Nonostante tutto, c’è ancora chi si ostina ad applicare la divisione in generi letterari, e a giudicare i medesimi – in modo acritico e antistorico – come faccenda minore, specie per quanto riguarda il fantastico. Siano ringraziati gli dei, e Michael Cunningham, che non è esattamente l’ultimo arrivato in ambito letterario, per questa intervista a Ursula K.Le Guin, nella traduzione di Elisabetta Horvat.
Il lavoro di uno scrittore si colloca sempre – in buona misura per definizione – nell’ambito di un’epoca storica; anche se solo in seguito si darà un nome a quel dato periodo. Non credo, ad esempio, che i vittoriani si considerassero tali. Mentre per i modernisti è vero il contrario… A volte mi chiedo in quale epoca stiamo vivendo oggi, nel 2014. Personalmente non trovo molto soddisfacente l’aggettivo “postmoderno”. D’altra parte, non saprei proporne uno diverso. Ma confido che a questo provvederà la storia. A mio parere l’aspetto più rilevante di questa nostra epoca è ciò che vorrei chiamare “allargamento”.
Nel senso di un’idea collettiva assai più ampia su chi abbia i titoli per raccontare storie, quali storie valga la pena di raccontare e quali narratori debbano essere presi sul serio. E questo “allargamento”, lo vedo non solo in termini razziali e di genere, ma anche in rapporto a quelli che per lungo tempo sono stati etichettati come “generi letterari”. Oggi in libreria le opere più belle e innovative sono catalogate come “fantascienza” e molti dei libri esposti in quel reparto sono più affascinanti di tanti che rientrano nel “mainstream” della narrativa. Vorrei chiederti di dirmi qualcosa su questo tema, sull’abbattimento delle barriere tra i generi letterari. Da tempo cerco di convincere i lettori ad accostarsi alla narrativa “di genere”, ma ho sempre trovato livelli di resistenza sorprendenti. Mi ha stupito la frequenza con cui la frase «io non leggo fantascienza» risuona in bocca a persone colte.
Ursula K. Le Guin :
Il problema tuttora irrisolto sta proprio nel mantenimento di una divisione arbitraria tra “letteratura” e “generi”: non si vuole ammettere che ogni creazione letteraria appartiene a un genere, o magari a più generi. Di fatto, esistono molte differenze tra fantascienza e realismo narrativo, come tra horror e fantasy, mystery e romanzo rosa: differenze sia a livello di scrittura che di lettura e di critica. Vive les différences ! I vari “generi” sono stati ignorati in blocco dai maggiorenti della critica e dell’insegnamento, che hanno identificato il concetto di letteratura esclusivamente con la narrativa di tipo realistico. Ovviamente il realismo è un genere formidabile, dalle meravigliose potenzialità, che ha dominato la narrativa a partire dal 1800, se non da prima. Ma “dominante” non è sinonimo di “superiore”. Il fantasy è immenso, almeno quanto il realismo, e molto più antico. È essenzialmente coevo della stessa letteratura. Eppure, per cinquanta o sessant’anni, è stato relegato nella nursery. Ricordo i tempi in cui Edmund Wilson, re del bigottismo realista, strillava a gran voce «Oh, quei terribili orchi!» (stroncando J. R. R. Tolkien n.d.t.), tanto era convinto dell’acume e della pertinenza dei suoi argomenti critici. Ho ancora le cicatrici dei tempi del bigottismo anti-generi. I miei libri si muovono liberamente tra realismo, fantascienza, fantasy di vari tipi, storia romanzata, fiction per giovani adulti, realismo magico, parabole e altri “sotto-generi”, tanto che in larga parte non sono classificabili in alcun modo; ma sono stati sbattuti in blocco nella pattumiera fantascientifica, o etichettati come sottoletteratura infantile. Le etichette restano appiccicate. Anche oggi i pregiudizi sui generi sono molto diffusi. Mi capita di incontrare certe matrone che mi parlano molto gentilmente di quanto i loro figli apprezzino i miei libri, ma loro naturalmente non li hanno letti. No, quando mai! Leggono letteratura realistica, tipo The Help o Cinquanta sfumature di grigio . Ma i muri contro i quali mi sono battuta per tanto tempo ora sono crollati. Sono felice di vedere autori come Michael Chabon o Kij Johnson, David Mitchell o Jo Walton – e soprattutto il compianto José Saramago! – che volteggiano ovunque nel paesaggio letterario, usando liberamente frammenti di generi per costruire i loro bellissimi racconti, trovando forme che sfuggono a ogni classificazione per le loro storie irresistibili. E noto con piacere che la reputazione letteraria di grandi non realisti come Jorge Luís Borges o Italo Calvino è stabile, o anzi in ascesa – come del resto quella del “creatore degli Orribili Orchi”, o di qualche oscuro autore di storie di astronavi come Philip K. Dick, mio ex compagno di classe alla Berkeley High School. Vive la Révolution!
