ROBA DA QUOTE ROSA? DAVVERO?

Cosa posso dire di più sull’ultimo femminicidio, quello di Cesena? Cosa posso dire più di quanto, per esempio, ha scritto  Femminismo a Sud?  E cosa dire sulla donna assassinata nel ferrarese, di cui quasi nessuno ha scritto? Quel che posso dire è che la settimana prossima ci sarà un’altra e credo operativa riunione del gruppo che ha lavorato sulla violenza, e spero che ci siano notizie e fatti da fornire a tutte a tutti.
Intanto.
Mi ha colpito una conversazione via mail. Riguardava la questione della visibilità delle scrittrici e critiche letterarie. Mi colpisce come, in alcune e alcuni, la questione medesima venga percepita come un puntiglio da quota rosa. Allora, prima di tornare con una serie di interviste e dati sull’argomento, posto un articolo. E’ di Meg Wolitzer per il New York Times. Lo ha tradotto Matteo Colombo per D. Eccolo.

Se La trama del matrimonio di Jeffrey Eugenides fosse stato scritto da una donna, ma avesse avuto lo stesso titolo e la stessa copertina, avrebbe ricevuto la stessa attenzione da parte del mondo letterario serio? Oppure questo romanzo (che personalmente ho amato) sarebbe stato relegato alla «narrativa femminile», quell’affollato scaffale inferiore sul quale spesso finiscono i libri incentrati sui rapporti affettivi e sulla vita interiore delle donne? Vero è che La trama del matrimonio, il primo romanzo di Eugenides dopo il premio Pulitzer per Middlesex, era destinato a suscitare enorme attenzione indipendentemente dalla materia trattata, ma la presenza di una protagonista femminile, la grazia della narrazione, il tono a tratti nostalgico e la rilevanza data alle relazioni affettive non fanno che sottolineare come molti libri di qualità scritti da donne e che parlano di donne non riescano mai a sfuggire alla “narrativa femminile” e a fare il salto sullo scaffale più alto, dove certi libri, perlopiù scritti da uomini (e sì, anche da qualche donna, ma di questo parleremo più avanti) godono di grande visibilità e ammirazione.
L’argomento è spinoso. Tirare in ballo la questione femminile – nel senso di narrativa femminile – è un po’ come parlare del debito di stato durante una cena. C’è chi si infastidisce, ritenendolo un argomento di cui si è parlato troppo e in modo inesatto, mentre alcuni lo considerano cruciale.
Poco tempo fa, a un evento sociale, scoprendo che ero una scrittrice un ospite mi ha chiesto: «Potrei aver letto qualcosa di suo?» Gli ho declinato le mie generalità: il nome non gli diceva nulla, il che va benissimo, non sono così famosa. Poi, dietro sua richiesta, gli ho descritto i miei romanzi. «Mah, contemporanei, direi. Alcuni parlano di matrimonio. Di famiglia. Sesso. Desiderio. Genitori e figli.» Trascorsi alcuni istanti d’imbarazzo, il signore ha chiamato sua moglie, annunciandomi che era con lei, «che quel genere di libri li legge», che avrei dovuto parlare. Se ripenso a quell’incontro, lo vedo come un’occasione persa. Alla domanda «Potrei aver letto qualcosa di suo?», molte scrittrici sarebbero tentate di rispondere: «In un mondo più giusto».
La verità è che le donne che scrivono letteratura devono spesso vedersela con un mondo ingiusto, e questo nonostante nelle principali città americane i guadagni delle giovani single stiano superando quelli dei maschi, e il numero complessivo delle laureate negli Usa sia superiore a quello dei laureati. Come si evince dal secondo resoconto statistico annuale della VIDA, un’organizzazione letteraria femminile, nelle pubblicazioni più prestigiose le donne sono incredibilmente bistrattate, sia come scrittrici che come critiche. Di tutti gli autori recensiti dalle testate monitorate per lo studio, quasi tre quarti erano uomini. Non stupisce che, quando si parla degli autori attualmente più rilevanti, quelli che generano fermento e dibattiti e vengono letti sia dagli uomini che dalle donne, quasi sempre si parli di maschi.
Succede in continuazione, e la colpa non è soltanto degli sconosciuti alle feste, o dei tanti librai che non si fanno problemi a definire romanzi interessanti e complessi scritti da donne «narrativa femminile», quasi che gli uomini dovessero starne alla larga. Perfino gli editori possono contribuire a questo processo di segregazione e di vaga, benché involontaria, umiliazione. Pensiamo alle copertine di certi romanzi scritti da donne. Panni stesi ad asciugare. Una bambina in un campo di fiori. Un paio di scarpe su una spiaggia. Un dondolo vuoto nella veranda di una vecchia casa gialla. Paragoniamolo all’uso del lettering sulla copertina del romanzo di Chad Harbach L’arte di vivere in difesa, o alle scritte giganti su quella delle Correzioni di Franzen. Copertine del genere dicono al lettore: «Questo libro è un evento».
