RIFLESSIONI SU UN LIBRO CHE NON HO CAPITO, OVVERO: L’ABORTO SOCIALE.

C’è un discorso politico da fare. Che riguarda la sparizione e la banalizzazione di tutto ciò che riguarda i diritti, e probabilmente si farà di giorno in giorno più forte. Per questo, bisogna cominciare a pronunciare quel discorso. Possibilmente, con parole di narrazione. E per questo ringrazio ancora una volta Ivano Porpora che ha regalato al blog questo intervento. Un grazie, anzi, è poco assai.
Spedivo alcuni fax, all’interno dell’azienda in cui lavoravo.
La macchina era di quelle vecchio modello: le pagine arrivavano come fossero sbiadite fotocopie, né c’era la possibilità di ricevere ordini via mail. (L’azienda, poi, è fallita. Non mi chiedo perché).
A un tratto vidi arrivare una ragazza che conoscevo. Lavorava in magazzino; era in lacrime.
Mi spiegò che i dirigenti avevano saputo che era incinta; le avevano detto che aveva fatto una cosa contro l’azienda, e altre cose – che non ricordo. Il responsabile di magazzino, mi disse lei, le era venuto vicino e le aveva detto “I t’à limpìda”. Ti hanno riempita.
Questo ricordo tra altri mi è venuto alla mente leggendo Lettera al figlio che non avrò, libello di Linda Lê edito nel 2012 da Barbès. L’ho finito ormai mesi fa, eppure è da allora che mi sto arrovellando su una recensione che non riesco a ultimare. Mi manca sempre l’unghia, come la chiama mia moglie: il guizzo finale. Come se all’interno ci fosse un qualcosa, un retrogusto, un sottofondo che sfuggendomi mi avesse compromesso la capacità di comprendere in toto il testo. Silvia lo ha letto poco dopo; è venuta da me e mi ha detto: “Chiaro che non hai capito. Sei un uomo”.
Ecco quindi il punto. Lettera al figlio che non avrò, di cui comunque mi riservo di fare una lettura più approfondita altrove, parla di una donna che decide consapevolmente – in un atto insieme personale, sociale e fortemente politico – di non mettere al mondo figli. Ne dà alcune motivazioni di carattere autobiografico (il legame con la madre, oppressiva, che Linda non intende perpetuare); e narra delle pressioni, caute e incaute, che riceve da tutti – il suo compagno in primis – perché, invece, “dia compimento al suo essere donna”.
Sdogana, soprattutto, alcuni concetti che prima d’ora non avevo mai sentito esplicitati in questo modo, così dolente e insieme pubblico: Rivendico il diritto di non partorire. Ricuso l’idea della maternità come condizione di completezza della donna. Non voglio travestire di disordinato entusiasmo le mie contraddizioni.
Ho scoperto così che una serie di riflessioni dell’autrice, che durante la lettura mi parevano quasi ridondanti (Non vuoi fare un figlio? Non farlo! Te lo ripetono di continuo? Sono domande bonarie!), costituivano in realtà una risposta congrua e continua alla reiterata sollecitazione di modificare uno status. Alla domanda cioè di farsi, in qualche modo, altro da sé. Un altro da sé potenzialmente meraviglioso; ma che ha come condizione implicita del suo esser meraviglioso l’essere scelta e non obbligo.
Come spesso mi accade, la lettura di un bel libro risistematizza riflessioni che avevo compiuto in nuce e che erano rimaste inattive in me. Questa riguarda la tematica dell’aborto – ed è alla fine di aborto che parlerò.
Lo farò ricorrendo ancora a un ricordo. Risaliamo al 2005. C’è un convegno a Carpi sull’aborto; vado con la mia compagna e mi accorgo che sul palco ci sono – se non ricordo male – undici relatori: undici uomini, di diverso status – preti e laici -, nessuna donna. Non è solo questo che mi colpisce: è anche il fatto che l’uditorio invece fosse composto quasi esclusivamente di donne. Come se fossero accorse a informarsi sul giusto comportamento etico in merito a un qualcosa che i relatori materialmente non avrebbero mai potuto cogliere nel suo tutto.
