SCHERNIRE I MORTI, RICORDARE I MORTI

Da questa mattina mi chiedo il senso di scrivere un articolo violentissimo, come quello di Francesco Merlo su Zerocalcare e non solo, per dar conto di una posizione. Mi interrogo anche sul perché in quell’articolo si evoca Michela Murgia come esempio di insignificanza  di discorsi non seri. In particolare, riferendosi a una dichiarazione di Fumettibrutti, dice:

“Ecco: intersezionalità e Michela Murgia. In tempi normali basterebbe questa lunga spiegazione per liberarci con un sorriso dall’imbarazzante sospetto che possa trattarsi di una cosa seria.”

Smetto di interrogarmi, perché il meccanismo evidentemente è quello, ed è sciocco da parte mia pretendere che cambi.
Quindi, faccio altro, e penso a questa giornata dei morti, e penso a chi è morto.
Penso che ci sono stati tempi in cui il lutto era condiviso. La persona amata e perduta poteva essere raccontata ad altri, e da altri si ricevevano storie, e immagini, e frammenti sconosciuti, e questo, sì, era un modo di vincere la morte, o almeno di mettere in comune il dolore, e di allontanare l’assenza.
Il lutto, oggi, è faccenda sbrigativa. Certo, si piangono i morti sui social. Per un po’. Poi, quel lutto diventa imbarazzante. Ti si chiede di mettertelo alle spalle, ora, adesso, o comunque di non esibirlo. Il dolore provoca incertezza, apre fratture negli altri, che da te sono abituati ad avere altro, e altro dunque ti chiedono, e tu rispondi alla richiesta pensando che è così che si fa.
Il lutto era lungo, dodici mesi si diceva, e dodici mesi erano e sono il tempo che ti ci vuole, che il tuo corpo e la tua mente pretendono per adattarsi. Ora devi sbrigartela in una manciata di giorni, perché non sta bene, perché abbiamo bisogno di essere rassicurati da quella che pretendiamo essere la tua forza d’animo.
Annie Ernaux ha raccontato il  suo duplice lutto  in tre libri: Il posto,  dove ricostruisce il padre a partire dalla sua morte, Une femme (Una vita di donna, Guanda) e Je ne suis pas sortie de ma nuit (Non sono più uscita dalla mia notte, Rizzoli) dove usa la letteratura per sconfiggere l’isolamento del dolore e cerca  una verità sulla madre “che non può essere raggiunta che con delle parole. (Vale a dire che né le foto, né i miei ricordi, né le testimonianze della famiglia possono darmi questa verità)”…”scrivere nel senso della verità, mi aiuta a uscire dalla solitudine buia del ricordo individuale, grazie alla scoperta di un significato più generale. Ma sento dentro di me una certa resistenza a farlo, vorrei conservare di mia madre immagini puramente affettive, tenerezza o lacrime, senza attribuirgli un senso”.
E aggiunge:
“mia madre non ha una storia, c’è sempre stata. E’ così, le madri non dovrebbero mai morire, la loro perdita appare sempre come una sorpresa che lascia attoniti”.
Nel caso di Ernaux (e prima di lei di Simone de Beauvoir con Una morte dolcissima) la parola scritta cerca una realtà non concepita. Beauvoir usa parole gemelle:  “Per me, mia madre era esistita sempre e non avevo mai pensato che l’avrei veduta scomparire un giorno, un giorno assai prossimo. La sua fine si situava, come la sua nascita, in un tempo mitico”.
Forse gli scrittori, e soprattutto le scrittrici, servono a questo, a trovare le parole per sconfiggere, se non la morte, la solitudine della morte e il suo ripudio, la titubanza e anche la ripugnanza e persino lo scherno che chi subisce una perdita suscita negli altri.  Non è un progetto letterario, ma un progetto di ricostruzione di quanto abbiamo perduto, non solo di chi. La capacità di condividere, anche il dolore.
Forse, è questo l’esorcismo verso  chi dei morti si fa beffe, nonostante tutto.

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