ROMA, IL DECORO E UN'ALTRA PAZIENZA

I miei rapporti con Roma, com’è noto, sono complicati (e forse proprio per questo mi hanno chiesto di scriverci su, ma di questo si parlerà più avanti). Ora, chi son io per poter raccontare una città che è stata narrata dai grandissimi e che viene oggi narrata con impressionante frequenza? Una voce piccola, certo. Ma anche impigliata in non poche contraddizioni, perché la odio e la amo. Quando mi si rimprovera per il primo dei due sentimenti (ma come, invece di baciare i sampietrini per essere nata a Roma, la disprezzi?), rispondo che non è sempre  così. Per esempio, un anno fa, a fine lockdown, sono tornata al centro di Roma e sono stata felice, fra gatti neri all’archetto degli Acetari,  il gelato al riso e cannella vicino a via della Lungara, amato  dai tempi in cui ero reclusa al Fatebenefratelli, il cielo, i vicoli. Era una città bellissima, pazzamente a misura di essere umano, senza comitive e con tanti romani allegri nell’ultimo giorno di primavera. Conosco i costi dell’assenza del turismo di massa, eppure, per un pomeriggio, ho ritrovato la città della mia giovinezza, ed egoisticamente l’ho amata.
Però il problema rimane. Sembra che Roma, e altre città, non abbiano imparato niente dagli ultimi mesi: così appare prontissima a offrire ai pullman che scaricheranno migliaia di turisti nelle sue strade il disgustoso franchising alimentare che prevede, a seconda del ciclo vitale dei marchi, patatine olandesi immerse in una maionese di sospetto biancore, pizze congelate, gelati insapori, spritz carissimi accompagnati da olive pallide. Di più. Come si nota giustamente in questo articolo, anche Roma soggiace alla dittatura del presunto decoro. E decoro non significa evitare la cartaccia e la distruzione dei cassonetti: quella è faccenda di banale civiltà quotidiana, così come aver cura degli spazi verdi, così come evitare che il centro (e Roma non ne ha uno solo, ne ha tantissimi) sia identico a qualunque altra città italiana (gentrification: leggete e imparate a memoria quanto scrive Giovanni Semi). Decoro significa allontanare gli irregolari, i poveri, i senzatetto dalla vista. Come avviene in molte altre città. Vuol dire trasformare una città in un fondale, in cartolina, in un qualcosa che si può postare sui social senza disturbo. Vuol dire ammazzarla, questa città, che pure è sopravvissuta e sopravvive alle catastrofi, ai gabbiani, ai topi, al cemento e a tutto quello che la insidia. Però tornare ad amarla è un esercizio di volontà.
Ma più c’è da tornare a un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
Così Fortini, su tutt’altra questione. Ma vale anche qui.

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