SCONCERTI

Piccola pausa, fatta di letture e di navigazione: ieri sera, su Facebook, ho appreso di una vicenda di certo piccola, altrettamento certamente sconcertante.
Avviene che una scrittrice cerchi un editore per i suoi racconti. Fin qui siamo nella normalità. Premetto che con questa scrittrice, che si occupa anche di uffici stampa, ho avuto solo qualche fuggevole contatto via mail: non la conosco, non so se i suoi racconti siano o meno adatti alla pubblicazione, non so se scriva cose interessanti o trascurabili.
Non è questo il punto.
Alla scrittrice viene proposto un contratto di pubblicazione da una casa editrice che si potrebbe definire medio-piccola. A condizione “che lei prepari la piazza su Roma”. Riporto le parole dell’editore stesso così come sono state lasciate nei commenti all’accesissima discussione che si è svolta su Facebook.
“Lavorare su Roma, su Milano, su dovunque abiti un nostro autore, è una cosa che chiediamo a tutti. Abbiamo bisogno di poter contare sui nostri autori anche per la promozione, perché abbiamo forze ridotte. Funziona come una “banca del tempo”, io ne dedico tanto a te e al tuo libro, alla sua revisione accurata eccetera, e tu ci dai una mano sulla comunicazione. È così folle? Chiaro poi che se l’autore non c’è, pensa solo al suo libro e si fa gli affari suoi, vuol prendere un passaggio e via, l’editore si fa una domanda e si dà una risposta”.
Questo è inquietante. Un editore ha tutto il diritto di non pubblicare un testo (infatti, i racconti della scrittrice non verranno pubblicati), ma il rifiuto va legato alla qualità del testo stesso e non alla disponibilità dell’autore di farsi ufficio stampa, o promoter, o esperto di comunicazione, sia pure del proprio libro.
Più avanti, lo stesso editore precisa:
“come abbiamo spiegato altrove, la pubblicazione dell’opera era condizionata alla presenza dell’autore. Naturalmente non vale per tutti gli autori, ma specie per i più giovani e gli emergenti, che sono degli sconosciuti, non poter contare sulla disponibilità dell’autore a battersi per la promozione del suo libro ALMENO nella propria città di residenza rende le cose un po’ difficili”.
Qui lo sconcerto aumenta. L’emergente, qualora desiderasse pubblicare con Transeuropa (di questo editore si parla infatti: anche se, come da precisazioni successive, esclusivamente in rapporto ad una specifica collana), deve essere disponibile ad autopromuovere il proprio libro? Forse c’è qualcosa che mi sfugge nelle dinamiche attuali. Perchè è evidente che accompagnare un testo è pratica importante, è occasione irripetibile di condivisione e comunicazione. Ma non è un obbligo. L’unico obbligo di un autore è scrivere. Il resto spetta all’editore. Anche trovare, come nel caso della collana in questione, il gruppo musicale destinato ad accompagnare il testo.
Ho trovato queste informazioni in una bella, lucida nota di Seia Montanelli, che mi auguro sia leggibile anche da chi non è iscritto a Facebook.
Non intendo in alcun modo fare un atto di accusa: semplicemente, sto cercando di capire come stiano mutando i rapporti fra autori e piccoli-medi editori. Sempre considerando lo sfondo, di cui si è già parlato: il numero delle novità pubblicate è altissimo, il ciclo vitale di un libro è sotto i trenta giorni.

340 pensieri su “SCONCERTI

  1. “I piani del discorso non si scindono, l’antipatia personale, la questione circostanziata, la pratica generale ecc. ”
    Piano con le parole, Dario Rossi. Rileggiti i miei commenti. Non ho mai parlato di simpatia o antipatia. E non ho mai pensato di crocifiggere nessuno. Se non fosse ancora chiaro, chi è andato sul piano personale (le testate con cui collaboro e addirittura la promozione e la pubblicazione dei miei libri) non sono io.

  2. Dario se questo manoscritto à così bello e lo pubblicate e io lo leggo e mi piace, ne parlo come faccio con qualsiasi altro libro o autore, non sono io a valutare la rubrica o il contesto o il background di quelli di cui parlo. La questione è un’altra, continuate a spostarla per promuovermi, ma ci sta, lo capisco (quello che mi sconcerta è altro ed è sotto gli occhi di tutti), ma non parlare di simpatica o accanimento, io non avevo mai avuto a che fare con Milani prima, né con te, l’unico con cui ho parlato di Transeuropa è Demetrio. L’avete trasformata voi in qualcosa che non era, peraltro non rendendevi un buon servigio.

  3. Seia, chi non ci sta rendendo un buon servigio siete tu e Loredana, per motivi personali ormai “sviscerati”. È una questione privata, lo era dall’inizio, fondata sul nulla. Sarebbe meglio che la chiudeste qui.

