Questa mattina, al risveglio, ho cominciato a ripetere silenziosamente le tabelline. Naturalmente è poca cosa: se fossi stata la Gaal Dornick di Foundation avrei mormorato numeri primi fino allo sfinimento, ma nel mio caso mi sarei fermata, probabilmente, a 37. Poi mi sono ripetuta, sempre a mente, le prime scene del Don Giovanni, e qui sono andata più veloce. Ho provato con Il gelsomino notturno di Pascoli, ma mi sono fermata ai primi versi:
E s’aprono i fiori notturni
nell’ora che penso a’ miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Ora, il mio esercizio mattutino non era il tentativo di allenare la memoria, ma di richiamare dalla memoria stessa qualche punto fermo, al di là di quanto leggo e apprendo quotidianamente: sono privilegiata, qualcosa che mi tiene in allenamento la ho, per fortuna. Cercavo invece, in modo ingenuo, un po’ di logica, matematica o musicale o poetica che fosse, per tenermi salda. Perché di saldezza continuo a vederne sempre meno, intorno a me.
D’accordo, mi preoccupo. Probabilmente a torto, probabilmente per una mia sciocca predisposizione a soffermarmi a guardare le fragilità che mi circondano: e nel discorso pubblico ne vedo troppe. Certo, parlare di discorso pubblico invece che di realtà (quella cui si faceva cenno ieri: gli sgomberi, il desiderio crescente di far sparire dalla vista la povertà, la spaccatura profondissima che si è voluta e si vuole in questo paese, i rischi economici che stiamo correndo, e così via), è già un privilegio. Ma mi chiedo anche come sia possibile affrontare seriamente le questioni, diciamo così, tangibili, se si sta progressivamente perdendo la capacità di discutere. E la si sta perdendo in ambito intellettuale (“dunque un niente”, echeggia Fortini nella mia testa. Vero, ma quel niente dovrebbe o almeno potrebbe provare a farsi modello).
Faccio qualche esempio che viene dai social: e prevengo chi potrà dirmi che dai social bisogna fuggire chiedendo pazienza, perché ci arrivo alla fine di questo post.
Da alcuni giorni non si riesce a intraprendere una discussione vera sullo schwa: ogni argomentazione portata da chi ne chiede l’abolizione con petizione ha con sé il retro pensiero che si tratti di imposizione, di cancel culture, di tokenism (in parole poverissime, di inclusività di facciata: ma poverissime, ripeto). Ci si vede un po’ tutto, nella discussione, incluse, come è umano e fatale, le proprie ferite pregresse: ma non l’apertura a un dialogo. Ed è grave, visto che si sta ragionando su ipotesi e non su un articolo di legge.
Due: leggo un attacco a un poeta. Non vi dico dove né chi è il poeta proprio perché non voglio contribuire a nulla. Ci sta: la produzione poetica e letteraria è criticabile e stroncabile. In questo caso, però, l’attacco è personalissimo e non solo sul testo, fino a scomodare la psicanalisi.
E a proposito. Tre. Una cantante si fa sfuggire su un social che la figlia di nove anni dorme nel lettone con lei. Catastrofe. In pratica, una dissezione psicanalitica pubblica che rasenta la gogna, e che chiama gogna (quando si parla di materno, ahimé, le donne sono spesso velocissime a correre all’attacco della vittima di turno).
Niente di nuovo, direte. Queste cose accadono quotidianamente e da anni, funziona così e ormai lo sappiamo tutti.
E’ vero, ma è vero anche che stiamo attraversando un momento in cui le nostre energie andrebbero usate nel tentativo di risanare le fratture, e non di aumentarle: aumentarle, per giunta, sbranandoci in argomentazioni che non toccano il punto, che sono rivoli e ruscelletti destinati, almeno in alcuni casi, a svanire. Siamo stati incitati a odiarci, che è qualcosa che sappiamo fare bene dalla notte dei tempi, in verità: ma questa volta lo abbiamo fatto e lo facciamo quasi senza accorgercene, incrementando la popolarità e il conto in banca di questa o quella piattaforma. Oppure aderendo a una narrazione che ci vuole gli uni contro gli altri nell’affrontare questi ultimi due anni.
Perché le tabelline? Le uso allo stesso modo in cui si userebbe un mantra, suppongo: per cercare distanza, per scrollarmi di dosso la coazione a ripetere che ti porterebbe a partecipare a questa o quella polemica. Per conservarmi lucida, il più possibile.
Perché non andarsene, allora? Ecco. In uno dei racconti di Ursula K. Le Guin che amo e cito di più, Quelli che si allontanano da Omelas, ci viene proposto un dilemma etico. A mantenere felicità e prosperità per la città di Omelas è la sofferenza inimmaginabile di un bambino: qualsiasi gentilezza che possa alleviare il suo tormento (buio, fame, dolore), trasferirà quel dolore alla città stessa. E’ Dostoevskij, certo, e non solo.
Ci dice Le Guin che la maggior parte dei cittadini, nonostante l’orrore, accetta la condizione. Alcuni, però, se ne vanno: “Il luogo verso cui si dirigono è un luogo ancora meno immaginabile per la maggior parte di noi. Non riesco a descriverlo affatto. È possibile che non esista. Ma sembra che sappiano dove stanno andando, quelli che si allontanano da Omelas.”
Per come la vedo io, mi piacerebbe restare. E provare a cambiare Omelas. Sì, sono inguaribile. Nove per nove.
Il problema, per come la vedo io, è che non c’è più neanche un altrove dove andare. A meno che non ci riferisca all’anacoretismo. Omelas è diventato il mondo, con la non piccola differenza che nello scantinato urla e geme il povero bambino innocente e fuori si sta male comunque.
Ecco, adesso sono curiosissimo: chi sarà il poeta (ci penso da questo pomeriggio)? E soprattutto, gli analisti sono veri psicologi?