenza: tutte limpide e abbaglianti, e dunque da celare con i suoi ironici autoritratti. Almeno in apparenza, perché nei fatti l’attizzatoio andava a colpire chi vedeva in lei una donnetta. Così, rispondendo a un giovanotto che l’accusava, più o meno apertamente, di essersi ispirata ai suoi scritti, diceva: “E cosa potrei mai farmene, mio carissimo E, dei tuoi bozzetti così vigorosi e virili, ricchi di tanto spirito e tanto ardore? Come farei a congiungerli a quel pezzettino di avorio, largo due pollici, su cui lavoro col più fine dei pennelli, in modo da produrre il minimo degli effetti col massimo dello sforzo?”. Witty, appunto. Un apparente amabile nulla, così come la descriverà il nipote: una signorina esemplare, presa dalla vita domestica e dedita solo incidentalmente alla letteratura. Invece, la letteratura venne riformata da quella signorina esemplare, che scrisse apertamente, come ci ricorda ancora Rampello, “del desiderio di felicità individuale di una donna”. Era un’enormità. Per di più, quella signorina esemplare tracciò una vera e propria antropologia sociale, creando personaggi e situazioni straordinariamente vivi ancora oggi. L’arrampicatrice, l’avara, la ruffiana, la cretina, la formale, la salottiera, la madre ossessiva. Il compassionevole scapolo con panciotto di flanella. Il mammone. L’imbecille. L’ambizioso. Lo snob. Il festaiolo. L’invadente.  Se qualcuno si chiede il motivo delle infinite variazioni su Jane Austen, che vanno dall’omaggio dichiarato della Briget Jones di Helen Fielding fino alle avventure delle sue eroine contro gli zombie (per non parlare di tutte le derivazioni e le derive di film e serie e libri), probabilmente è qui che va trovato.
Di più. Quel che Liliana Rampello suggerisce è che Austen abbia scritto un intero ciclo di formazione che pone Elizabeth Bennet accanto a Wilhelm Meister e Julien Sorel.  Senza farsi notare. Perché, come dirà Flaubert, “non bisogna scriversi”: solo così l’illusione della parola cattura il lettore. Austen ci ha catturate tutte, e quasi tutti, anche per questo motivo: lei non si vede, nelle sue storie, anche se c’è, così come ci siamo noi, ancora oggi.

 

 

 

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