  4. Dario Rossi, dici diverse cose false.
    Anzitutto asserisci che un editore-imprenditore non pubblica esordienti. Non è vero. Gli esordienti possono essere molto redditizi. Andrea Frediani, quando ha pubblicato “Gli assedi di Roma” nel 1997, non aveva mai scritto un libro. Quel primo volume è andato molto bene, e da allora con i suoi libri Newton Compton ha fatto molti soldi. Anche “101 cose da fare a Roma una volta nella vita”, della Beltramme, esordiente assoluta senza nemmeno il passato di articolista che aveva Frediani, ha venduto diecine di migliaia di copie (tant’è che l’autrice adesso è passata a una major, ovvero Mondadori). Potrei continuare la lista dei casi che conosco (che è parecchio lunga).
    Ritorna il discorso che faceva Roberto Calasso e che citavo al principio di questo thread: i libri belli che non vendono, un editore deve pagarseli coi soldi dei libri (belli o brutti) che vendono.
    Peraltro, asserisci che Newton Compton non sia un piccolo editore, mentre lo è. Ci lavorano alcune diecine di persone, in buona parte giovani; la sede aziendale sta in un singolo appartamento, sovraffollato di collaboratori; sia come ragione sociale, che come fatturato e numero di dipendenti, rientra appieno nel profilo delle PMI. Forse vedi Newton Compton come un “grande editore” in quanto ben presente in libreria: ma ciò vuol dire solo che i rappresentanti commerciali di Newton Compton sono più bravi e meglio organizzati di quelli di altri editori della medesima stazza. Forse dipenderà dal fatto che sono pagati come da contratto nazionale, chissà.
    Per renderti consapevole di quanto sia grande la sciocchezza che hai detto, posso fare un raffronto con Editrice Giochi e Maggioli Informatica che, quelle sì, sono aziende grandi: hanno centinaia di dipendenti, una rete commerciale in proprio, sono presenti ovunque esista uno straccio di mercato e commercializzano (o hanno commercializzato) prodotti estremamente lucrativi (ad es. Monopoli e Il Paroliere per EG, il portale Comuni.it per Maggioli…). Sono prodotti che si vendono da soli, senza sforzo commerciale, praticamente senza fare nulla. Newton Compton non ha mai, né ai tempi di Vittorio Avanzini né adesso, potuto contare su prodotti così forti, anche se (credo) sarebbe ben contenta di averceli.

  5. Scusata, non avevo scritto il mio nome.
    Seia, chi non ci sta rendendo un buon servigio siete tu e Loredana, per motivi personali ormai “sviscerati”. È una questione privata, lo era dall’inizio, fondata sul nulla. Sarebbe meglio che la chiudeste qui.

  6. Peraltro, trovo immorale e disonesto asserire che l’editoria di ricerca non è imprenditoria, come se “piccolo editore di ricerca” fosse sinonimo di “eroe solitario in un mondo crudele”. Se l’editoria di ricerca non fosse imprenditoria, e non generasse un profitto – sia pure modesto – essa non esisterebbe, se non come hobby: chi se ne occupa dovrebbe campare facendo altro.
    Conosco diversi editori che fanno ricerca, eppure non negano di essere imprenditori, sia pure in un mercato difficile. Basta con questo piagnisteo, è veramente arduo da sopportare, oltre a essere una forma assai maldestra di captatio benevolentiae.

  7. Jean Valjean, quale questione privata? Qui si asserisce che vi sono editori che scaricano sull’autore una parte del proprio rischio d’impresa, oltre a servirsi di lui come collaboratore senza però retribuirlo, facendo passare la pubblicazione come surrogato della giusta mercede. Ci si domanda, altresì, se ciò non sia deontologicamente scorretto, oltreché immorale (a mio avviso, lo è).

  8. Infatti io non devo renderti un buon servigio, non deve renderlo a nessuno essendo del tutto indipendente e al di sopra di ogni logica clientelare. Il mio lavoro è recensire buoni libri, stroncare quelli dannosi, esaminare i vari fenomeni dell’editoria, stigmatizzare le prassi discutibili (e uso un eufemismo con discutibile).
    [Io ti ho augurato buon lavoro ieri…]

  9. Che piccola, brutta storia. E, Loredana, che tu sia sotto attacco per averci messi a parte di tutto ciò la rende ancora più brutta e non meno piccola, anzi. Hai tutta la mia solidarietà.

  10. Insomma, secondo Lipperini non è giusto che l’editore chieda all’autore di farsi promozione. Secondo Milani di Transeuropa invece sì.
    Direi che ognuno ha il suo modus operandi.

  11. Con tutta la stima che ho per il lavoro che Loredana Lipperini svolge con questo blog (e fuori), penso che in questo caso ci sia stato un errore iniziale che ha generato confusione (anche se fatto in buon fede).
    Il discorso “mal/buon costume editoriale” sarebbe stato interessante se affrontato in generale, ma non ci siano state le premesse per farlo: nel momento in cui una giornalista riporta su un blog di pubblico dominio “il caso” di una conversazione privata tra due parti, è implicito che il thread sia offerto come spazio a queste due parti per difendersi, attaccarsi o giustificarsi. E non si può, mentre due litigano, pensare di affrontare una conversazione parallela e pacifica sulle ragioni del litigio.
    Forse “giornalisticamente parlando” si è voluto prendere un caso in corso, vivo come un nervo scoperto, per parlare di un mal-costume che altrimenti sarebbe stato occultato dal silenzio. Ma il punto è che non era per niente chiaro, nello stadio in cui era la discussione su Facebook, cosa fosse successo realmente.
    Sia su Facebook che qui, penso che sarebbe stato più elegante, e più proficuo al dibattito, riportare l’accaduto omettendo i nomi delle parti.
    Poi, per inciso, non mi è piaciuto per niente come hanno portato avanti il dibattito editore e autore, ma questo non c’entra, mi sembra, con le loro reciproche competenze professionali. Non è che tutti siano tenuti a saper gestire la tensione (notevole) di una litigata in pubblico.

  12. Se invece di editoria avessimo parlato di un imprenditore metalmeccanico che prima di assumere un operaio gli avesse chiesto di dimostrargli le sue competenze con del lavoro gratis, nessuno avrebbe chiesto l’anonimato, nessuno avrebbe parlato di sostenere l’imprenditore, di prassi lecita, di dovere dell’aspirante operaio di mostrarsi “meritevole”, di capro espiatorio, di problema tra le parti, di conversazione privata.
    Finché si continuerà a considerare l’editoria “un a parte” rispetto al mercato, al mondo del lavoro, ai diritti, all’etica d’impresa, direi che ci sono poche speranze che le cose cambino.

  13. Purtroppo l’editoria non è “un a parte”. Succede anche nei call center che ti facciano lavorare i primi 3 giorni (che chiamano di formazione) senza dare un euro, oppure con gli stage che spopolano un po’ ovunque. Giusto per precisare, non per difendere qualcuno in particolare.

  14. Simone, verissimo, ma credo che per quanto concerne i call center siamo tutti d’accordo che si tratta di un abuso. Perché ciò che è riconosciuto come abuso in un call center dovrebbe essere accettabile in una casa editrice?