Esprimo subito il mio parere. Credo che l’aborto sia una questione squisitamente femminile, sulla quale, all’interno della mia coppia, ho diritto a esprimere un’opinione, ho diritto a un confronto; non a una decisione. Non è cosa che si svolga nel mio corpo, l’atto della procreazione, non ne posso capire la portata – né di questo né del concepimento -, non ne posso afferrare il senso dal punto di vista fisico né psichico. Nemmeno metaforicamente. Ricordo le lacrime di una donna che si sottoponeva a un’IVG in ospedale, e non posso pensare io, casualmente lì, di poter giudicare lei che in quella saletta, sola, era entrata. Né mi possono interessare, se non da un punto di vista umano ma non certo da quello di una valutazione etica, i motivi che la possano aver spinta al gesto.
Ed eccoci al punto. C’è un solo aborto che mi sdegna. E si tratta dell’aborto sociale, ossia della sanzione da parte della società e delle sue componenti – in particolare: le componenti di potere – che si inserisce con un’intrusione illegittima quanto accettata all’interno di una riflessione personale e impedisce alla donna di decidere se far figli o non farli. Ponendola, del resto, in una sorta di no-win situation: se faccio figli ricevo una sanzione sociale dal punto di vista lavorativo, se non ne faccio ricevo una sanzione sociale dal punto di vista etico. Né è possibile la via di mezzo: se interrompo la gravidanza ricevo una sanzione differente dalle prime due che mi vede, essenzialmente, come interruttrice di ciò che porta avanti il sostentamento dell’organismo-società.
Ho parlato di sanzione differente, in quest’ultimo caso, e non maggiore o minore perché non sono in grado di stabilire se più forte o più debole: sempre uomo sono. Se mi arrogo il diritto di dire cose al posto loro, non sto ancora facendo illazioni sulle donne?
Ma ancora. Aborto sociale è la messa in non-condizione da parte della società di fare figli. Una sorta di vincolo che impedisce la libera, liquida decisione da parte delle famiglie – e mi sembra inserirsi in un contesto di cui qui non è il momento di parlare ma che accenno, che è il contesto della nebulizzazione del nemico. Cioè: da una parte si avversa l’aborto, dall’altra le condizioni economiche impediscono alle famiglie di poter decidere liberamente se espandersi o meno.
E infine. Il porre una demarcazione tra famiglia e carriera, di fatto creando una dicotomia, le impoverisce entrambe – ponendole in contrapposizione, una come rinuncia all’altra – impedendo tra l’altro di capire che tertium datur, eccome; e che questo tertium forse non viene tenuto in considerazione proprio perché attiene alla stretta sfera del personale, e che la sfera del personale viene di fatto negata al femminile.
Come se le donne fossero, come celebrava una canzone d’anni fa, “figlia madre moglie fidanzata sorella e nonna”. Sempre afferendo a un chi altro, invece che essere in sé.
Farò un’ultima considerazione. Tempo addietro, in tv, vidi una performance collettiva di diverse coppie che si mostravano alle telecamere e, una dopo l’altra, in un rosario di grani sgranati, ripeteva “Non darò figli a questa Italia”.
Ho capito solo ora a cosa si riferissero.
Non darò figli a questa valle, balia dalle mammelle di pietra, che ne farebbe schiavi o esuli. Ripago la montagna con la sua moneta, non sono il tipo che ricama col filo sottile dei bei ragionamenti. Sono scultrice. Le mie creature risorgono dall’inferno dei forni. Hanno viscere ferrigne, armature di pietra. Generazioni di diseredati, non c’è da stupirsi se il loro sguardo non è conciliante.
Claudia Quadri, Lupe, Casagrande 2000.

