QUARANTAQUATTRO ANNI DOPO

Così, sono passati 44 anni da quel pomeriggio. Giorgiana Masi, se fosse sfuggita alla pallottola che le trapassò l’addome, ne avrebbe 63, e in questo maggio incerto ricorderebbe gli anni di ragazza, quando essere ragazze significava anche scegliere una posizione terza, quella di contrastare le decisioni del ministro dell’Interno Cossiga sulla gestione dell’ordine pubblico ma di contrastare anche la lotta armata. C’è quella via mediana, che non era una via vile, ma una via per alcuni nonviolenta, per altri semplicemente di disaccordo con la dicotomia (c’era anche allora, ovviamente), che non viene mai raccontata, o quasi mai. Ci penso e ci ripenso da settimane, ogni volta che gli anni Settanta tornano a galla suscitando altre dicotomie, ferocissime, su cui non si può dir nulla senza finire inseguiti da centinaia di account twitter, o di sms, che sbavano “assassini”, anche nei confronti di chi non ha mai alzato un dito su nessuno, e magari (come avveniva nel partito radicale) i calci e i pugni li prendeva da destra, sinistra e polizia.
C’era, quella via, e non viene narrata. Ogni anno il visto dolce e bello di Giorgiana Masi, quinto anno di liceo scientifico, un ragazzo, uno sguardo nascente sul mondo con la convinzione che sarebbe stato migliore, spunta in rete, a volte sui giornali, quando proprio si deve (ma sempre meno, perché su quegli anni, appunto, la narrazione comune riguarda il buio e dell’orrore). Qualcuno rievoca le dichiarazioni rese da Cossiga stesso nel 2008 al Quotidiano Nazionale, a quanto mi risulta mai smentite (“Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interni (…). Gli universitari? Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Le forze dell’ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. Non quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì”). Ma scivolano via, parole e immagini, nonostante qualche saggio, qualche inchiesta, qualche canzone.
Mi colpisce che siano i figli e le figlie a raccontare quegli anni, a scrivere romanzi cercando di interpellare quello che probabilmente è un enigma. Mi colpisce che quanto si scrive siano saggi o autobiografie. Perché forse bisognerebbe infine narrarli davvero, i Settanta, provare a restituirne il clima, che non quello che vien detto. Provarci, anche per fallire: se nessuna verità è possibile (forse), raccontare (forse) servirà.

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