  15. Non ho una risposta, la butto là… Forse proprio perché consideriamo l’editoria un ambiente più “nobile”, così come l’università, per cui vale la pena fare dei sacrifici? In ogni caso, poi, i call center (e non solo) continuano a farlo…

  16. @Seia, io faccio il tuo stesso mestiere ma in versione più umile: scrivo e illustro libri per bambini. Mi è capitato, agli esordi, di dover arrivare quasi alla fine di un libro (mesi di lavoro), senza vedere il contratto, perché l’editore, con gli esordienti, ha sempre il timore che non arrivino a finire un prodotto omogeneo e risuscito. Ma credevo in me stessa e nell’editore e il contratto veniva poi firmato.
    Mi è capitato di fare disegni “di prova” non pagati per ottenere una commissione su cui c’erano altri pretendenti. Mi è capitato di fare un libro con tanto di legale contratto, distribuzione, vendite, e di non vedere mai una lira perché l’editore ha pensato bene di non pagare mai nessuno. Mi è capitato di dover supplicare il pagamento delle royalties in ritardo di anni. E sono stata fortunata, perché ad altri autori-illustratori esordienti è capitato di firmare contratti in cui perdevano ogni diritto d’autore e venivano pagati “niente” come anticipo + 5% dopo le prime 3000 copie vendute (cioè “niente” MAI, perché prima che un libro per bambini venda 3000 copie in Italia passano i decenni).
    Se agli esordi avessi detto “ah, senza un contratto non inizio neanche a mettere la matita sul foglio” (e sarebbe stato giusto, forse) non sarei mai arrivata a fare il mestiere che faccio. Ora non mi capita più che me lo chiedano. Giusto? Sbagliato? Non lo so, ma penso che faccia parte del gioco. Non è l’editoria, è il mercato del lavoro. Vogliamo dire quanti architetti/grafici/giornalisti/avvocati/operai/etc vengono fatti lavorare semi-gratis, o senza contratti, perché sono agli inizi di una carriera?

  17. @davide l.Malesi: Se ho capito bene, in questo caso l’editore, prima di confermare il contratto e la pubblicazione del libro, chiedeva all’autore di assicurargli, con un po’ di lavoro previo di contatti, che si sarebbe potuta vendere qualche copia del libro (un libro di poesie) su Roma. Se l’ok del comitato ci fosse stato, non mi sembra così grave gravissimo che l’editore volesse assicurarsi un po’ di mercato su Roma, prima di decidere di pubblicare il libro, soprattutto se è vero (come dice l’editore) che l’autrice si era, a parole, impegnata in tal senso.
    Non è stato, ma poteva anche starci che editore e autore, vista la particolarità del prodotto, si fossero messi d’accordo, prima di pubblicarlo, per vedere se si riusciva a venderlo. Sicuramente è mancata chiarezza tra le parti. Ma “in sé” non mi sembra un caso di abuso.

  18. Cara Anna,
    sono Isabella. Mi sono tirata fuori dalla discussione ieri NON perché non avessi nulla da dire, piuttosto perché venendo omessi dall’editore dettagli determinanti e essendomi trovata più volte a dover specificare passaggi rilevanti, dopo un po’ mi sono… stufata? Sì. Perché già per me non è così facile e divertente essere in un dibattito in questo modo (da diversi anni lavoro nel settore e non sono – questione caratteriale- un animo battagliero e polemico per indole. Mi è però sembrato doveroso, rispetto a quanto sto investendo di me stessa nel settore, con fatica e perseveranza, rendere pubblico un comportamento poco professionale. La professinalità un editore la dovrebbe mostrare nell’interagire con un grande nome, ma anche nell’avere a che fare con con un collega, o con un autore qualsiasi.
    Detto questo mi scoccio e non ho voglia di perder tempo a disquisre con chi scrive solo ciò che gli fa comodo. La trovo una discussione inutile e priva di contenuti. Ecco qui, che, ieri dopo vari tentativi qui e su fb ho lasciato che fosse lui con le sue infinite contraddizioni a lasciar trapelare la verità. Per il resto: non c’è nessuna guerra da parte mia nei confronti della casa editrice chiamata in causa, figurati!, c’è stato e c’è solo il rispetto per il mio lavoro e la mia persona. Il resto francamente può essere o meno uno spunto di riflessione per autori che si possono trovar ein situazioni simili e per gli editori che lavorano seriamente senza inciampare stupidamente in comportamnti sconvenienti.
    Sarebbe stato praltro notevole sentire il parere di editori che sono lontani da certe dinamiche editoriali e, allo stesso tempo, tutti quegli autori (lavorano nel settre e ne conoscoa bizzeffe) che si lamentano ma poi… poi stanno zitti perché tutto sommato preferiscono essere pubblicati, in qualsiasi modo anche da stampatori che si fingono editori, pagando e poi prendendosi le loro 100 copie. Francamente credo che scegliere di essere qui a parlarne è semplicemente l’espressione del modo in cui ciascuno di noi, vorrebbe (condizionale, necessario) pubblicare. E la foga e il desidero possono essere anche a livelli massimi, non devono prescindere dal modo in cui però questo si vorrebbe realizzare. Non tutti sono disposti a. Si può anche rinunciare a un certo punto. E molti che non sono interventi, soprattutto gli autri che poi si lamentano, ma dovrebbero essere in futuro essere abbastanza onesti da star zitti percHé questa era l’occasione per sentire i vari interessati alla questione. Evidentmente chi si defila è anche percHé preferisce farsi prendere in giro.
    ed ecco allora perché esiste certa editoria: perché tutto sommato esistoni certi autori.
    Ad ogni modo pur essendo fuori da questa discussione, son più che aperta al dialogo anche privatamente. Non so se poso farlo, ma invito Loredana in caso (e mi scuso se non potevo arlo) a cancellare questa parte di commento: mi trovate anche su fb e in privato isabella.borghese@gmai.com
    grazie!