Ho studiato semiotica alla Brown University all’apice del decostruzionismo, nello stesso periodo in cui è ambientato il romanzo di Eugenides (insieme, frequentammo lo stesso laboratorio di scrittura), ma non ho certo bisogno di ricordare cosa siano i significanti per capire che, proprio come i blocchi di maiuscole giganti, anche le illustrazioni di copertina femminili sono un codice. Immagini che evocano una sorta di nostalgia della povertà alla Walker Evans o offrono ovattati scorci di vita domestica, puntano alle donne con la stessa determinazione di uno spot degli integratori per l’osteoporosi. Tanto varrebbe appiccicare su queste copertine l’adesivo di una strega, e la scritta: «Alla larga, uomini! Tornate a leggere Cormac McCarthy!»
A volte mi domando se anche la lunghezza di un libro non segnali al lettore, più o meno intenzionalmente, la supposta importanza di un romanzo. Scrittori che hanno acquisito un alto profilo letterario come David Foster Wallace, Haruki Murakami e William T. Vollmann hanno tutti pubblicato libri lunghissimi. Con alcune eccezioni degne di nota, dal Taccuino d’oro di Doris Lessing non si contano molti “fermaporte” famosi pubblicati da donne. È il mercato che, sottilmente e paradossalmente, anche nell’era della soglia di attenzione breve, suggerisce all’orecchio di alcuni maschi «Ma sì, bello, scrivi pure quanto vuoi, mettiti lì e butta giù ogni singolo pensiero che hai sull’America», oppure sono le donne che istintivamente si impongono (o si lasciano imporre) vincoli di spazio più severi, creando romanzi compatti e armoniosi che lettori e gruppi di lettura possano trovare accessibili? O non è che semplicemente non hanno l’ossessione per le dimensioni, né in un senso, né nell’altro? Tutto questo non per dire che i megalibri siano per forza superiori. Nella loro prolissità, anzi, è forse più facile che siano inferiori. Certo, però, fanno più rumore.
La mia impressione è che, come la maggior parte degli uomini, la maggior parte delle donne i libri li scriva lunghi quanto vuole, anche se spesso non ottengono lo stesso riconoscimento. Negli ultimi anni, autori come Ian McEwan e Julian Barnes hanno scritto libri molto brevi, molto apprezzati dalla critica e molto letti. Ma se di questi tempi una donna scrive qualcosa di breve, specie se parla di una donna, il suo lavoro corre il rischio di essere considerato minore. («Asciutto» è il complimento più frequente.) Se, per contro, una donna scrive un mattone infarcito di libere associazioni mentali sulla vita e l’amore e la gravidanza e la guerra, infilandoci battute e ricette e magari pure un romanzo nel romanzo, insomma, tutto ciò che può contenere una membrana infinitamente elastica, rischia di essere tacciata di indisciplina e autoindulgenza.
Julia Glass, che nel 2002 ha vinto il National Book Award con il romanzo Tre volte giugno, ha affermato: «Molti lettori mi chiedono come mai io scriva così spesso adottando un punto di vista maschile. Qualche ipotesi ce l’ho, ma la verità è che non lo so. Non scrivo i miei libri pensando di approfittare del pubblico maschile, ma è vero che il punto di vista può migliorare l’accoglienza che ricevono. Credo che gli uomini accettino i miei libri più facilmente di quanto non farebbero se il punto di vista fosse sempre femminile.»
Anche personaggi hanno enorme importanza, e a un primo sguardo i romanzi che raccontano di genitori e figli piccoli sembrano essere considerati a priori territorio sentimentale delle donne. Tranne, ovviamente, quando i genitori e i figli sono maschi, come nel caso di La strada di McCarthy e Molto forte, incredibilmente vicino di Safran Foer, entrambi incentrati su una coppia padre-figlio, ed entrambi accolti con pari entusiasmo da uomini e donne.
