URCA, UN HASHTAG!

Care e cari, in questi giorni, come forse è noto, assai si è dibattuto sull’hashtag col quale giovani donne americane dichiaravano di non necessitare del femminismo. Occasione ghiotta (urca, un hashtag!) per rilanciare la discussione anche in Italia, dove l’ondata “siamo incazzate con le moraliste” (in realtà un’ondina, le cui motivazioni sono, molto spesso, biografiche e non nobili, del genere “mi hanno fatto un dispetto e mi devo sfogare anche dicendo balle, tipo che le femministe odiano i tacchi alti, tanto qualcuno mi crederà”) rischia di vanificare i pochi casi in cui la riflessione approfondita su corpi e libertà c’è e resta importante. Non ho ritenuto di intervenire, avendo ripetuto fino allo sfinimento che c’è molto da ripensare anche sulle narrazioni “mainstream” dei femminismi, non certo sui loro obiettivi. Però, grazie al cielo, c’è chi ha l’energia e le parole per farlo: dunque posto qui l’intervento di Michela Murgia, che le dee la proteggano sempre, uscito su Repubblica.
Questo blog, come di consuetudine, si ferma per il mese di agosto: la titolare ha bisogno di pace, riposo, riflessione e anche di rileggere le bozze per il libro nuovo, che uscirà a novembre e non parlerà di femminismi. O forse sì. Anche. Può darsi. Abbiate una buona quasi-estate.

Per quanto da qualche tempo si cerchi di trasformare il termine in un insulto persino in certi insospettabili ambienti della sinistra colta, dirsi femministe in questo paese resta una necessità civile ineludibile. Io non me ne vergogno e anzi tenderei a mettere a fuoco con più precisione quali sfumature dell’insulto vorrei interpretare meglio nella mia azione femminista, perché sono convinta che le specificazioni che usano per denigrare chi si espone a difesa della dignità e parità delle donne siano proprio quelle di cui le donne hanno maggiore necessità.
Se dunque potessi scegliere come essere insultata in merito, vorrei continuare a essere definita come sporca femminista. Lottare contro le disuguaglianze di genere era e rimane un lavoro socialmente lurido, con altissimi costi di relazione. Nella sfera privata si perdono le amicizie di chi ritiene che le priorità siano altre; in quella pubblica si viene categorizzate come specialiste della polemica di genere; in quella personale si diventa molto reattive alla disuguaglianza, perché si finisce per sviluppare un’attenzione acuta verso tutti i segnali di sessismo che ci circondano e che la maggior parte delle persone non riesce a vedere. Sporche femministe con fierezza, quindi, perché c’è un immenso bisogno di donne che vogliano accettare di essere chiamate così in nome del contatto con i peggiori aspetti della decomposizione sociale che stiamo vivendo.
Confesso che non vorrei rinunciare nemmeno alla specificazione di femminista arrabbiata, termine usato dai detrattori verso la determinazione con cui è necessario che certe battaglie siano ancora portate avanti, fuori da ogni ipocrita trattativa al ribasso. La forza spesa nell’espressione di alcune posizioni è commisurata alla resistenza culturale che circonda le disuguaglianze strutturali contro le quali in questo paese è ancora necessario lottare. La docilità non è un attributo delle guerre e quella per la parità, non fosse altro che per il contrattacco che suscita, una guerra lo è a tutti gli effetti. Se mi fosse dato di potermi tenere addosso un ultimo aggettivo insultante, direi che mantengo anche l’epiteto di vetero femminista, perché il passato del movimento delle donne rappresenta la ricchezza dalla quale tutte adesso possiamo permetterci di guardare avanti. Le lotte delle generazioni precedenti sono state tra i momenti più alti della vita civile di un paese, l’Italia, che non ne ha avuti poi così tanti altri ed è indubbio che molte di quelle battaglie non siano ancora compiute, o perché i risultati non sono stati raggiunti oppure perché oggi sono di nuovo in discussione. Il traguardo di poterci mettere la divisa nei corpi militari è ben poca cosa sul piano della parità rispetto al fatto che le donne che vogliono scegliere della propria maternità debbano scontrarsi con il 70% di obiettori negli ospedali, che quelle che lavorano prendano ancora meno dei colleghi di pari mansione, che vengano licenziate più facilmente, assunte più spesso con contratti a termine e dimissioni prefirmate per timore che restino incinte.
Occorre essere molto “vetero” se si vuole essere “neo” femministe nel 2014, perché se cinquant’anni fa le nostre nonne sapevano che sarebbero esistiti solo i diritti per cui stavano lottando, oggi noi dobbiamo essere consapevoli che della loro eredità di conquiste continueranno a esistere solo quelle che rimarremo in grado di difendere. Che ci insultino, dunque: non ce la prenderemo. Siamo tutte consapevoli che ogni volta che quelle parole ci vengono rivolte è perché perdiamo tempo a difendercene ciascuna per sé, dimenticando che le nostre battaglie sono più alte e appartengono a tutte.