10 pensieri su “RIFLESSIONI SU UN LIBRO CHE NON HO CAPITO, OVVERO: L’ABORTO SOCIALE.

  1. E mi è venuto in mente Properzio, “nullus de nostro sanguine miles erit”, non si avranno soldati dal mio sangue. In una lettura molto personale: non si avranno infelici dal mio sangue.

  2. Mi è piaciuto tantissimo questo post, mi è piaciuta l’onestà intellettuale e la serietà emotiva e poter leggere l’atteggiamento di fondo che le donne desiderano dagli uomini. Ho trovato anche molto utile e illuminante l’incrocio di sanzioni a proposito del femminile: sei sanzionata se fai un figllio nel pubblico, se non lo fai nel privato, se abortisci ovunque. E’ terribilmente vero, e il termine aborto sociale è davvero molto calzante.
    Non concordo su alcune cose, piccole, ma penso che possa essere utile metterle dentro perchè riguardano la cornice ideologica in cui siamo inscritti e diciamo intrisi semanticamente.
    Questa ideologia e questa sintassi hanno un atteggiamento contraddittorio verso la generazione e la genitorialità, si decide che tutti hanno diritto di sindacare (maschi che detengono il potere, donne che ascoltano le indicazioni etiche fornite dai maschi, come dice la scena ben disegnata da Ivano Porpora) ma che la generazione è un fatto di donne. Questa estremizzazione della cosa, maschi potere compensatorio su donne che avrebbero un potere reale, si riflette in una scarsa maturazione del dibattito in tema, per cui alla fine, Ivano dice i maschi non sanno niente, nella coppia io ho un ‘opinione non ho un diritto di decisione. Non ho manco la possibilità di capire cosa accada a una donna.
    Io temo tutti questi assunti. Credo che siano performati culturalmente ma non sanciti biologicamente: chi si occupa di letteratura sa per esempio, che ci sono grandi scrittori che sanno scrivere bene di donne, e grandi scrittrici che sanno scrivere bene di uomini, la mia professione – io sono psicologa – si avvale della capaccità umana di trascendere la propria esperienza. Credo che sia l’adesione a una semantica culturale che impedisce le comprensioni, ma tutti possiamo spostarcene, e molti ci riescono.
    Penso anche che il grande problema sotteso alla discussione sull’aborto è il ruolo del maschile e la cittadinanza del suo diritto nella procreazione non che del suo dovere. Meno si elabora questa asimmetria per cui lui da una parte di se importante ed esistenziale che prende la strada nel corpo di lei, più l’antiabortismo triviale diventa il braccio armato di una sorta di psicopatologia collettiva, di un rancore reattivo rispetto a un dato complesso.
    E c’è anche un alttro rischio. Dire “la decisione spetta a te mia compagna” è una cosa che non solo trovo eticamente problematica, ma che ha anche conseguenze che alla fine perpetrano il sessismo. E’ giusto pensare che un padre è subalterno alla sua paternità se lei decide? Se lei decide sempre da sola, va da se che è il primo genitore necessario mentre quell’altro è satellitare.
    Una discussione sul sessismo e sull’aborto e sulla genitorialità deve passare dalla disamina anche di queste questioni.

  3. Allacciandomi a quello che ha appena scritto Zauberei e al tema della discussione a me viene in mente un’ altra storia che ho vissuto da vicino e dal di fuori, quella di un mio consanguineo che fin da piccolo adorava i bambini e si intuiva che sarebbe stato un ottimo padre. A ventitrè anni, fatto il militare, si è sposato e riprodotto, ma proprio un paio di settimane prima della nascita della figlia ha rincontrato per caso, in strada, una donna di una quindicina di anni più grande con cui aveva avuto precedentemente una breve storia e ha saputo che all’ epoca lei aveva deciso di fare un figlio da sola, e che l’ aveva fatto con lui. questa sua figlia non la conosciamo e neanche lui ha avuto poi modo di recuperare in qualche modo i contatti con la madre, che viveva in un’ altra città, ma ricordo come un suo senso di violazione, all’ idea di aver procreato a sua insaputa. Insomma, gli amici gli avranno pure fatto qualche battutaccia, io invece l’ ho visto ferito all’ idea. Il che mi ha insegnato che forse a volte anche i padri avrebbero diritto di scelta in questioni di discendenza.