Alcune tra le romanziere più acclamate hanno certamente scritto di donne senza complessi e con autorevolezza. Ma perché tale autorevolezza attecchisca, è necessario che l’ambiente sia ricettivo, che la riconosca e la celebri. Non è un caso che Toni Morrison, Joyce Carol Oates, Margaret Atwood, Doris Lessing, Marilynne Robinson siano emerse in un momento storico insolito, quando la presenza del movimento femminile si percepiva ovunque. Quel periodo, dagli anni 70 ai primi anni 80, sembrò creare per le autrici di narrativa una realtà nuova e definitiva. Se prima d’allora capitava di tanto in tanto che una donna venisse accolta nel cosiddetto club dei maschi, in seguito le donne di lettere cominciarono a fare massa critica, diventando più che semplici anomalie. Ma benché questa ondata abbia aiutato quelle venute dopo, col passare del tempo, per le donne, raggiungere certi traguardi è diventato sempre più difficile. Come dice Katha Politt, poetessa e critica letteraria: «Sono convinta che ci sarà sempre posto per una Toni Morrison o una Mary McCarthy, ma solo una alla volta. Per ogni donna, c’è spazio per tre uomini.»
E qui di solito cominciano a piovere le proteste e i controesempi, una manciata dei quali non manca mai: Jhumpa Lahiri e Zadie Smith sono quelli correnti. Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, che ha vinto sia il National Book Critics Circle Award nel 2010 che il Pulitzer nel 2011. Nel 2009, Elizabeth Strout ha vinto il Pulitzer con il romanzo di racconti Olive Kitteridge, molto amato dai gruppi di lettura, e che varie donne pare abbiano regalato ai loro uomini, i quali in alcuni casi, stupendosi loro stessi, lo hanno persino apprezzato. Più raro è che un romanzo scritto da una donna si trasformi in un vero evento, come di recente negli Usa è successo all’Amante della tigre di Tea Obreht. Eccezioni come queste potrebbero far pensare che il mondo si avvii verso una specie di idillio letterario, in cui uomini e donne siedono insieme all’ombra degli alberi, mangiando fichi e commentando brani di Kiran Desai o Jeanette Winterson. Ma nel momento in cui le donne si trovano a dover di nuovo lottare per l’accesso alla contraccezione, le statistiche dell’organizzazione letteraria femminile VIDA mostrano che anche le scrittrici devono di nuovo battersi perché il loro lavoro venga preso sul serio. La sezione letteraria dell’American Academy of Arts and Letters annovera 33 donne tra i suoi 117 membri. Negli ultimi tre anni più dimetà dei premi del National Book Critics Circle è andata a donne, e due donne, Jaimy Gordon e Jesmyn Ward, hanno vinto gli ultimi due National Book Award di narrativa. Finora, però, nessuna delle due è diventata un caso culturale.
Chi legge chi? E come? Erano gli interrogativi sollevati da Francine Prose in un affilato pezzo apparso nel ’98 su Harper’s Magazine: in una «degustazione alla cieca», dimostrava che, rimuovendo l’etichetta di genere, identificare il sesso di un autore non era così facile. Concludeva: «Ancora oggi, la narrativa scritta dalle donne viene letta diversamente, con il solito armamentario di pregiudizi e preconcetti». «Vorrei poter dire che da allora le cose sono drasticamente cambiate», mi ha confidato di recente l’autrice, «Ma non sarebbe vero.» Aggiunge Lorrie Moore: «Una volta una studiosa mi ha detto: “Io quello che pensano le donne grosso modo lo so già. M’interessa di più leggere libri scritti da uomini”». Il problema di un’affermazione del genere risulta evidente ribaltandola. Se un uomo dicesse «Io so già cosa pensano gli uomini. Mi interessa di più leggere libri scritti da donne» andrebbe incontro a qualche incomprensione.
Certo, le donne che scrivono letteratura possono cavarsela benissimo anche senza i lettori maschi. E alcuni autori maschi hanno confessato di invidiare alle donne il predominio femminile nella comunità di chi legge (e compra) romanzi. Si sente ripetere che le donne sono le principali consumatrici di narrativa, e alcune di loro ritengono che gli uomini, quanto a letture, siano casi così disperati che forse bisognerebbe smetterla di considerarli consumatori di narrativa di qualità. Di fronte a un’ipotesi del genere, più di un uomo si sente comprensibilmente offeso. Ma lo scaffale più alto della narrativa di qualità – dove l’aria è pura, la vista magnifica, e un libro entra nell’immaginario del pubblico e nel dibattito culturale – continua a sembrare curiosamente, sproporzionatamente maschio. L’avvento di una nuova generazione di lettori riuscirà a modificare le abitudini letterarie di un’intera cultura? Magari in un mondo più giusto.
NB. Mi piacerebbe che sui quotidiani italiani, ma anche in rete, si potesse usare la stessa franchezza nel porre il problema senza essere accusate di fanatismo. E, per inciso, il Gr1 di due giorni ha parlato dello “scrittore” Toni Morrison. Tanto per.

