Anche noi lettori forti riusciamo a leggere con difficoltà, come raccontavo ieri sera su Facebook. Credo che sia più che naturale, credo anche che sia passeggero (anche se prima o poi occorrerà riflettere su cosa accadrà nel mondo dei libri: prima o poi). Però c’è una cosa che riesco a fare: scrivere. Ma non scrivere professionalmente. Ogni tanto pilucco il romanzo, resisto anche all’idea di “aggiornarlo” con quello che avviene (anche qui, prima o poi, non ora), lo limo, cancello, aggiungo.
Parlo della scrittura semplice, quotidiana, personale. Non date retta a chi, ciclicamente e fin dal primo giorno, esterna il proprio orrore sui venturi romanzi del coronavirus. Non pensateci. E non pensate a pubblicare, ancora una volta prima o poi. Scrivete per voi, perché fa bene. Perché è umanissimo.
Così avviene nella grande peste nera del Trecento, quando le campane non suonano più, e i cronisti seppelliscono da soli i figli, e intanto aggiornano le cronache, e persino c’è quel monaco irlandese, John Clyn, che è l’unico sopravvissuto e che, morente a sua volta, spera che al mondo sia rimasto almeno un uomo in grado di raccontare. La peste nera uccise i cronisti, e Giovanni Villani a Firenze muore a metà di una frase, e i medici e i sarti e i notai e i cardinali, tutti. Venticinque milioni di persone uccide la peste nera, un terzo degli abitanti d’Europa. E’ Dio a mandarla, diranno. Poi Dio si acquieta.
Questa non è la peste nera, ma raccontare bisogna. Per stare meglio. Per fissare le parole, quelle stesse parole che sembrano vagare senza che riusciamo ad afferrarle: presa una, però, dietro vengono tutte le altre.
State bene, sempre.
Che dire, poche parole che valgono una vita. Grazie!
Era recluso con la famiglia al quarto piano da quindici giorni e sorrideva mentre saliva le scale. Pensava a quando imprecava in passate sere stanche, sulla scelta di un palazzo senza ascensore , perché semmai ci fosse stato un ascensore in quel condominio, in quei giorni non l’avrebbe preso. Il balcone dove si affacciava alle sei della sera era dietro il complesso del santuario, con due enormi parcheggi , dove attraccavano flotte d’auto di fedeli; specialmente la domenica, quando il numero delle messe sembrava quello dei banchetti di un mercato. Si scorgeva la solita famiglia a duecento metri, forse trecento, abbastanza per non vedere bene i visi e sentire ancora peggio le voci che arrivavano in ritardo , come se passassero attraverso un satellite. I frati, quelli c’erano sempre, con il loro impianto stereo che facevano gracchiare d’estate durante il “grest ” , ma i restanti poggioli deserti. Partirono Al Bano e Romina e poi loro nove. “Felicità, è mangiare un panino…” tutti fuori tempo, mezzi stonati . La sua famiglia non sapeva i nomi dell’altro nucleo familiare e pensava che prima o poi potevano scambiarsi le generalità, da buoni vicini. Si senti arrivare un “signore.. signore..?” “Roberto ! Mi chiamo Roberto!” Gridò frettoloso attraverso le mani. “Ma che ce freegaaa, ma che ce impoortaaaa” Risposero i frati. E prima di girarsi fecero dei cerchi nell’aria, come per dire: “Domani” Quindi il balcone tacque per alcuni istanti. Poi sembrò piegarsi dalle risate.
Domani.
Oggi sarebbe stato anche il compleanno di mio suocero e che di anni ne avrebbe fatti 94. Ed è così che è iniziata la mia giornata, con lo sguardo puntato dritto negli occhi malinconici di mio marito, che, come te, ogni giorno scende “in trincea” armato soltanto di guanti e mascherina per raggiungere il posto di lavoro, che speriamo esisterà ancora alla fine di questo terrorifico film apocalittico.
Poi arrivi tu con le tue parole dirette e sincere che sempre riescono ad esprimere quello che nella mia mente resta solo un semplice abbozzo.
Forse un grazie non è sufficiente, ma è tutto ciò che in clima di coronavirus riesco ad esprimenti.