Stendhal, da quell’austero realista che era, si vantava di aver creato coi suoi romanzi «uno specchio al lato della strada» per riflettere la realtà. Che però non può fare ciò che invece fa la fantascienza: mostrarti il mondo, o te stesso, da un punto di vista mai conosciuto prima. Perché la fantascienza, quando è seria, descrive il mondo reale e gli esseri umani, né più né meno della letteratura realistica (anzi, a volte anche molto più delle storie trite e ritrite di qualche famiglia scombinata del ceto medio-alto della East Cost).
Negli anni Sessanta era importante per molti – soprattutto per le donne e gli omosessuali – cercare di comprendere meglio in che cosa consistesse il “genere”. Una risposta del tipo: «Lui Tarzan, io Jane» non sembrava più adeguata. Fu allora che trovai nello specchio della fantascienza un modo straordinario per vedere questi problemi da un’angolazione diversa. Per chiedermi, ad esempio, cosa accadrebbe se invece di essere come sono le cose funzionassero in modo diverso: come sarebbe se nessuno appartenesse a un genere sessuale fisso, come sul pianeta Gethen? O se i matrimoni non avvenissero tra due persone, un uomo e una donna che fanno una coppia, ma tra quattro persone per formare quattro coppie etero e omosessuali, come sul pianeta O? In questo senso, c’è molta antropologia nelle mie storie di fantascienza. Mio padre, che era un etnologo, ha appreso dagli indios della California che un tempo la gente abitava quella terra con modalità molto diverse dalle nostre. Io proietto esseri immaginari su pianeti immaginari per imparare in quali altri modi potremmo vivere noi. Se sento l’urgenza di ottenere quest’informazione, è perché stiamo vivendo sul nostro pianeta in maniera sempre più irragionevole e distruttiva.
MC :
In uno dei miei corsi universitari sulla narrativa, “Reading Fiction for Craft”, ho adottato il tuo racconto The Ones Who Walk Away From Omelas ( compreso nella raccolta I dodici punti cardinali , ndr) come testo base. Discutiamo diversi aspetti del libro e in particolare la tua inosservanza di quello che mi azzarderei a chiamare “il galateo dello scrittore”. Ti rivolgi direttamente al lettore per ricordargli che un racconto è un’invenzione, e che in genere lo scrittore cerca di trovare il modo di ottenere il massimo effetto su chi lo legge, anche se “si suppone” che quest’intenzione debba rimanere nascosta. Almeno esteriormente, “si suppone” che l’autore rimanga politicamente e filosoficamente neutrale, o che un pensiero politico o filosofico sovversivo venga dissimulato dietro i personaggi e gli eventi. Vorrei chiederti di parlarmi di questo racconto e, se dopo averlo scritto, hai avuto qualche dubbio per via del suo carattere non ortodosso.
UKLG :
Onestamente, dell’ortodossia mi preoccupo più o meno quanto la media delle lepri dei vostri boschi. Seguo solo le regole che mi consentono di arrivare dove voglio. E quando non esistono, me le creo da sola. Se ho temuto di essermi spinta troppo lontano dalle aspettative dei lettori e dei critici, è stato soltanto per due dei miei libri: La mano sinistra delle tenebre e Lavinia: in quest’ultimo caso i timori erano in parte giustificati, ma ora sembra che anche questo romanzo abbia trovato un suo pubblico. Invece non ricordo di essermi mai preoccupata per Omelas. Quando scrivo, mi diverto un mondo a sfidare tutte le convenzioni, danzando una piccola giga metanarrativa sulla tomba dello scrittoreche- si-nasconde. Ho mandato il libro alla mia agente che sarebbe capace di vendere Il Capitale a un deputato texano del Tea Party. Il “galateo dello scrittore” è un’espressione che mi piace molto. Mi fa pensare a quando misi piede per la prima volta, nel 1947, al Radcliff College (ora assorbito da Harvard). Con tono paterno, il preside del college informò noi ragazze che eravamo lì per imparare a vivere con grazia. Lo diceva a noi, una manciata di pazze intellettuali sgraziate, piene di passione, avide di tutto ciò che Harvard poteva darci: e avremmo dovuto star lì per imparare le buone maniere, comportarci da signore, apparecchiare la tavola con gusto, versare il tè? Ma per fortuna Harvard ci ha dato una formazione eccellente, preparando almeno alcune di noi a capire come e quando rovesciare il tavolo e la caraffa del tè. E per quali motivi.