6 pensieri su “URCA, UN HASHTAG!

  1. Grazie, Michela. Loredana ringrazio anche te per aver ulteriormente diffuso l’articolo della Murgia. Da oggi indossero l’aggettivo denigratorio ‘vetero’ con maggiore leggerezza.
    “Occorre essere molto “vetero” se si vuole essere “neo” femministe nel 2014, perché se cinquant’anni fa le nostre nonne sapevano che sarebbero esistiti solo i diritti per cui stavano lottando, oggi noi dobbiamo essere consapevoli che della loro eredità di conquiste continueranno a esistere solo quelle che rimarremo in grado di difendere. “

  2. Notevole il messaggio, solido il contenuto, stringente il ragionamento. È un piacere leggere la lirica che sottende all’impegno di oggi, senza dimenticare chi ci ha preceduti. Grazie Michela, per la lucidità e il coraggio.

  3. Se il “nuovismo” vuol dire arretrare, viva essere “vetero”!! Essere femminist*, laicist*, “omosessualist*” (come dicono quelli “per la Vita” con la maiuscola) deve essere onore e vanto. Perché i valori e le battaglie che sottendono non sono appannaggio delle categorie specifiche cui si riferiscono, ma di tutt*. E se quei valori arretrano, è tutta la società ad abbrutirsi e a rendersi distopica. O meglio, “mixofobica”, per dirla alla Bauman (gran lectio a Civitanova Alta, cara Loredana… cosa ti sei persa!!). Buone vacanze, stacca la spina e getta la presa elettrica!! 😉

  4. Gentile Loredana, leggo da qualche mese il blog dopo aver scoperto il libro “Di mamma ce n’è più d’una”, davvero illuminante. Mi permetto di riproporre il commento postato su Zauberei.
    Allucinante! D’accordo sulla questione anagrafica, col tempo si ricrederanno. Anch’io in passato pensavo “che palle, ’ste femministe esagerano”, avendo in mente lo stereotipo in zoccoli e gonnellone. Poi ho fatto 2 figli in età matura, all’apice della carriera ho avuto la prima gravidanza:demansionata e trasferita. Poi, capatosta, la seconda: licenziamento in tronco. Eh be’ le femministe adesso le capisco meglio! Sarà la crisi, sarà il “bambino indaco” ma certamente c’è un ritorno che sospinge le donne verso la cura dei figli e le faccende domestiche (cit. Lipperini). L’idea di fondo e’ che le donne rincretiniscano dopo le gravidanze. WAF crescete e poi mi direte.
    Buona estate, aspetto il nuovo libro! Paola

  5. C’ è bisogno di donne toste nel nostro paese. Donne che sappiano difendere i diritti conquistati in decenni di lotte, donne consapevoli del proprio ruolo di cittadine con pari diritti, donne che sappiano essere assertive e sappiano comunicare cosa significa essere ‘femministe’. C’è bisogno di chiarire che le femministe non sono mostri coi baffi e la barba che odiano gli uomini, ma persone normali che hanno un lavoro, relazioni, figli e figlie. C’è bisogno di ricordare che, se non fosse per le donne coraggiose che ci hanno preceduto, non potremmo nemmeno lavorare, nè votare, nè divorziare. Ma saremmo ostaggio della famiglia d’origine prima e di quella del futuro marito poi. Ricordo con le lacrime agli occhi ‘Una donna’ di Sibilla Aleramo. Italia, primi del Novecento, appena un secolo fa. Una donna, allora, non esisteva come entità autonoma, a se stante, al di fuori della famiglia. NON ESISTEVA. E’ sconvolgente, Oggi va tutto bene, mi si dirà. Nemmeno per idea. Le donne sono discriminate nel mondo del lavoro, come ricorda Michela Murgia nel suo articolo, e comunque, raramente, in politica, come nella società, ricoprono, ruoli ‘importanti. Per non parlare della rappresentazione massmediatica che viene fatta delle donne sulla quale non c’è molto da aggiungere. Lorella Zanardo docet – vedi ‘Il corpo delle donne’. Per concludere, a me sembra che in questi nostri anni di ‘liberazione sessuale (e non mi si prenda per una moralista, per favore) le donne hanno conquistato la libertà di godere del proprio corpo come meglio credono, ma il paradigma sesso-potere è rimasto quello di sempre: atavico, primordiale, orribile. Della serie: gli uomini hanno il potere, le donne quella cosa lì. E il baratto continua…

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