Ci sarebbero, in verità, alcune considerazioni da fare sulla settimana appena trascorsa e sul tipo di reazioni suscitate da prese di posizioni sui cosiddetti argomenti caldi (la polemica su Doina Matei, lo scherno di alcuni politici verso i risultati del referendum). Non parlarne, mi vien detto. Non fare più post che possano accogliere persone piene di odio, o che vengono da te, proprio da te, ad accusarti di complotti planetari. O di snobismo, per il banale fatto che chiunque tenti di usare discorsi appena più complessi è snob, se non razzista (giuro, mi è stato detto) nei confronti di chi si sente additato come ignorante.
La questione è evidentemente più complessa di quanto sia possibile riassumere in poche righe. Ed essendo ancora caldi gli animi – il mio incluso, eh, perché a ricoprire il ruolo della Complottarda di Regime non ci sto, e neanche ci sto a farmi psicanalizzare via social da persone mai viste e conosciute – provo a trovare un punto d’inizio, o uno dei punti.
Così come i femminismi degli anni Settanta hanno cominciato a chiudersi nelle accademie sdegnando quanto avveniva fuori, c’è stato un momento in cui anche molti intellettuali hanno preferito sdegnare invece di capire. Ed è stato fatale, secondo me. La data è il 1991. Pietro Citati aveva appena scritto un articolo sognante, ma a mio parere poco partecipe, sulla presenza dei “borgatari” romani nel centro storico (lo trovate qui) . Sempre su Repubblica, Luigi Malerba gli rispose nel modo che segue. E questa, a mio parere, è stata una delle – sia pur inconsapevole, sia pure in buona fede- fratture.
E per ricucirle ci vorrà un bel po’ di tempo.
So bene che non possono essere oggetto di rettifica le sensazioni, le impressioni, le opinioni altrui. Quando poi vengono da uno scrittore come Pietro Citati, queste sensazioni impressioni e opinioni sono vere, appartengono alla verità di Citati e sono fuori discussione. La mia quindi è soltanto una opinione aggiunta, e diversa, di chi si sente chiamato in causa insieme agli avvocati, ai deputati, ai commercianti e agli scrittori che abitano il centro di Roma e che in varie occasioni e in vario modo hanno esternato i loro lamenti sulla invasione festiva dei borgatari. Faccio il mestiere di scrittore e da molti anni abito in centro, proprio nella zona battuta dai ragazzi delle borgate, e desidero dare ai lettori di questo giornale anche la mia verità su un fenomeno che ho spesso sotto gli occhi, anche se l’ argomento mi pare un po’ scontato e mi induce a qualche amarezza. Voglio spiegare perché quei ragazzi delle borgate che per una sera hanno deliziato Pietro Citati e i suoi innocenti amici americani, a me non sono simpatici. Prima di tutto vorrei invitare Citati ad avvicinarsi almeno una volta a questi divoratori di gelati giganti e ad ascoltare come parlano e di che cosa parlano. No, non assomigliano per nientissimo affatto ai ragazzi scamiciati del Quartiere Latino e tanto meno ai fieri contestatori dei decenni passati, non parlano di Platone e nemmeno di Woody Allen: parlano del cantante ascoltato la sera prima in TV, parlano dei negozi di jeans di via del Corso, delle macchine fuoristrada e delle moto giapponesi di grossa cilindrata che i loro amici borgatari più fortunati, e forse non tanto innocenti, cavalcano la sera del sabato e della domenica per raggiungere il centro, sdegnando la metropolitana. L’ estate romana che li ha portati nelle splendide piazze e strade del centro storico aveva l’ obiettivo di abituare gli abitanti delle lontane e orride periferie ad alzare lo sguardo su Palazzo Farnese, sui monumenti di Bernini e Borromini di Piazza Navona, sui palazzi di Via Giulia, sulla Scalinata di Trinità dei Monti e su altre meraviglie della Capitale. Possiamo affermare oggi senza timore di smentite che quell’obiettivo è fallito miseramente. Questi ragazzi non si sono adeguati al centro storico, è il centro storico che si sta adeguando a loro. Il risultato è il Mc Donald’ s di Piazza di Spagna e le innumerevoli paninerie spaghetterie pizzerie e birrerie che hanno scacciato dal centro storico gli artigiani, maestri di antica e preziosa manualità. Per me non è un bello spettacolo vedere questi ragazzi in fila come formiche per conquistare il loro gelato gigante e troppo carico di coloranti. Non è consolante notare che i loro sguardi non si alzano mai per guardare una facciata barocca e non è un bello spettacolo vederli lanciare le lattine della birra o le bottigliette della Coca Cola nella fontana del Bernini. Pietro Citati non può non aver visto in quale stato sono le strade e le piazze frequentate da questi ragazzi la mattina del giorno dopo: un mare di cartacce unte, di bottigliette, di barattoli, di bicchierini di plastica. E ha mai assistito alla partenza verso l’ una o le due di notte delle loro moto rombanti o delle loro macchine con le canzonette al massimo volume? Tutta colpa della periferia dove abitano? Tutta colpa della speculazione edilizia che li ha privati dei più elementari servizi ricreativi e culturali? Sarà sempre colpa della società? Certamente questo è il nodo che va sciolto, ma amarli così come sono mi sembra un grave errore politico. Sarò forse prevenuto, ma penso come Giulio Carlo Argan che, nonostante tutto, oggi l’ educazione, l’ informazione e la cultura siano beni di facile acquisto almeno quanto i jeans in via del Corso o i dischi di Madonna. Non posso credere che i figli di Citati si vestano come questi ragazzi delle borgate e non riesco proprio ad assimilare le loro voci al fruscio e ai cinguettii dei passeri sugli alberi di Piazza Indipendenza o di Villa Borghese. A me sembrano piuttosto squallidi emittenti di rumori e muggiti selvaggi. Se i miei figli parlassero come loro, se vestissero come loro, ne sarei molto dispiaciuto. Ho una certa dimestichezza e frequentazione con i loro compagni, che hanno la stessa età dei borgatari che muggiscono sotto le mie finestre e spesso non si possono permettere nemmeno il privilegio di un motorino, ma giuro che sono molto diversi. Mi si dirà che questi ragazzi sono figli di operai e non frequentano l’ università come i miei.