E’ uno dei regali di questa giornata che due fra gli scrittori che amodi piu’ siano insieme da intervistata e intervistatore. Che dire? La fantascienza e’ stato il mio primo amore e Ursula Le Guin una cotta che dura da piu’ di 40 anni. Tutte le mie amiche si sono poi innamorate anche loro. Penso che si possano dire cose serie e rivoluzionarie in qualsiasi genere letterario. Ursula Le Guin mi ha insegnato molto. Ho pianto mi sono commossa ho ragionato ho capito ma anche Cunningham e’ splendido. Grazie a tutti e due di esistere. Per favore continuate a scrivere in un qualsiasi genere. Vi leggero’ sempre. Grazie grazie grazie.
Non ho letto nulla di Cunningham, e di Le Guin “solo” due romanzi. “La mano sinistra delle tenebre” e “I reietti dell’altro pianeta”. Due storie splendide, dichiaratamente di sy-fy, manifestamente fantascientifiche, eppure tra le cose più “politiche” che abbia mai letto.
Inizio a fare molta fatica a seguire queste polemiche sui generi, la letteratura alta, bassa, nanica e peso-mosca. So che esistono molti sedicenti critici e pure scrittori convinti di queste idiozie, ma la mia speranza è che tale ideologia non sopravviva a loro. Come certe teorie scientifiche che restano in mente nei conservatori e da cui non vogliono separarsi. Non ci sarà mai verso di convincerli che errano, si può solo aspettare che trapassino.
@ Ekerot
‘Molti sedicenti critici e pure scrittori convinti di queste idiozie’ – nomi? Almeno cinque viventi grazie, e con citazioni (vanno bene anche gli stranieri e le citazioni devono essere relative a saggi o almeno articoli, le battute non contano). Altrimenti uno fa ‘molta fatica a seguire queste polemiche sui generi’, così vaghe. Fra l’altro, l’unico ‘sedicente critico’ citato nell’intervista è Edmund Wilson, morto nel 1972.
E a proposito di aspettare che muoiano: quanto dovremo aspettare perché escano degli scrittori italiani di fantasy che ne valgano la pena o che, soprattutto, vendano come i giallisti italiani? Saremo ancora vivi? O la Troisi è il massimo che ci si possa aspettare?
(visto che mi sto arrabattando a scrivere un romanzo con forti elemeni fantastici non posso certo essere accusato di non apprezzare il genere; quel che non apprezzo per niente è la tendenza dei fans a muoversi come un partito politico nel senso più deteriore del termine)
E comunque Edmund Wilson può aver avuto torto su Tolkien ma era lo stesso fighissimo. Si leggeva con assoluto piacere e generalmente sapeva di cosa stava parlando. Prova a leggere ‘La ferita e l’arco’ o ‘Il castello di Axel’ e poi mi dirai.
Sasha, ma l’hai letta l’intervista?
Certo. Come avrei fatto a individuare il riferimento a Edmund Wilson altrimenti?
Con tutto il rispetto per la LeGuin e Cunningham, sono abbastanza stufo di sentir ripetere questo genere di polemiche, specie riguardo a un argomento che, per quel che ne so, ha esaurito la sua carica polemica più o meno negli anni Sessanta. Recentemente sul NewYorker c’era un articolo sui più attesi romanzi in uscita in autunno e la maggior parte di questi, da parte di autori rigorosamente mainstream o quasi (Gibson è la parziale eccezione), aveva elementi di fantascienza o fantasy. E hai presente che tipo di rivista sia il NewYorker e a quali lettori si rivolga, no?
