Ray Bradbury diceva: “Dovete essere ubriachi di scrittura, così che la realtà non riesca a distruggervi”. Ma a volte, forse, e sottolineo forse, occorre sperare che la letteratura scardini la realtà, la ubriachi, la faccia a brandelli, la riveli. Naturalmente è presto: non possiamo che prendere appunti incerti su un taccuino, distraendoci a ogni riga.
Sì, perché più il tempo passa più si fa fatica: è difficile abituarsi, ammesso che occorra abituarsi, e a quel “non durerà” dei primi giorni si sostituisce il “durerà molto” che pesa sul cuore. Ah, non sono parole mie ma di Camus, ovviamente, ma corrispondono in pieno a quello che stiamo vivendo: anche della guerra, dunque, si diceva questo, anche del nazismo, e prima ancora delle raffiche della spagnola.
Questo, per me, è stato un week-end pesante: sono riuscita a scrivere, ma poco e male, ho letto a fatica, ho pulito casa e giardino molto sbrigativamente. Ci sta, mi dico, è nell’ordine delle cose eccezionali. Per questo, nei secoli passati, la peste veniva annunciata da eventi straordinari.
Qualcuno vide bagliori a forma di draghi e serpenti. Altri narravano di venti afosi che portarono piogge di vermi, e quei vermi emanavano un tale fetore da uccidere chi lo respirava, altri ancora dissero che a cadere dal cielo furono rospi cornuti, o palle di meraviglioso candore grandi come la testa di un uomo, che appena toccavano terra bruciavano ogni cosa, e ancora una volta il fumo dell’incendio era così velenoso da soffocare ogni creatura all’istante. Altri parlarono di comete, di scodelle luminose nel cielo, di tramonti verdi e gialli.
Chissà se la nostra fascinazione per il food porn può essere paragonata alle scodelle luminose: una scodella di amatriciana invece di un’apparizione divina. Il food porn è, come sapete, il fotografare piatti di cibo, propri e altrui, belli e succulenti, e pubblicarli sui social. Almeno, lo era. Perché è come se quella valanga di sushi e carbonare e cannoli presagisse l’invasione odierna: polli e polpi e risotti e crostate e sformati e arrosti e soprattutto pane, pagnottelle, focacce, pizze.
Lo trovo bellissimo, ovvio, ma mi fa riflettere. Da una parte è sicuramente una questione di economia domestica, e di evitare di uscire e farsi da soli quel che si può. Dall’altra è come se venissimo riportati indietro alla ritualità mai perduta del cibo, e condividessimo quel che non possiamo condividere fisicamente.
Qualche tempo fa, e devo averlo già scritto, si è parlato di un fenomeno che si chiama mukbang, ovvero persone che su YouTube mangiano, mangiano tanto, mangiano e basta, mentre altri commentano. Alcuni mukbanger non parlano, lasciano che parlino per loro i morsi, i risucchi, i rumori della masticazione. Mangiano di tutto: hamburger, pollo fritto, sushi, minestre, dolci. Il mukbang è nato in Corea, dove negli ultimi 15 anni la percentuale di chi vive solo è passata dal 15,5 al 28,6 per cento. In poche parole, se non si ha nessuno con cui condividere un pasto, si può guardar mangiare un altro, e magari mangiare a nostra volta davanti a YouTube. Tu un muffin, io una cotoletta. Non è così impensabile come credete: mi capita ogni giorno, mentre sono in conduzione , di ricevere alla stessa ora (le 16. 15), il messaggio di un ascoltatore che descrive la propria cena, niente di più: stracchino, fagiolini, pan bauletto, oppure pomodori, frittata, pan bauletto. Niente altro. Perché lo fai?, gli ha scritto una volta. Perché sono solo, ha risposto.
Ma appunto, prendiamo nota, osserviamo, stringiamo i denti, andiamo avanti. Altro non si deve e non si può.
Cara Loredana,
non richiesta voglio dire cosa capita a me.
Chissenefrega dirà la stragrande parte e lo capisco e lo accetto.
Riuscire a dire qualcosa che riguardi qualcuno in più della semplice singola persona non mi sembra per niente facile.
Comunque io non sto soffrendo perché vivo condizioni oggettivamente favorevoli: non lavoro ma ho un reddito da lavoro; non sono sola ma ho un compagno e i genitori miracolosamente ancora vivi.
Non viviamo a Bergamo o Brescia e questo fa sicuramente la differenza, almeno sulla sopravvivenza degli anziani e sull’angoscia che la possibilità di ammalare comporta.
Vado a fare la spesa e mentre faccio la fila leggo un libro o il quotidiano, che casa poco mi riesce.
A casa desidero stare in contatto con la mia bolla social, mentre il partner fa il lavoro agile; nuova esperienza in cui conosco via Skype, anche le sue (care e brave davvero) colleghe e forse anche il partner, persona buona, gentile, irascibile e un po’ chiusa.
Dunque, io non mi pongo il problema: “quando finirà?”.
Io vivo alla giornata; ogni giorno è una sorpresa, non guardo troppo avanti perché mi verrebbe ansia, se non peggio. Radio3 mi aiuta moltissimo, manco fossimo di famiglia.
Potrebbe sembrare che non mi interessi di quello che capita alla maggior parte dei miei concittadini ma così non è.
Penso continuamente a quello che potrei fare per alleviare le difficoltà di qualcuno.
Amo pagare le tasse, amo che ci siano i servizi e aggiungo una parte non indifferente di reddito come restituzione.
Non ho una bella casa, ma ho una piccola casa mia. Non ho bei mobili, ma li ho.
Forse perché sono stata una persona mediamente povera, ora apprezzo tutto quello che ho e lo amo e mi dispiace per quelli che hanno meno di me e non lo trovo giusto.
A me non importa di quelli che hanno più di me, ma che si rendano conto o meno della fortuna di vivere in una condizione privilegiata devono essere messi nella condizione di pagare più tasse e migliorare le condizioni dei più sfortunati.
Non sarebbe questo un obiettivo meraviglioso cui destinare al meglio i propri soldi?
Un abbraccio. Patrizia