55 pensieri su “ROBA DA QUOTE ROSA? DAVVERO?

  1. @Antonellaf: che piacevole sorpresa scoprire che quanto stavo per scrivere io sull’opera di Anna Banti l’avevi già scritto tu, meglio e in modo più circostanziato di quanto avrei potuto fare io. Mi sento di aggiungere che Martone si è ben guardato dal citare l’autrice della storia che dà il titolo al suo film, e se uno in libreria si prende la briga di sfogliare la sceneggiatura non ne trova traccia neppure lì. Il film non è una trasposizione dell’opera, ma il riconoscimento sarebbe stato d’obbligo. Sorvoliamo. E sorvoliamo pure sul fatto che ad essere ricordato, quale critico letterario insigne, è solo il marito della Banti, Roberto Longhi, nonostante la stessa Anna Banti (vero nome Lucia Lo Presti) sia stata un personaggio molto in vista nel panorama culturale dell’Italia di metà novecento, nonché direttrice di una nota rivista letteraria. Nella discussione sull’ostracismo vero o presunto nei confronti della letteratura scritta da donne non entro, non ne so abbastanza. Però questo bell’esempio tratto dalla storia letteraria di casa nostra sembra indicare che qualche cosa che non va c’è.

  2. Insieme a tante celebrazioni del film di Martone, nel mezzo di tante interviste e discussioni, non credo che avrebbe stonato qualche tentativo di istituire una connessione con il romanzo, magari domandare il perché del titolo, quali spunti ha offerto la narrazione della scrittrice. Del resto, sarà un caso che proprio nel 2010, in concomitanza con l’uscita del film, mondadori ha ristampato il romanzo? Certo, senza troppa profusione di risorse, dal momento che non si racconta di corna e guepière, ma delle contraddizioni e della complessità del processo di unificazione dell’Italia, il che poco sollazza un pubblico che vuole sentirsi colto e poter dire la sua cavandosela a buon mercato.
    Stessa sorte è toccata a Joyce Lussu, ricordata quasi sempre come moglie di Emilio Lussu e traduttrice di Hikmet, ma non per ciò che ha fatto e scritto di suo. La minuscola gwyplaine edizione sta ristampando parecchie opere, a maggio è uscito “un’eretica del nostro tempo. Interventi di Joyce Lussu ai meeting anticlericali di Fano”. Qualcuno si è preso la briga di recensire e diffondere? L’unico spazio che fino ad adesso ho visto concedere a Chiara Cretella, curatrice di quasi tutte le nuove edizioni della Nostra, è stato su Carmilla. Non dico che bisogna per forza apprezzare, ma che almeno si discuta anche di queste autrici e degli argomenti che hanno trattato, argomenti che non sono spaziano solo da corna e guepière a pappe e pannolini, come pare si vorrebbe dar da intendere.
    Se interessa, qualcosa su Joyce si trova anche qui
    http://personalepolitico.blogspot.it/2012/01/padre-padrone-padreterno-di-joyce-lussu.html

  3. Ah, dimenticavo, una chicca. Questo è quello che Anna Banti fa dire all’io narrante di Noi credevamo, l’indomabile repubblicano Domenico Lopresti, a proposito della scrittura, in special modo quella femminile:
    “non ho mai ammirato sinceramente gli uomini e ancora meno le donne di penna. (…) Per chi scrivono costoro? Come possono giocare la loro vita scrivendo storie inventate?Le donne le leggono avidamente: ma come possono gli autori, contentarsene? Va bene, anche le donne sono un pubblico. E tuttavia scrivere per un pubblico siffatto non mi piacerebbe.(…) Nelle donne apprezziamo la castità, la fedeltà, i sentimenti delicati, il buonsenso, come se in queste virtù non intervenisse il cervello: non c’è da stupirsi se piegandosi alla nostra legge esse ne fanno uno strumento di fuga dalla realtà che sono costrette a vivere.”

  4. Sono allora uno dei pochi “maschi” che legge, compra, prende in prestito e apprezza parecchi libri scritti da donne? Forse è anche merito di mia sorella che me ne ha passati parecchi.

  5. sto leggendo “la donna di Glasgow” di denise mina(una bomba.Almeno per quanto concerne la sensibilità con cui affronta le questioni dei disagi psichici e della violenza,in particolare contro le donne.E sempre tenuto conto della media generale),esponente di spicco del movimento letterario altrimenti noto come tartan noir.Finalmente qualcuna che usa l’ironia cum grano salis(e Spiritus frumenti)
    http://www.walrusmusicblog.com/mp3/77mp3_01_from_here_to_etern.mp3

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