In compenso, online, mi imbatto con frequenza in ‘giovani autori’ italiani
che dichiarano il loro sconfinato odio per quella che chiamano ‘letteratura realistica’ o ‘impegnata’ – ne vogliamo parlare? (posso fornire citazioni, ovviamente) Fra l’altro, secondo me, è proprio questo tipo di odio che fa sì che la fantascienza e la fantasy italiane siano così poco appetibili, sia artisticamente che commercialmente. Se parti dall’idea che c’è un qualche complotto contro di te scrittore di fantasy non sarai certo incoraggiato a cercare di scrivere meglio o impegnarti di più.
(se poi ci fosse un modo di comunicare personalmente…)
Giusto che si diceva di William Gibson. Quanti lettori di ‘genere’ hanno smesso di leggerlo quando ha più o meno smesso di scrivere fantascienza in senso stretto, cioè da ‘Pattern recognition’ in poi? Non è che hanno una qualche specie di pregiudizio contro la ‘letteratura realistica’?
Sasha, penso che senza affidarci alle parole dell’articolo di cui sopra, si possa semplicemente dare un’occhiata qui da noi.
Quanti libri di genere fantastico hanno vinto lo Strega? Il Campiello? Quanti film di genere hanno vinto ai David, o ai nastri?
Ricordi la “mitica” discussione su Lipperatura a partire dal topic “letterarietà”?
Io non leggo articoli di critica, se non quelli che posta Loredana qui. Ma mi capita ogni tanto di girellare e di ascoltare pareri, anche diretti a me sulla questione di genere.
Qualche anno fa, al premio Solinas, il mio docente di sceneggiatura – uno famoso, comunque – si rifiutò di valutare la mia storia perché era apparso un diavolo. Un ragazzo alla scuola Holden aveva portato un romanzo fantasy come testo su cui lavorare e ti assicuro che non se l’è passata bene.
Ora sembra che se uno scriva di fantasy debba essere necessariamente bravo. Non è così. Anzi è un genere difficilissimo. Ma i critici lo sospingono? Guarda al caso “Palazzolo”. Un’autrice straordinaria, con un talento letterario cristallino. Lei stessa racconta che quando passò all’horror qualcuno storse il naso.
Una decina d’anni fa, proposi un concept per una sit-com non molto differente da quello di “The big bang theory”. Mi venne detto che una cosa del genere in Italia non si poteva fare perché troppo di nicchia. La fiction italiana non si può spingere oltre la cappa e spada.
Ora è chiaro che in Italia alcuni autori di fantastico vengano pubblicati. Ma ti chiedo: quanti critici se ne sono occupati?
Domanda: il parere di questi fantomatici critici diminuisce in qualche modo le vendite di Tolkien o Martin o Rowling che mi risulta vadano benissimo? Sono davvero loro il problema? E di nuovo, se chiedo affermazioni pubbliche non è che puoi rispondermi con battute dette a te in privato…
L’altra domanda: c’è in Italia un ‘genere’ sdonagato, sdoganatissimo, sia fra i critici che fra i lettori: il giallo e/o noir. Che cosa hanno fatto gli scrittori italiani di gialli che quelli di fantasy non hanno fatto? Perchè il lettore italiano non si fa problemi a comprare libri di Camilleri, Lucarelli, Vitali, Carrisi etc. mentre respinge quasi tutti gli autori italiani di fantasy e fantascienza? Colpa di critici ed editori? O colpa degli autori e dei loro limiti?
(e di nuovo, questi anonimi che ‘storcono il naso’… Non è il caso della Palazzolo, chiaramente, ma se penso a tutti questi aspiranti autori che si scoraggiano per un naso storto – motivazioni, eh?)
(ho messo il mio indirizzo mail a commento del tuo blog)
Fra l’altro la LeGuin cita Borges e Calvino che non mi sembra abbiano avuto grossi problemi con la critica. Certo non piacevano a tutti ma questo è normale, no?
Calvino poi è stato pure candidato al Premio Hugo…
Io credo che gli albi dei suddetti premi siano una prova del nove del mio ragionamento molto più di quanto possano farlo articoli “pubblici” come dici tu.