  19. Fiaccato dalla lettura dei 200 e passa interventi potrei non aver capito bene. La questione autore che si presta o non fa promozione: Transeuropa quindi non avrebbe mai pubblicato Salinger o Pynchon ed avrebbe avuto anche problemi con McCartey. O non ci ho capito nulla?

  20. Il link di Luca Moretti di Terranullius non fa che confermare quanto in fondo:
    OGNUNO HA L’EDITORE CHE SI MERITA. Altrimenti qui si sarebbe riempito di autori e invece? invece siamo solo NOI!, per lo più.
    Caro Stefano, se Pynchon fosse stato mio fratello e viveva con me oggi, forse a lui avrebbero proposto di preparare la piazza su Roma o no?, ma Pynchon credi abbia bisogo di un promotore? di esser spostato al verano con orgnizazione di reading e aperitivo al cimitero?
    Credo di no! 🙂
    Ci sono autori che “fanno da traino”e quelli che devono farsi conoscere, per interesse proprio, ribadisco. la casa editrice è un marchio. rappresenta l’autore NON viceversa. NON viceversa!

  21. @AnnaC. ti faccio una domanda che oltre le questioni della dignità del lavoro, di qualunque tipo, è quella che m’interessa di più: tu compreresti un libro sapendo che è stato pubblicato non perché buono ma PREVALENTEMENTE perché il suo autore ha “preparato la piazza” alla casa editrice che l’ha pubblicato?
    Come mai tutti a lamentarsi che vengano pubblicati libri ignobili perché scritti da gente dello spettacolo (che in molti casi almeno non si vantano di fare “letteratura” o “ricerca”) o da personaggi a diverso titolo e che per questo stesso fatto “preparano la piazza” alla vendita del libro (ma loro un contratto ce l’hanno, eh), e quando una cosa simile si paventa per un editore piccolo – e astraiamoci dal caso specifico, che chi ha voluto l’ha capito, chi non ha voluto non è a suo agio con la realtà quanto meno e con l’obiettività – parliamo di comprensione, sostegno, fiducia, collaborazione, unione di sforzi, e tutte queste belle cose che ci fanno sentire così colti, così superiori al bieco materialismo, così parte di un’elitè che non deve pagare conti o bollette, anzi che deve, ma se ne frega in nome del sacro fuoco dell’arte?
    [Vado leggerissimamente offo topic anche io: in un’altra vita ho lavorato in un call center e gli ho fatto causa; ho lavorato per una società di consulenze legali e ho rinunciato a uno stipendio che era almeno il triplo di quello che guadagno adesso quando, ho visto che era diventata una società di consulenze illegali e cominciavano a chiedermi cose turpi, non gli ho fatto causa solo perché non ho fatto in tempo a fotocopiare degli atti compromettenti e a stamparmi i mieri archivi e quindi non avevo prove. Dire che il mondo del lavoro è così e accettarlo supinamente, è uno schifo e forse uno se lo merita che sia così perché è il primo ad avallare questo stato di cose.
    Consideravo l’editoria e il mondo dei libri in genere un posto nobile a 15 anni, presto e sicuramente da quando ci lavoro dentro a diversi livelli, ho avuto contezza che la gente è sempre la stessa in ogni luogo e qualsiasi cosa faccia per vivere, solo che almeno altrove non va in giro a sbandierare una superiorità morale che non ha].
    E ora non parlo più di Transeuropa, mi pare chiaro, anche perché mi riferisco a chi sta dall’altra parte, autori, lettori, operatori editoriali, parlo in generale di un atteggiamento, una mentalità, un approccio che è condiviso e diffuso in ogno campo e lo ripeto, fa schifo.

  22. Ho seguito la vicenda sia su FB che qui.
    Sono fortunata: il mio editore, che è piccolo, e non a pagamento, è sempre stato corretto e chiarissimo nei miei confronti. Sin dall’inizio il nostro rapporto è stato contrattualizzato, ma da nessuna parte c’è mai stato scritto che DEVO organizzare e/o partecipare a presentazioni (che comunque faccio, perché mi piace, perché m’invitano, perché m’interessa il contatto diretto con i lettori). Ho partecipato anche a fiere in tutta Italia, per il piacere di farlo e non perché la mia pubblicazione era subordinata a questo.
    Il tono e i modi utilizzati dall’editore nella vicenda da cui è scaturita questa discussione non mi piacciono. Per qualche copia in più da vendere (forse) a Roma è stato compromesso il rapporto con un’autrice e (ex) amica, e questo, oltre ad essere sgradevole dal punto di vista umano, denota una scarsa considerazione per il lavoro degli scrittori, trattati alla stregua di questuanti, mentre, è bene ricordarlo, senza le nostre storie da pubblicare nessuna casa editrice potrebbe esistere, né grande né piccola.

  23. @Seia:
    il mio nobile virgolettato era naturalmente ironico, non vorrei tu avessi capito il contrario… detto ciò, molto spesso le persone non hanno gli strumenti per difendersi da certe situazioni in ambito lavorativo… il problema è quando ci si trova sotto ricatto, quando di scelte non se ne hanno… chi può scegliere e non lo fa, è certamente connivente…

  24. Col “sacro fuoco dell’arte”, a volte, ci si può scottare e questo pare che a molti sfugga.
    Io non vorrei che tutto questo ribrezzo per certe dinamiche editoriali e ancor più promozionali, tutta questa smania savonarolesca, non nasca dal livore che resta dopo che un miraggio (vedere il proprio nome e cognome sulla costa di un libro) va in fumo – ecco che ritorna il “sacro fuoco dell’arte”! – e ci si ritrova con un pugno di mosche.
    Ecco, non vorrei che centinaia di queste parole non siano altro che un ronzìo di mosche.
    Conosco parecchie persone appartenenti alla seguente tipologia: l’editore mi dice che vorrebbe pubblicare il mio libro e mi chiede delle cose e io allora, sentendo già il fruscìo di quelle pagine, calo la testa a quello che mi propone come contorno; poi il comitato di lettura di quella casa editrice boccia il mio libro, io fiuto la cosa e ci sto male, malissimo, sento ancora quel fruscìo nelle orecchie, e allora salgo sopra il pulpito per scagliare i miei anatemi contro quell’editore e trasformando una questione privata in qualcosa di generale: l’editoria a pagamento, lo sfruttamento degli autori e via discorrendo.
    In parole povere, poverissime: tu tiri acqua al tuo mulino e io ti aiuto perché così anche il mio mulino tira acqua, poi il tuo mulino non vuole più tirare acqua insieme al mio e io allora sai che faccio? prendo torce infocate e chiedo aiuto ad altri – con altrettante torce infocate – per ridurre in cenere il tuo mulino traditore.
    Torce infiammate dal “sacro fuoco dell’arte”, ovvio.

