Parvenze di normalità. Cercarla, questa normalità, anzi, soprattutto quando hai la sensazione che il tempo e il mondo si stiano chiudendo su di te. Continuare a preparare le colazioni energetiche del nutrizionista (uova strapazzate con erba cipollina, spremuta d’arancia, caffè). Giocare con i gatti di prima mattina. Spiare i ciclamini dalla finestra. Vuotare portacenere (sì, lo so, state buoni, un’altra volta, eh?). Ricordare che oggi mia madre avrebbe compiuto 97 anni. Ricordare che è la festa del papà e non la celebri da 34 anni. Guardare gli angoli della casa che è stata dei tuoi genitori: gli angoli, perché è negli angoli che si celano i fantasmi gentili, l’odore del caffè del mattino che tuo padre portava a tutta la famiglia. Il modo in cui tua madre, davanti allo specchio del corridoio, passava due gocce di acqua di colonia 4711 sui polsi e dietro le orecchie. Respirare. Respirare. Piangere un po’. Respirare di nuovo. Ringraziare il gatto che proprio in quel momento ti dà due o tre capocciate sui polpacci, perché lui sa sempre tutto, e chissà come fa. Aprire Internet. Aprire Facebook. Bannare una decina di persone che vengono a scriverti che hai le mani insanguinate perché sei andata a fare la spesa e per di più esci di casa tutti i giorni (lavoro, gente, eh?). Chiederti che succederà, e se infine oltre che col virus dovremo vedercela coi cecchini alle finestre, perché il clima è questo, e se virtualmente puoi bannare, qualcuno che si mette sul serio a sparare dai balconi comincio ad aspettarmelo (io l’ho conosciuto, uno che sparava dai balconi: ai venditori di rose e di accendini, migranti, coi pallini. Poi si è lanciato da quello stesso balcone, qualche anno fa). Arrivare in radio. Prima procedura di disinfezione: via i guanti usa e getta, lavare mani, rientrare in stanza, rilavare le mani con gel, posare la mascherina visto che sono da sola, ormai, nella mia stanza. Poi arriverà la seconda procedura, in studio. Infilare di nuovo la mascherina. Lavare mani, infilare altro paio di guanti, prendere il liquido disinfettante per superfici, spruzzarlo su un tovagliolino, disinfettare microfono interfono tastiera mouse (clic!) cuffie piano di lavoro. Togliere i guanti. Lavare mani. Respirare respirare respirare. Ieri ho tossicchiato due volte: tosse da fumatrice, che ogni tanto durante le dirette si riaffaccia. Tranquillizzare gli ascoltatori che mandano sms preoccupati: fumo, a volte tossisco, è normale. Tranquillizzare me stessa per il mondo impazzito. Riuscirci, a volte, e a volte no.
E sempre, sempre, pensare a qualcosa di bello: novembre 2019, Kensington Park, la luce dell’autunno, il lago, gli scoiattoli, i cigni. E più vicino: le mie montagne, le roverelle che ora staranno rinverdendo, e poi i falchi gireranno in tondo, e ci saranno le nuove cucciolate, ci saranno i daini che si spingono verso il paese.
Resistere, sempre e sempre e sempre. Come abbiamo scritto con Massimiliano Coccia oggi sul Manifesto. La radio ha sempre fatto questo, da quando è nata. Vi voglio bene, ve lo ripeto ogni giorno, ed è quello che conta.
ti si vuole molto bene anche qui.
È proprio vero che é nella “sospensione” che si matura e si cresce. Fino a che corriamo con compiti a breve termine o peggio con obiettivi pratici di lavoro o di vita quotidiana, siamo agiti dall’esterno e non è il nostro io interiore l’attore. Qualcuno dice che si passano i primi 30/40 anni vita a capire chi siamo davvero. Forse per gente che si è sempre interrogata sul perché delle cose prima di farle…per gli altri no, a volte prende più tempo e a volte questa consapevolezza non arriva se non con una spinta. Consideriamo ciò che sta accadendo: la spinta, in un mondo divenuto immobile, ci obbliga a prendere posizione, ci fa capire che si può evolvere, si può migliorare come ci dice Mancuso, ci si può amare anche a distanza. Amare i genitori scomparsi anche attraverso i tanti oggetti lasciati. Io dormo nelle camicie da notte di mia madre, quelle di buon cotone grosso che aveva preparato per la sua dote e poi usate pochissimo. Vado per i campi col grosso cannocchiale di papà, cercando di avvistare gli uccelli che mi mostrava, che forse ora sono più rari o sono cambiati perché non li vedo più. Mi occupo del mio giardino e del mio orto come se fosse la prima volta ( anche perché sono in pensione da poco) e nutro aspettative esagerate, non tanto perché io sia brava ma perché spero sempre che anche per le piante funzioni come con i ragazzi, quando insegnavo. Più hai fiducia nelle loro capacità di apprendimento e più apprendono. È la profezia che si auto-avvera. Più li ami e più si sforzano di imparare. Così faccio con le insalate e con la vlita, che coltivo solo io nel mio paese perché l’ho portata da un’area remota, a sud di Creta, dove non ci sono turisti e negozi, dove da anni uso andare a perdermi e “fermarmi” con le mie mani. Diciamo che ora Xerocampos, così si chiama quel luogo, è arrivato dentro casa mia.
Resistere. Resistere al pensiero di accomunare quello che mettiamo in atto in queste settimane , alla malattia. Oggi avrei pensato a mio padre; non mi servono maschere ,guanti e starnuti nei gomiti per farlo, l’avrei fatto perché così era e lo sarà in futuro. Avrei pensato giusto a 17 anni fa, lui e mia madre in macchina sullo scivolo di casa ,in retromarcia per parcheggiare la vecchia Palio. Lui aveva messo un po’ di traverso l’auto senza entrare in garage e quindi ritornò su dalla discesa per rifare la manovra correttamente. La rifece svariate volte, su e giù , e ogni volta che risalivano vedevo i miei che ridevano a crepapelle e io e mia moglie con le lacrime agli occhi li guardavamo in quello che sembrava un gioco che loro non volevano finire . Mia mamma di solito scendeva dalla macchina e mio papà la parcheggiava da solo, quella volta invece rimase sopra come se fosse stato l’ultimo giro di giostra della serata, quindi da non perdere. Un mese dopo il biglietto staccato quella domenica di festa sarebbe scaduto, senza preavviso, una battuta delle tue, senza un saluto, mentre andavi a prendere il pane in bicicletta . Ciao pa’.
Un saluto.