Non capisco bene il punto del tuo ragionamento. Se vuoi dire che in Italia il fantastico non viene considerato unicamente perché mancano gli autori bravi e i romanzi validi, e non esiste nessun pregiudizio “critico” ed “editoriale”, non sono d’accordo con nessuna delle due.
Se vuoi dire che gli autori del “fantastico” abbiano meno motivazioni degli altri (ma che poi esistono gli autori del “fantastico”?), anche qui non vedo perché.
Se pensi poi che un romanzo di genere fantastico, italiano o straniero che sia, di valore, in Italia ottiene l’attenzione della critica (sia essa accedemica, di saggistica, o di recensioni su quotidiani e riviste) al pari di qualsiasi altro romanzo di valore, non sono d’accordo neanche su questo punto.
Poi, per quanto mi riguarda, se Cunningham e Le Guin propinano ancora questa polemica tendo più a fidarmi del loro punto di vista, piuttosto che del tuo che dici “la polemica si è esaurita negli anni ’60”.
Magari hai ragione tu, però di base dovresti essere più convincente nella tua argomentazione.
Oltretutto, se Loredana – cha ha tema la questione di genere e del genere – spesso e volentieri riporta frammenti, articoli, pensieri su questo argomento, evidentemente non è così cristallina la faccenda al modo con cui la poni tu. A meno che tu non voglia suggerire che tutti noi stiamo parlando di miraggi.
E visto che in base alle mie esperienze, il punto di vista di Le Guin e Loredana tende a collimare con quanto ho vissuto, mi risulta naturale e spontaneo accoglierlo.
e.c. “tema” -> “a cuore”
*
Come già detto molte volte su queste pagine, non è che uno scrittore di fantastico debba avere una corsia privilegiata o un giudizio più compiacente.
Se il suo romanzo è pessimo, ben venga cestinato ed obliato.
Ma se il suo romanzo è valido, “però è fantastico”, allora non ci sto più.
Io credo, perché l’ho provato in prima persona, e per esperienze indirette molteplici, che esista in Italia ancora nel III millennio un forte pregiudizio verso gli Orchi, per restare in tema con Wilson.
Non ne io ho nei confronti del romanzo realistico, né di qualsiasi altro genere.
Mettiamola così. L’altro giorno, frugando fra le bancarelle di Piazza Colombo, mi è capitato fra le mani un’edizione Oscar Mondadori de ‘La Spada di Shannara’ di Terry Brooks. Mi viene la curiosità di vedere la data di edizione: 1978. Cioè, in pieni Anni di Piombo e ‘dominio marxista della cultura italiana’ (come dice il Corriere della Sera e tanti altri), la principale casa editrice italiana pubblicava un fantasy classico che più classico che non si può e vendette pure bene. Cos’è, la Mondadori fu coraggiosa a sfidare il suddetto dominio e le Brigate Rosse oppure la cosa non richiedeva alcun coraggio?
(fra l’altro i brigatisti in carcere erano gran lettori di fantascienza…)
Faccio un altro esempio. Calvino esordisce con un romanzo neorealista-resistenziale ‘Il sentiero dei nidi di ragno’. Poi però, negli anni Cinquanta, pubblica la sua trilogia degli antenati (Barone, Visconte e Cavaliere) che è fantasy della più bell’acqua, benché non nel solco dell’ortodossia tolkieniano-brooksiana. Carriera finita, dunque? Non proprio, mi concederai.
A questo punto possiamo rifugiarsi nel complottismo-vittimismo fantasyano e dire che Calvino era uno dei pezzi grossi di Einaudi e legato al Pci – insomma, un ammanigliato. Ma allora dopo il 1956, quando uscì dal Pci per i fatti d’Ungheria, avrebbe dovuto essere la fine, per lui. E non lo fu.
Ecco, per esempio, Calvino indica una strada italiana al fantastico (che lui fra l’altro proseguì impunentemente, vedi Cosmicomiche e Città Invisibili etc) ma che oggi, che io sappia, non interessa a nessuno scrittore italiano del ‘genere’, tutti col mito del ciclo in dieci volumi di 800 pagine l’uno o giù di lì…
Quando parlavo di ‘motivazioni’ intendevo l’idea di qualcuno che smette di scrivere fantasy o fantascienza perchè qualcuno ‘storce il naso’. Si vede che non era molto convinto neanche lui.