  25. Non mi pare questa la circostanza, Roberto, ma non o se hai seguito bene il tutto dal principio. dal mio status us fb. anche perché mi è stato di pubblicare con loro dopo che ho consegnato i testi, non mi è stato detto di aspettare che il comitato leggesse.
    ora l’editore qui dice altro. ma ho delle mail ben diverse che non posso tuttavia pubblicare senza il suo consenso.

  26. @Seia cara, io davo per scontato che si parlasse di un libro di poesia di buona qualità. Se fosse un libro scadente ti do ragione in tutto.
    Penso che tu e Isabella Borghese abbiate aperto questo dibattito perché siete convinte che qui sia in gioco il commercio della qualità a dispetto del commercio del libro come “prodotto di mercato” al pari di un contenitore tupperware da vendere porta a porta, è così?
    Se diamo per scontato che il libro sia di qualità, non trovo così sconvolgente che un editore possa essere interessato la fatto che un autore esordiente abbia una buona rete di contatti.
    Stiamo parlando di libri (cultura), va bene, ma stiamo anche parlando di un prodotto che deve vendersi per poter esistere. Se il libro non vende non ci guadagna né l’autore né l’editore.
    Se tu fossi un piccolo editore e avessi due libri di poesie da pubblicare, uno di uno sconosciuto sconosciuto, uno di uno sconosciuto con contatti, a parità di qualità, quale sceglieresti? Ripeto: a parità di qualità. Tireresti a sorte? Sceglieresti col cuore? Qualsiasi imprenditore sensato sceglierebbe qualità + carnet d’adresses
    Questo non vuol dire che lo stesso editore non possa, parallelamente, pubblicare altri tre libri di perfetti sconosciuti perché belli.
    Oggi nessun editore si sognerebbe di rifiutare un tomo di 2000 pagine di Tolkien, ma quando Tolkien era un perfetto sconosciuto Vittorini stesso, in Einaudi, non si sentì nella posizione di rischiare. C’entrava la qualità? Non lo sappiamo. Forse c’entrava di più che Tolkien fosse un perfetto sconosciuto. Quanti capolavori di geni della letteratura debuttanti sono stati rifiutati perché gli editori non si sono sentiti in misura di rischiare? Questo perché qualsiasi editore, grande e piccolo che sia, deve fare i conti con il calcolo di un rischio economico, prima che eleggersi a paladino della diffusione della cultura “per se stessa”. Può farlo, ma non con tutti i titoli del suo catalogo, se no chiuderebbe bottega dopo due giorni.
    Io contesto all’editore in questione la promessa del libro basata su non si sa cosa, visto che il comitato di lettura non aveva ancora dato l’ok. Ma sul fatto che si chiedesse all’autrice una collaborazione per promuovere il suo libro, ripeto, non lo trovo così assurdo. Il fatto che la si chiedesse prima che ci fosse stato un contratto non sarebbe stato così scorretto (perché anche quello verbale è un contratto) se l’editore non si fosse tirato indietro, mancando alla parola data. In un altro scenario, più pacifico, Isabella Borghese avrebbe potuto cominciare a promuovere il suo libro a Roma, poi arrivava il contratto e il libro pubblicato. Sarebbe stato così “terribile”?
    Il carnet di contatti di un esordiente non deve essere una condizione sine qua non per la pubblicazione, non voglio dire questo, ci mancherebbe, ma che possa essere un aiuto nel lanciare un libro in un mercato difficile come quello della poesia, perché no?
    @ISABELLA: grazie per la tua gentile risposta.

  27. Non si trattava di poesia ma di una raccolta di racconti.
    Ho sempre ribadito e questo soprattutto perché è ilmio lavoro e chiaramente anche il MIO interesse, che la mia rete di contatti e anche il mio impegno sarebbe stato messo a disposizione.
    aggiunerei , e questo possono peraltro confemarlo le persone con cui collaboro che sono una persona che si dà da fare (mentre l’editorenon ha fatto altro che parlare di disinteresse. peccato! che il carteggio non possa parlare!), anche perché commistionare la passione al lavoro permette inconsciamente di spederci maggiore lavoro. spesso senza accorgersi che è domenica o sabato pomeriggio o natale.e questo dovresti saperlo anche tu.
    concedimi però che non ricevere il contratto, scoprire che da gennaio sei scalata a maggio, che l’editore non prescinde (e non l’ha mai detto né scritto prima da nessuna parte) la tua pubblicazione da quello che potrai fargli su roma da qui a maggio… be’, è ben diverso, o no?
    una furbata che fa girar le scatole anche a una persona paziente, collaborativa, e pacifica come me. forse anche di più perché le prese in giro attuate tra colleghi non sono affatto intelligenti e ancora più fastidiose.
    organizzare reading, presentazioni, workshop, corsi di scrittura il sabato e la domenica, cercare posti, parlare con i proprietari… non è un dispendio di tempo elevato? non è lavoro?