D’ accordo, non pretendo che parlino di Platone o di Woody Allen, non pretendo che vengano in centro con un libro sotto il braccio, ma da quando sono arrivati loro il centro storico ha cambiato faccia, e non è una bella faccia. So bene che non sono loro gli unici responsabili e che si è messa in moto la speculazione più infame per sfruttare la loro ingenuità, la loro ignoranza e i loro desideri indotti dalla pubblicità e dalle vetrine luccicanti. Sono proprio il loro entusiasmo e la loro sicurezza che mi rattristano perché non scorgo nei loro sguardi l’ ombra di un dubbio, il sospetto di essere delle vittime e non dei protagonisti. I loro occhi si accendono di eccitazione solo alla vista di una Honda o di una Land Rover perché c’ è sempre una Honda o una Land Rover nei loro sogni. I sogni dei giovani mi commuovono e mi preoccupano quando intuisco lo smarrimento di fronte a un futuro incerto, ai problemi della disoccupazione o della casa, ma non mi piacciono quando sono intrisi di pubblicità televisiva o quando vedo uno di questi ragazzi estrarre dalla tasca il telefonino cellulare per comunicare a un altro borgataro i suoi sogni consumistici fuori tempo. Capisco Citati, e in un certo senso lo invidio. Arrivare in centro una sera senza pioggia in questa primavera troppo fredda e troppo piovosa, osservare lo spettacolo di questa folla di ragazzi, può apparire un bello spettacolo, e uno scrittore ha il diritto di raccontarlo. Ma chi abita in centro e questi ragazzi li vede più spesso e più da vicino ha di loro una immagine un po’ diversa. E’ questa immagine che ho voluto aggiungere a quella di Citati, con l’ amarezza e la malinconia che accompagna ogni mia delusione.
C’è una differenza cruciale. Malerba scrisse quanto sopra su un giornale. Non scese, credo, in via del Corso fermando un ragazzo(tto) e dicendogli “Non mi piaci, sei intriso di pubblicità televisiva e sogni consumistici. Ora va ad ammirare palazzo Farnese (capra)”. L’avesse fatto, le presumibili reazioni non sarebbero state improntate alla dialettica.
La deprecazione (spesso collettiva) di vasti settori di “commentatori social” come “ggente” “ventre molle del paese” “ggente che deve solo vergognarsi”, “ignoranti”, se avviene su pagine seguite da migliaia di persone, assomiglia più alla seconda eventualità (anche perché l’intersezione tra le succitate migliaia di persone e laggente ben di rado sarà nulla). Internet non ha quarte pareti che possano essere bucate a discrezione di chi esprime opinioni. Che un* della ggente, che si legga così apostrofat* si dica “Adesso gliene dico quattro”, in fondo non dovrebbe sorprendere tanto.
Io invece mi chiedo quanto le deprecazioni collettive delle mille scomposte “reazioni della rete” non siano in fondo fenomenologicamente speculare alla reazione stessa e poco più feconda. E, almeno a me, ormai suscita lo stesso senso di stanchezza e inutilità. Mi sembra pavloviana,autocongratulatoria e, in quanto tale, non migliore dell’occasione che la genera – magari più informata, ma anche sticazzi: in ogni campo c’è gente più e gente meno informata. Fra l’altro ho la sensazione che i cori di derisione/deprecazione facciano poco per mitigare il fenomeno, anzi lo esacerbino e facciano, in effetti, parte dell’impossibiltà di comprendersi dai due lati di opinioni diverse, per cui ormai la situazione normale è che la parte avversa sia così ontologicamente pessima che tanto vale non starla neanche ad ascoltare, e certo non dialogarci.
Brava! Giulio Carlo Argan educò sentendo la responsabilità delle bellezze che si portava dentro e quelle che continuavano a gravitargli negli occhi non ignorando le Realtà che ne stavano, con indifferenza, facendo scempio presi dal vortice di chimerici sogni consumistici da preferire a uno schietto occhio interno lo sguardo a quelle scie di luce avute come faticoso dono di conquista.
Il bellissimo movimento femminista?…Retaggio storico e di polveroso archivio. Ciao.