Comunque è chiaro che questa è la mia personale opinione e che tu, Loredana e la LeGuin ne avete una diversa. Ma dobbiamo tutti pensarla ortodossamente allo stesso modo? No.
Ultimissima: la mia idea è che ci siano lettori italiani ma non solo che, per esempio, amano ‘Cavalier and Clay’ di Chabon perchè parla di fumetti e ignorino ‘I misteri di Pittsburg’ perchè non ne parla; che apprezzino la Atwood quando scrive fantascienza e la ignorino quando non lo fa. Tu stesso ammetti di aver letto la LeGuin, che a suo tempo era pubblicata dalla Nord, se non sbaglio, e ignorare Cunningham, che è stato pubblicato da una casa editrice non di genere e il cui romanzo più famoso, Le Ore, parlava di Virginia Woolf e della condizione femminile. Sbaglio? Può darsi.
Comunque ti posso assicurare che se mai un giorno dovessi imbattermi in un forum o blog in cui i ‘sedicenti critici’ e ‘scrittori convinti di queste idiozie’ si riuniscono per condannare il fantasy e la fantascienza gli dirò con la stessa energia e malignità quanto e come sbagliano.
Però sono online dal 2000 e non ne ho ancora trovato uno…
E’ vero. C’è chi si ostina ancora a fare divisione fra letteratura e generi, oppure fra letteratura alta e bassa (ancora peggio). Poi ci sono anche le mode. Alla Feltrinelli di Siena dove prima c’era “Dieci piccoli indiani” ora troneggia “Dieci piccoli sospiri” (giuro).
…ma le Feltrinelli possono ancora chiamarsi tecnicamente “librerie” o sono evolute in “suk culturali”!?? :))
Caro Luca
ultimamente questo è stato il cambiamento nello spazio più visibile della Feltrinelli. Prima gialli, thriller e noir da dà a’ maiali, poi è scoccata l’ora dei vampiri, delle magioni di campagna avvelenate da malefici, di ville maledette immerse nelle foreste, di sepolcri che si aprono, di cimiteri che ululano, di morti che non sono poi tanto morti, tra l’altro pure incazzati neri e vendicativi. In seguito, con l’arrivo delle “sfumature”, ecco spiattellate storie sentimental piccanti con bordelloni stasatori e principi azzurri ben piantati su solidi portafogli, per recare insidie fascinose nella vita stantia di ingenue ragazzotte e di fanciulle stagionate, pronte ad un’orgia di erotismo squillante da far cantare le campane a festa. Per il futuro vedremo.
Caro Fabio,
descrizione impeccabile. Nella mia città (Macerata) siamo all’assurdo che sul non lunghissimo corso principale del centro storico insistono ben 4 librerie di 3 gestori diversi, 2 di esse sono “di catena” (Mondadori e Feltrinelli), le altre 2 fanno capo al proprietario storico di una delle due più grandi librerie indipendenti della città. Toponomasticamente, la libreria indipendente e la Feltrinelli sono situate l’una di fronte all’altra (!!), l’abisso culturale che le divide è così palpabilissimo: mentre il “suk” propone le operazioni che hai mirabilmente descritto, la “vera” libreria propone saggi, romanzi e quant’altro in base all’interesse e all’intuito dei librai, senza contare le tante proposte culturali che pubblicizzano o organizzano in proprio; la Feltrinelli, invece, espone solo i titoli “di grido” della casa madre o di altre grandi case editrici, mentre la libreria indipendente lascia moltissimo spazio alla piccola editoria soprattutto locale (QuodLibet, LiberiLibri, RroseSélavy e tante altre) che spesso hanno titoli di gran pregio contenutistico. Inutile dirti da chi mi servo abitualmente per acquistare libri, la Feltrinelli la lascio per gli audiovisivi che invece sono normalmente introvabili e di ottimo pregio: la tratto cioè da videoteca evoluta, nulla più…
Oltretutto, nella distanza di questi giorni, non ho aggiornato il blog sulle vicende amazoniane. Che tempo potrebbero farci rimpiangere le librerie di catena.
vorrei dire che ho acquistato un libro RRose Selavy proprio in uno dei tremendi suk culturali Feltrinelli (ma vado anche nelle piccole librerie, sia chiaro).