  28. @Anna C., scrivi: “Se ho capito bene, in questo caso l’editore, prima di confermare il contratto e la pubblicazione del libro, chiedeva all’autore di assicurargli, con un po’ di lavoro previo di contatti, che si sarebbe potuta vendere qualche copia del libro (un libro di poesie) su Roma”.
    A quanto ne so, si tratta di racconti. Ma tu questo come lo chiami, se non scaricare sull’autore una parte del proprio rischio d’impresa?
    Se un editore volesse “assicurarsi un po’ di mercato su Roma”, deve delegare tale attività a promotori culturali e rappresentanti commerciali, non agli autori (nulla vieta a un autore di ricoprire questi incarichi, ma si tratta di attività distinte da quella autoriale, che vanno retribuite a parte).
    Un esempio concreto. Attualmente, una delle mie maggiori fonti di reddito è la consulenza che faccio per INPS in merito al rinnovo del comparto comunicazione web (tra poco il sito INPS verrà rinnovato nella grafica e nella comunicazione). Ora, immagina che INPS mi avesse detto, PRIMA di mettermi davanti il contratto di consulenza: “Sì, però la consulenza non si fa se prima di tutto non ci procuri un aumento di traffico sui nostri siti”. Ti sembra un discorso corretto? Secondo te, come avrei dovuto rispondere?
    Intendiamoci: è chiaro che un editore può benissimo accordarsi con ciascun autore per contrattualizzare gli aspetti legati alla promozione (presenza alle presentazioni del libro, a eventi promozionali etc.). Ma ciò va fatto a fronte di un contratto. Se davvero un editore tiene a garantirsi la cooperazione dell’autore in tal senso, può farlo legalmente, ed è cosa perfettamente deontologica (rientra nel campo della tutela degli investimenti).
    Diverso è subordinare la pubblicazione di un libro a una attività promozionale a favore della casa editrice, quando il contratto per il libro non esiste ancora. Ciò significa dire: “Tu intanto lavora (gratis, s’intende) per noi, poi magari ti pubblichiamo”. Questo ti sembra sano e corretto, sul piano deontologico?

  29. A me, che non sono su Facebook e non posso quindi seguire i mirabolanti scambi di insulti sulle varie bacheche, e che ho letto semplicemente articolo e commenti, sembra che si stia riproponendo il solito, odioso cliché dell’imprenditoria “all’italiana”. Ovvero: ti faccio lavorare ma rischi anche tu con me.
    Da quel che ho capito: 1) l’editore accetta di pubblicare dei racconti 2) il suo stesso comitato editoriale boccia il libro 3) l’editore si dice disposto a pubblicare purché l’autrice curi promozione e cose varie nella sua città.
    A mio parere, il punto 2 avrebbe dovuto bloccare la catena. Il punto 3 serve non solamente all’autrice, alla quale forse un rifiuto sarebbe stato più “utile” dal punto di vista della scrittura, quanto all’editore per cercare un radicamento a Roma.
    C’è differenza tra essere disponibile a presentare il proprio libro e diventare pierre di sè stessi, e non mi sembra corretto vincolare a questa “disponibilità” la pubblicazione del testo. Se l’editore è il primo a non crederci, che non lo pubblichi.
    Quello che un po’ mi infastidisce è il tono da “così fan tutti” che ho letto in alcuni commenti. Sempre la solita storia. Quando il lavoro di qualcuno viene sfruttato da chi è in posizione di potere (leggi imprenditore), molti chinano la testa. Chi non lo fa e cerca di smascherare atteggiamenti poco limpidi, passa per frustrato o ingrato o persona non disponibile a dare una mano.
    Ne ho avuto datori di lavoro così, e ne ho ancora, che pensano che pagandoti uno stipendio ti possano fornire precetti morali, che investendo su di te stiano comprando la tua persona e non frazioni del tuo tempo.
    Pensavo che il rapporto editore/autore rispondesse a logiche differenti. Forse sbagliavo.

  30. @claudia b. e Ghelli: ah precarie menti, ci andrò se mi va, claudia, sempre un po’ aggressiva a sproposito, anche perché magari questo non è il posto adatto (ma perché? Hanno sciorinato tutto, so più della Borghese che di mia sorella, ormai).
    Per Simone: non credo che voi siate dei piagnoni, ho scritto semplicemente che ho l’impressione che vi sia del compiacimento nell’essere un po’ outsider, un po’ “chi non ci ama non ci merita”. Magari sbaglio. Qui chiudo e non perché OT (sinceramente è un disco rotto da molti commenti a questa parte), semplicemente sto diventando pleonastico in modo esagerato.

  31. JohnGrady: evviva! Dopo oltre duecento commenti siamo arrivati al punto. Questo è quanto intendevo sottolineare nel post: non crocifiggere un singolo editore, non immischiarmi in una faccenda privata, non condurre una campagna da moralista in sandali.
    Semplicemente, far notare che quando ci si indigna per quanto avviene in altri ambiti, non ci si rende conto (o non ci si vuole rendere conto) che lo stesso meccanismo viene replicato in ambienti ritenuti immuni.
    Questo, e non altro. Grazie.

  32. Errata corrige:
    Non:
    1) l’editore accetta di pubblicare dei racconti 2) il suo stesso comitato editoriale boccia il libro 3) l’editore si dice disposto a pubblicare purché l’autrice curi promozione e cose varie nella sua città.
    Ma:
    1) l’editore promette [cit. danae: ” si dice una parola di più…”] di pubblicare dei racconti per inserire nella sua compagine un autore (inserimento sia professionale [organizzazione di eventi, promozione, corsi] sia autoriale [l’editore dice: L’avrei accompagnata in una crescita come scrittrice e come redattrice, fermo restando l’avallo del comitato] 2) il suo stesso comitato editoriale boccia il libro, contestualmente al passo indietro dell’autore rispetto a un impegno professionale 3) il libro non viene pubblicato

  33. gli editori, se hanno un comitato editoriale, non dovrebbero consultarlo PRIMA di invitare un autore a pubblicare dicendo che riceverà il contratto? e vautare l’operaa prescindere dall’utilità in loco?
    e tutto questo avviene in un arco temporale che va da marzo 2010 (pporsta di pubblicazione) a dieci giorni fa.
    FIRMA: isabella, ma puoi chiamarmi pure Non sono una cretina e in molti non lo siamo

  34. A questo punto mi sembra che proseguire sul singolo caso sia inutile: mi sembra che sia Milani-non sono carlo ginzburg- jean valjean sia Isabella Borghese abbiano espresso le loro posizioni.
    Per quanto mi riguarda, sono state efficacemente sintetizzate più sopra. Direi di chiuderla qui.