  4. dire “decidi tu mia compagna” se ponon è necessariamente lavarsene le mani, per me e credo anche per Porpora è prendere atto di un dato di fatto: la gravidanza avviene nel corpo di una donna e quindi non si può portarla avanti senza il suo assenso…non perchè lei sia “superiore” ma perchè è il suo corpo quello investito dalla gravidanza. E ovviamente vale anche al contrario: nel caso in cui lei vuole tenerlo e lui magari no

  5. Madre per scelta, felice di aver allattato, condivido questo post dalla prima all’ultima parola. (Premessa necessaria per comprendere che non ho alcuna invidia o rabbia malcelalata) Sono una donna giovane che sa cosa significa avere due figli e che per loro, è stata costretta a lasciare il lavoro, atteso che in questa Italia non è possibile( o lo è in misura molto bassa) poter conciliare carriera e maternità.
    Ciò che mi fa rabbia, e da molto tempo, è il fatto che gli uomini pretendano di mettere parola in un mondo e in un corpo che non è il loro, che non risponde a regole che loro conoscono. L’aborto sociale è quello che da secoli viene praticato sulla mente e sul corpo delle donne, dagli uomini e da altre donne che avallano comportamenti sessisti.
    Il figlio è di entrambi se c’è una coppia che lo accoglie. Se questa non c’è, il figlio appartiene alla madre e sua è la scelta, qualunque essa sia. Se una coppia decide insieme (difficilissimo, poiché spesso ci sono tensioni contrastanti) il patrimonio della genitorialità diventa condivisione e ricchezza. Se no, si trasforma in una pietra. Fino a che ci saranno uomini che decidono cosa è giusto per le donne e donne che li seguiranno senza porsi interrogativi veri e seri, allora avremo problemi come ferite aperte.

  6. Ringrazio i commenti, e Loredana che ha reso possibile questo confronto.
    Mi dispiace oggi non riuscire a scrivere – ho un problema di linea telefonica che mi pone di fronte a un monitor altrui, sfarfallante.
    Ma ho letto, penso; domani o mercoledì (sta a Telecom) risponderò.

  7. Penso valga la pena leggere con attenzione questo intervento di Porpora perché dimostra abbastanza bene come in materia di aborto, l ‘impiego di una comoda una posizione pilatesca ( libertà di scelta), in realtà nasconda un cupo atteggiamento nichilista.
    Lo si vede bene qui, ed è quasi comico quando prima Porpora scrive di come; “l’aborto sia una questione squisitamente femminile (…) di cui non posso capire la portata.. (…) sulla quale non ho diritto a una decisione, (…) non è cosa che si svolga nel mio corpo, (…)-, non ne posso afferrare il senso dal punto di vista fisico né psichico(..) né della procreazione né del concepimento, nemmeno metaforicamente.
    E questo cavolo di passeggino, – aggiungo io- rimpiegatelo da sola.(ah ah)
    Ma questa è una battuta, la parte più importante del pezzo è, secondo me, quando parla di aborto sociale , e quindi dicotomie, no win situations o doppi vincoli che schiaccerebbero la “donna” in un confronto irrisolvibile con “lo stato” e “la società.”
    E d è davvero, un confronto irrisolvibile, se da questo confronto viene arbitrariamente esclusa la vita del nascituro, perché è attorno a questa vita da tutelare, a questo Valore, che donna ( coppia) e società possono trovare l’unica intesa e comunione possibile, altrimenti, come è evidente, il confronto diventa un commercio di presunti benefici, e ricatti che si annullano vicendevolmente e il cui risultato è ben espresso nel finale dell’articolo; “non darò figli a quest’ italia” cui lo stato potrebbe rispondere ;” e io non ti darò la pensione, etc.. uno scontro assurdo il cui esito è appunto la dissoluzione dell’individuo e della società.
    Scrive anche porpora che l’essere donna “ afferisce sempre ad altro invece che all’essere in se (..) Come se le donne fossero, come celebrava una canzone d’anni fa, “figlia madre moglie fidanzata sorella e nonna”. Ecco io penserei, che, au contraire, il male è proprio in questo individualismo e staremmo tutti meglio se ci riescisse di essere e di rappresentarci come figli padri o madri o nonni o fratelli di qualcuno
    Ciao,k.

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