si può discutere se sia stato giusto concedere alle grandi case editrici di diventare anche distributori ma vorrei che si trovassero argomenti diversi dal “non sono vere librerie perchè hanno i romanzacci “commerciali” (orrore!) in vetrina” poichè le librerie di catena non offrono solo quel tipo di libri (che hanno diritto di cittadinanza anche se vi fanno schifo) e lo so perchè ci vado. giustamente accettiamo il fatto che nelle videoteche (quelle che esistono ancora, io che mi rifiuto di scaricare film oggi per comprare i dvd devo andare nei centri commerciali) troviamo i film d’autore, i classici, i blockbuster (che non è sinonimo di schifezza) e tutto quello che c’è in mezzo come qualità e ambizioni ma se lo fa una libreria..non va bene! Ma perchè? Personalmente mi piace leggere quasi di tutto anche romanzi di genere e “ambizioni” diversissime quindi una libreria dove c’è tutto o quasi mi va benissimo. E le librerie vere per me sono quelle non virtuali, che siano grandi o piccole, di catena o indipendenti..finchè esisteranno continuerò ad andarci
Vorrei precisare. Il sottoscritto ironizza su tutto, a partire dai gialli, thriller e noir che seguo da una vita, continuando con l’horror e le sfumature di ogni colore, sulla scia di una secolare tradizione toscana, senza farne, però, una distinzione di valore. Tra l’altro leggo di tutto, pure le cacche che trovo per strada (secondo i miei amici) e perfino i miei libri.
Caro Paolo1984,
è un po’ come la differenza tra il supermercato e il negozio sotto casa: il primo conviene per i prezzi ma le nostre scelte come consumatori sono orientate dalle promozioni e i prodotti sono di qualità media (se non medio-bassa) salvo eccezioni; nel secondo c’è un gestore che ci mette la faccia, che ha un rapporto diretto con la clientela e che ci deve campare: se non è stupido deve puntare sulla qualità e sulla personalizzazione del rapporto commerciale (oltre ad offrire spesso un quid extra monetario come il rapporto umano): fin dove le tasche me lo permettono preferisco il secondo, lasciando al supermercato quei prodotti “seriali” la cui unica differenza col negozio sotto casa sarebbe il prezzo.
Va da sé, poi, che quando parliamo di prodotti culturali non parliamo di detersivi e che quindi, forse (ma potrei sbagliare), hanno una certa peculiarità nella quale la modalità di offerta ha una valenza importante, se non addirittura determinante. E la “rivoluzione” Amazon mi sembra (ma potrei sbagliare) il classico esempio di progresso distopico che questo “mercato” (di monopolisti, quindi non-mercato) ci propina allettandoci con l’abbattimento dei prezzi. Una volta si chiamava “controrivoluzione” o “restaurazione” o “controriforma”, mi pare.
Per rispondere a Sasha, la polemica che propongono Cunningham e LeGuin è tutt’altro che sorpassata, anzi, è un classico sempre attuale e molto sentito nel dibattito culturale USA.
http://www.vanityfair.com/culture/2014/07/goldfinch-donna-tartt-literary-criticism
Sulla supremazia del realismo in certa cultura accademica americana, invece, mi viene in mente David Foster Wallace che in vari punti della sua biografia evoca i quotidiani contrasti con i docenti di letteratura dell’università che frequentava (anni ’80) che non accettavano produzioni se non improntate, anche stilisticamente, al cosiddetto realismo.
Anni Ottanta, mi sembra di capire. Trent’anni fa, se non sbaglio.
E poi si parla di ‘docenti di letteratura all’università’ come se fossero loro a decidere del successo o del fallimento di uno scrittore.
Ogni volta che qualcuno accusa la ‘critica’ da qualche parte nell’oceano una balena muore. Per esempio io amo molto i romanzi di Georges Simenon. Mi dicevano che era stato ignorato o disprezzato dai critici perché scriveva ‘gialli’ e io, innocentemente, ci credevo. Poi un giorno lessi una biografia e scoprii che la gran parte dei critici francesi importanti, Andre Gide in testa, lo esaltavano e che la NRF, la rivista culturale più importante d’Europa fra le due guerre, gli dedicò un numero speciale. Da allora quando sento che il tale scrittore o il tale genere è odiato dai critici prendo la cosa per quel che è: pubblicità.