  35. Chiosa inutile: Scorrendo il post concordo sul fatto che jean valjean fosse Milani. Io però ho la certezza di non esserlo.

  36. Ho dato uno sguardo alla piu’ volte citata lista di editori proposta da Ayame (Writer’s Dream).
    Ci sono alcune inesattezze su chi è “a pagamento” e chi no: Crocetti per esempio propone / richiede, in certi casi, l’acquisto copie (ma quello di Crocetti sarebbe un discorso più lungo); Fara, benchè a pagamento (non lo sapevo!), ha un catalogo in buona misura degno di interesse; Manni ha una collana a pagamento, che usa però per finanziare le operazioni culturali “vere” (l’edizione completa delle poesie di Edoardo Cacciatore per esempio, che molti teorici del mercato autoregolantesi, in questo thread, immagino non abbiano mai nemmeno sentito nominare).
    Altre precisazioni si potrebbero fare.
    Più in generale, però, va davvero ricordato (già lo faceva più sopra Gilda Policastro) che l’acquisto copie, per la poesia e le “altre scritture” contemporanee è, benchè non obbligatorio, quasi la norma nonchè una delle poche vie per la sopravvivenza delle scritture stesse (la necessità di un investimento personale per diffondere e far vivere il proprio libro, poi, mi sembra del tuttto ovvia).
    A chi se ne scandalizza, potrei chiedere quanti libri di poesia contemporanea (quella buona, se possibile) abbiano comprato negli ultimi tempi. Quanto cioè si siano impegnati per permettere al piccolo editore di non ricorrere a questi sistemi.
    A questi stessi chiederei quanto sono coscienti di come le scritture-limite siano o debbano essere la linfa nutritiva di qualunque sistema letterario sano, soprattutto per gli scrittori, qualunque sia il tipo di scrittura da loro praticato.
    *
    Piccola chiusa (semi)-scherzosa: Nazione Indiana ha lanciato una collana cartacea, chiamata Murene, di cui uno degli obiettivi è appunto il tentare di contrastare certe difficoltà del mercato librario italiano.
    http://www.nazioneindiana.com/tag/murene/
    A chi mi chiede (mi capita abbastanza spesso) perchè non pubblichiamo anche autori italiani, d’ora in avanti risponderò citando questo thread.

  37. @Vincent, vediamo un po’:
    “ci andrò se mi va”: infatti ho detto “se vuoi”, che vuol dire esattamente se ti va. Gli inviti, per quanto ne so, si accettano se si ha voglia.
    “sempre un po’ agressiva”: magari specifica in che occasioni, visto che non mi pare di averti mai incontrato né in rete né fuori.
    “a sproposito”: se “caporalato intellettuale” ti sembra un’espressione da poter utilizzare con tanta leggerezza nei confronti del contesto intellettuale contro cui ti sei scagliato sulla base di un pregiudizio, è possibile che ti sfugga il concetto stesso di opportunità.
    Reitero in ogni caso il mio cortese invito a prendere visione dei materiali che pubblichiamo, e – solo poi – ad esprimere un giudizio.

  38. Trecento commenti!
    Me li sono letti (quasi) tutti, e ci ho capito pochissimo. O meglio, ho capito che di tutte le discussioni lunghissime e potenzialmente infinite che si sono fatte da quando esistono i lit-blog, questa si sarebbe potuta risolvere in una secchissima frasetta, e cioè: L’editore X pubblica un libro solo se gli piace (e per “piacere” si intende: se lo trova di suo gusto, se pensa che possa avere un pubblico, se si sente in dovere di investirci del denaro, se ritiene che quel libro vada stampato, distribuito, letto e criticato); e se gli piace, non essendo egli un TIPOGRAFO ma appunto un editore, fa di tutto per promuoverlo. Che poi, dire che contribuire a questo “tutto promozionale” sia anche, se non soprattutto, nell’interesse dell’autore di quel libro (che su quel libro ci ha buttato anni, tempo, sudore e fidanzate che lo hanno lasciato) ci porta immediatamente nel campo noiosetto di Monsieur Lapalisse.
    Poi, se si vuole, possiamo discutere di che cos’è, questo “tutto promozionale”. E anche in questo caso, è OVVIO che un autore DEVE e VUOLE partecipare alle presentazioni in libreria, DEVE e VUOLE rilasciare interviste ai giornali o alla radio o alla televisione ecc. Molto meno ovvi e assai più preoccupanti gli altri casi (pubblicazione a pagamento, contributo alle spese di stampa, distribuzione e vendita porta a porta – comprensive di stalking verso amici e parenti . delle copie del suo libro…).
    E, attenzione, si badi bene che NON esiste la differenza, in questo caso, tra editore grande, editore medio ed editore piccolo. NON l’ha detto il medico che il piccolo editore deve fare per forza dieci o trenta o cinquanta titoli in un anno. Ma se li fa, li fa perché gli piacciono e perché ci crede (che poi quei libri, una volta stampati e distribuiti e promossi, possano passare del tutto inosservati e finire al macero, o viceversa trasformarsi in uno strepitoso successo di critica e vendite, è un altro paio di – inconoscibili – maniche). Stop.

  39. Ho ricevuto in questi giorni un numero non trascurabile di mail e messaggi privati sul tono “ah, se potessi parlare”. Bene, rispetto il desiderio di anonimato altrui, ma la corrispondenza – riferita a non una sola casa editrice – conferma che esiste una prassi. Che non è, evidentemente, quella della legittima richiesta di rilasciare interviste o fare presentazioni a cui l’autore, nella stragrande maggioranza dei casi, aderisce volentieri (dico stragrande maggioranza perchè esistono anche autori schivi, e vanno ugualmente rispettati).
    La prassi esiste e, come dice giustamente Piero Sorrentino, non esiste differenza fra editori: grandi, medi o piccoli. O meglio, l’unica differenza che intravedo è che se una simile discussione si fosse riferita, che so, a Mondadori, si sarebbero levate molte voci indignate.
    Questa mattina, in una lettera a Repubblica, Alberto Arbasino ha scritto questo:
    “«La scrittura non paga». Certamente appare puntuale il sopratitolo «In Italia, vivere di sola lettura è un lusso per pochi eletti»: l’altro giorno, in “Cultura”. Ivi, però, non si tiene conto di alcuni fondamentali fattori: la smisurata richiesta di lavori gratuiti. Unica, in ogni categoria culturale e artistica. E insieme, ecco la sconfinata vanità di molti autori, per farsi pubblicità, e apparire a qualunque costo. Ma a questo punto, le ore lavorative nella giornata dovrebbero essere il doppio o il triplo. E si tratterebbe di lavoro nero? ”
    Unica, in ogni categoria culturale e artistica.
    Allora: dal momento che in molti, qui, sostengono che si ricorderanno di questo thread e lo citeranno, mi associo. Me ne ricorderò anche io, certo: tutte le volte che si parlerà di etica e letteratura.

  40. Loredana, torno ora a scorrere il thread, dopo una necessaria pausa di riflessione: ma perché si continua a parlare di “cattiva pratica” di questo specifico editore, quando gli altri autori che hanno pubblicato nella medesima collana ci hanno dettagliatamente chiarito in questa discussione che le condizioni di pubblicazione, nel loro caso, sono state assolutamente trasparenti? Perché questa retorica dell’attacco e insieme della difesa della giusta causa, di fronte a un errore isolato (ammissibile?) o a un’incomprensione evidente tra le parti? E dunque se quello discusso qui è stato un episodio singolo, deprecabile o meno, come chiedeva Matteoni sopra la discussione dovrebbe spostarsi su un terreno di necessità più ampio, e coinvolgere le responsabilità di ciascuno, anche della critica e della stampa, nella scarsissima ricezione e promozione della poesia. ”Anche i poeti si vendono” diceva Manganelli quarant’anni fa. Oggi i poeti se non si leggono tra di loro (dice bene Francesca, a partire dai colleghi di collana) e non si autopromuovono con passione assolutamente non corrisposta (dal mercato, figurarsi) fatalmente spariscono. Ricordo la meritoria impresa di Parola plurale, antologia della poesia a cavallo fra Novecento e anni Zero, su cui nemmeno un editore come Sossella si è sentito di investire, se non si trova più da nessuna parte. Per tacere dell’ottima collana Arte poetica, dello stesso editore, chiusa dopo pochissimi titoli.
    Io personalmente di fronte a questa prospettiva sono disposta a non fissarmi sul singolo errore o misunderstanding (perché altri ne potrei raccontare, ma la percezione complessiva della questione non muterebbe), e siccome non mi sembra di essere particolarmente indulgente o incline al compromesso, forse dietro l’intransigenza di alcuni tra i più accaniti partecipanti alla discussione c’è soprattutto (temo) noncuranza delle sorti della poesia. Nec miror.

  41. Gilda, personalmente non lego le sorti della poesia alla richiesta di lavoro gratuito. Credimi, quello che mi interessava quando ho postato questa vicenda era cercare di capire cosa stia accadendo nell’ambito del rapporto autore-editore e nell’ambito del lavoro intellettuale.
    Poi, che ci sia disattenzione generale nei confronti della poesia è vero. Mi piacerebbe anche, però, capire perchè. Al di là delle risposte più immediate.

  42. Mi intrometto per dire una cosa tangenziale che però mi sembra pertinente.
    In uno dei primi commenti, Gilda Policastro scriveva che il suo «libro Il Farmaco edito da Fandango lo scorso 16 settembre non è stato affatto ”recensito ovunque”, ma su alcune sedi preselezionate dall’editore».
    Io non sono sicura – provando a guardare la vicenda dall’altro lato, quello della redazione giornalistica «preselezionata» – che la pratica così schematizzata:
    a) l’editore «pre-seleziona»; e
    b) il giornale recensisce (mi pare di capire che lo faccia senza colpo ferire; ma se non è così chiedo scusa),
    sia espressione di una modalità «sana» di relazione fra case editrici e giornali. Non ne faccio colpa a nessuno, per carità.
    Ma io ero rimasta ferma al punto che un giornalista recensisce se gli pare il caso di farlo, e non perché una casa editrice ha «pre-selezionato» il suo giornale o il suo giornalista.

  43. Federica, credo che il concetto di pre-selezione si riferisca alla pratica per cui:
    – l’ufficio stampa (dell’editore) invia un certo libro a una testata giornalistica,
    – contatta la redazione di una testata per sollecitare che venga recensito.
    Questa è una pratica assolutamente comune. Non mi sembra nemmeno deontologicamente scorretta: la redazione rimane libera di recensire il libro oppure no, aldilà della sollecitudine degli addetti stampa di questo o quell’editore (peraltro, nessuno può garantire che la recensione sia positiva).

  44. Che poi esistano “accordi di massima” tra testate/recensori e autori/editori per recensire un certo libro la cui uscita è imminente, nemmeno questo mi par scandaloso: lo sarebbe solo nel caso di “commercio” di recensioni positive – che talora, purtroppo, si verifica. Naturalmente a scapito della credibilità del recensore e, di riflesso, dell’autore e del libro: se uno si fa recensire sistematicamente dagli amichetti suoi, e questi gridano al capolavoro acriticamente ogni volta, passerà giustamente per peracottaro, lui e amichetti annessi.

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