HO USATO LO SCHWA PER COLPA DI UN HORROR

Proviamo a fare un po’ di chiarezza da parte di una non linguista e non direttamente coinvolta nella questione schwa: scrivo dunque da osservatrice, da persona che usa le parole per professione e che trova stupefacente la situazione che si è venuta a creare nell’ultima settimana.
Ho usato solo una volta lo schwa in Danza macabra, e spiego perché, prendendola da lontano.

Nel 2004, lo scrittore svedese John Ajvide Lindqvist scrive un romanzo di vampiri. Bellissimo. Si chiama Lasciami entrare e affronta con oscura delicatezza il tema dei ritornanti. Un anno dopo sarebbe uscito Twilight di Stephenie Meyer e i vampiri sarebbero diventati il principe azzurro, come ognun sa. Al centro del romanzo ci sono Eli, dodicenne, e il suo coetaneo Oskar. Oskar è umano, Eli no. Ora, Eli ha l’aspetto di una bambina, ma non ha un sesso definito. Quando ne scrissi, ai tempi, non sapevo come darne una definizione che non fosse maschile o femminile. Al momento di scrivere di Lindqvist in Danza macabra ho usato lo schwa: e trovo corretto, nel caso di Eli, usare il termine vampirə.

Peraltro, leggete il romanzo, se potete: perché quel che Eli dice a Oskar, “Tu sei come me”, apre a parecchie riflessioni. Ed è vero: se potesse, il bambino Oskar ucciderebbe i bulli che lo picchiano e lo insultano. Ma vive nel mondo degli uomini e deve sottostare alle sue regole: per questo, si limita ad accoltellare un albero fingendo che si tratti del suo persecutore.  Eli non ha costrizioni e può uccidere: ma soltanto per continuare a vivere, e non disconosce la propria natura predatoria.
Eli diffonde il male, anche se suo malgrado. Contagia il suo ex-protettore umano, un pedofilo ossessionato dal desiderio che Eli suscita in lui, al punto di non trovare requie neanche dopo la non-morte. Contagia Virginia, una donna alcolista, che respinge il suo nuovo status e cerca volontariamente la fine esponendosi alla luce (il sole, qui, consuma la pelle dei vampiri come acido). Non contagia Oskar: non fisicamente, almeno, anche se una delle pagine più belle del romanzo è dedicata al timore del bambino di essere diventato un vampiro (o di essere un omosessuale, quando scopre che Eli non è né femmina né maschio). L’ influenza di Eli è semmai mentale: perché  Oskar troverà il coraggio di reagire, anche con la violenza, ai suoi aguzzini. C’ è una parola serba, ocajinik, che in tempi lontani indicava il morto che torna e che ora significa semplicemente «infelice». Il portatore di contagio fa paura ed ha paura, perché è solo. La solitudine unisce Eli e Oskar. Negli indifferenti anni Ottanta in cui è ambientata la storia di Lindqvist, esseri umani picchiano, sniffano, bevono, insidiano bambini. Eppure, è Eli la loro paura. Perché non appartiene all’umanità, non ha un sesso, non ha dimora. Poco conta che sia capace di provare tenerezza davanti a un giocattolo e di lasciare messaggi d’amore a Oskar usando i dialoghi di Romeo e Giulietta. Infatti, non sarà Eli a integrarsi: sarà Oskar a trasgredire ogni possibile norma pur di restarle vicino, allontanandosi per sempre dalla comunità.

Lascio Lindqvist e torno al punto. Per quanto mi riguarda, l’uso dello schwa per Eli mi ha salvata dall’incertezza: intendo dire che l’ho trovato una risorsa, e non un’imposizione. Era possibile usarlo, l’ho usato, fine della storia.

Al termine di questa settimana dove si è detto e scritto di tutto, mi piacerebbe che si parlasse anche di questo. Perché sarebbe auspicabile, proprio in ambito intellettuale, sedersi intorno a un tavolo e discutere. Con argomentazioni anche opposte. Anche duramente opposte. E’ sempre avvenuto. Sul finire degli anni Ottanta, Beniamino Placido scriveva di voler rinunciare alle recensioni negative:

“non mi regge il cuore di criticare neppure in un dettaglio un saggio o un romanzo. Il giorno dopo l’ autore mi toglie il saluto e comincia a chiedere in giro: perché Placido l’ ha fatto? Perché ce l’ ha con me? E Manganelli? Manganelli correva allora in soccorso dei recensiti feriti, esprimendosi con una risata: Ah! ah!”

Ma, e chiudo, se si sceglie, per intraprendere la discussione, la forma della petizione, è evidente che si sbarrano portoni e si alzano ponti levatoi. Certo, si finisce sui giornali (ahinoi, se solo si smettesse di ragionare in termini di visibilità, quanto staremmo meglio). Ma non si fa un solo passo avanti: invece sarebbe importantissimo parlarsi, controargomentare, anche rimanere sulle proprie posizioni, alla fine. Ma non così. Davvero, è stata una brutta, brutta settimana dal punto di vista della dialettica, dell’intelligenza, del confronto.

Un pensiero su “HO USATO LO SCHWA PER COLPA DI UN HORROR

  1. Ogni linguaggio umano è un essere vivente con infiniti tentacoli che si ramificano, agitano e mutano in continuazione. E’ quindi quasi impossibile scattarne una foto che rappresenti in maniera statica questo animale. Ovviamente chi per mestiere deve necessariamente estrapolare di tanto in tanto una descrizione più o meno universalmente riconosciuta delle strutture di una lingua ha la mia stima, perché senza queste regolamentazioni illusorie difficilmente riusciremmo a comprenderci l’un l’altro. Eppure la faccenda dello schwa a me ricorda le vicende della parola “petaloso”. Quella volta è bastato un bambino che chiedesse lo sdoganamento di un termine inventato di sana pianta. Gli studiosi risposero giustamente picche. Eppure oggi quel termine ha quasi 150.000 risultati sui motori di ricerca ed è stato inserito nei più prestigiosi dizionari italiani. Per quanto riguarda lo schwa quindi mi pare inutile fare barricate per proteggere le vecchie sante regole, perché stavolta non c’è un bambino da solo bensì un esercito di persone che sentono una necessità linguistica “nuova” (che nuova non è dopotutto) e più che legittima.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto