SCRIVERE E' AVERE TORTO TUTTO IL TEMPO

Novembre 2012. Intervista di Nelly Kaprièlian a Philip Roth (traduzione di Simona Silvestris). Tenetela cara. Tenete cari i libri di Roth.
Giornata ventosa d’autunno newyorchese, Philip Roth, in splendida forma, ci accoglie nell’ampio appartamento dell’Upper West Side. Il suo libro più recente, Nemesi, ambientato in una Newark, anni 40, dove Bucky Cantor, giovane insegnante di educazione fisica e uomo esemplare, si dedica ai suoi ragazzi nel mezzo di un’epidemia di polio, è uscito due anni fa negli Usa, nel 2011 in Italia e poche settimane fa in Francia. Nel frattempo, in Italia come in tutti i Paesi occidentali, procede la pubblicazione delle opere di Roth in riedizione approvata: dopo Good bye Columbus (1959) e Quando lei era buona (1967) arriverà in tascabile da Einaudi I fatti: autobiografia di un romanziere (1988) e sarà il 22mo Roth sui nostri scaffali. Ma di nuovi romanzi, dall’autore di Pastorale americana non ne avremo più: “Nei prossimi dieci anni non ho intenzione di scrivere. Vi avviso, ho smesso. Nemesi è il mio ultimo libro”.
Decisione irrevocabile?
“E. M. Forster ha smesso di scrivere a 40 anni. E io che ho sfornato un libro dopo l’altro, non ho scritto nulla per tre anni. Ho preferito lavorare ai miei archivi da consegnare al mio biografo. Gli ho dato migliaia di pagine, memorie non letterarie e non pubblicabili così come sono. Non voglio scrivere le mie memorie, ma voglio che il mio biografo abbia il materiale per un libro prima della mia morte. Se muoio senza avergli lasciato nulla, con cosa comincerà?”.
Tra i suoi romanzi, Nemesi, che ha il respiro di un grande e bel testo metafisico sull’idea di caso e responsabilità nella vita di ciascuno, sembra in effetti quello dove rivela, più di tutti, la sua personale visione dell’esistenza.
“Nella vita è tutta questione di fortuna o sfortuna. Non credo alla psicoanalisi né all’inconscio che ci guida nelle scelte. Abbiamo solo la fortuna o la sfortuna di fare certi incontri che possono rivelarsi buoni o cattivi. La mia prima moglie, per esempio, era una delinquente – rubava in continuazione, mentiva… – se l’avessi saputo non l’avrei mai scelta, detesto i malviventi. Ma ecco, ho avuto la sfortuna di sposare una cattiva persona. Gli psicoanalisti direbbero che l’ho scelta inconsciamente: non ci credo, ma questo si ricollega in un certo modo al mio punto di vista secondo il quale, di fronte alla vita, siamo innocenti. In Nemesi il castigo è rappresentato dall’epidemia di polio, ma nel caso di Bucky Cantor, in realtà è causato dai suoi problemi di coscienza. Ciò che mi interessa in quanto scrittore, dopo Lasciarsi andare, uno dei miei primi romanzi, sono gli esseri umani con un senso estremo, molto radicato, della loro responsabilità. Bucky è un uomo che si misura solo attraverso la propria virtù, e ciò è molto pericoloso. La sua vita verrà rovinata non solo dalla polio, ma anche dalla sua aspirazione alla responsabilità totale”.
In che modo la polio ha attirato la sua attenzione?
“Prima di tutto per me è un tema nuovo, non ho mai scritto nulla a riguardo; poi perché ha significato molto per le persone come me, nate in America tra gli anni 20 e 30. La sua minaccia ci ha terrorizzato. È stato solo dopo aver scritto Nemesi che ho compreso il collegamento col mio romanzo Il complotto contro l’America: in entrambi i casi ho immaginato una tragedia che colpisce la comunità ebraica, dalla quale provengo, a Newark, negli anni 40. Nel caso del Complotto la minaccia è di mia invenzione (il nazista Charles Lindbergh diventa presidente degli Usa). In Nemesi la polio già esisteva, tranne che nel ’44 non vi è mai stata un’epidemia. E poi la malattia è la forma più estrema di sfortuna: arriva e non si può fare nulla”.
Al di là della sfortuna, ciò che le interessa è scrivere come un uomo reagisce a ciò che gli capita?
“Bucky sembra rovinarsi la vita rinunciando alla fidanzata, in effetti dato che lui vuole essere l’incarnazione della “responsabilità”, riuscire nella vita è rinunciare, anche se condanna alla solitudine. Ma non intendo giudicare questa reazione, voglio solo esaminarla. È così che contemplo il mio lavoro di scrittore: cosa succede di fronte a un’epidemia di polio? Il romanzo è fatto per porsi delle domande, non per dare risposte. Non scrivo libri filosofici. E quando si comincia a parlare di metafisica o filosofia, mi addormento (ride). Tutto ciò che mi interessa, tutto ciò che so fare, è raccontare una storia. Quando si parla in astratto ho l’impressione di avere dieci anni, non capisco più nulla e mi viene un gran sonno”.
Nei suoi ultimi romanzi la minaccia è una costante. Fino a che punto essere stato un bambino ebreo in tempo di guerra l’ha influenzata?
“Ho avuto un’infanzia molto protetta. I miei genitori non hanno mai divorziato, ho vissuto in una comunità ebrea al 99% e quindi non siamo stati toccati dall’antisemitismo. Certo, tra gli 8 e i 12 anni, il paese era in guerra e la cosa mi preoccupava molto. Tutte le generazioni che hanno vissuto la seconda guerra mondiale ne sono state segnate per la vita. L’altra minaccia reale era la polio: ogni estate, quando passavamo la giornata fuori ci parlavano della polio. Non ce ne importava nulla finché uno di noi ne è morto. Ma vede, non credo che il vissuto di uno scrittore abbia a che fare coi suoi libri”.
Allora cos’è che spinge a scrivere?
“Il desiderio di fare esperienza, il chiedersi “e se”? E se… succede questo o quello, cosa accade? Tutti i miei libri cominciano con quel “e se”? Per esempio: “E se un’epidemia di polio avesse toccato la mia comunità di Newark nel 1944?”.
Si vedrebbe scrivere “E se… quel genio sposasse una ragazza meravigliosa e vivessero felici?”. La felicità non è uno stimolo alla scrittura?
Ho già scritto un libro del genere! Anni fa, quando ho scritto Il professore di desiderio, volevo affrontare un tema molto comune, del quale però non si legge mai: due persone s’innamorano, si sposano… e poi cosa succede? Ebbene, il sesso sparisce, la sessualità muore. Il matrimonio è la via che porta direttamente alla castità. Ecco, ho cominciato a scrivere Il professore di desiderio su una situazione felice, ma che conduce a un problema vero.
Un problema autobiografico?
Troppo semplice credere che uno scrittore non scriva delle cose che gli accadono. La maggior parte del tempo scrivo di quel che mi succede perché sono curioso. Uno scrittore può essere attirato da temi molto lontani dal suo universo. Quel che conta è ciò che gli fa scaturire l’onda creativa, ciò che gli genera l’energia verbale. Alcuni possiedono questo potenziale, altri no.
Perché?
Non lo so. D’altro canto è da tempo che ho smesso di chiedermi perché. Sono giunto all’apoteosi della mia vita: oggi so che non so. I temi mi arrivano con difficoltà. Scrivere, per me, è sempre stato molto difficile. Il mio problema è che da bambino mi sono innamorato della letteratura. Solo più tardi ho pensato di fare lo scrittore. Ci ho provato e la cosa ha funzionato fino a un certo punto. Credetemi, avessi potuto fare qualcos’altro di meglio, l’avrei fatto volentieri! Ma all’inizio era così entusiasmante, e allora ho continuato.
Ha appena detto che la vita di uno scrittore non necessariamente influenza il suo lavoro, eppure si preoccupa di ordinare i materiali per la sua biografia?
Non ho scelta. Se potessi scegliere, preferirei che non scrivessero una biografia, ma dopo la mia morte, ce ne saranno, per cui voglio assicurarmi che una sia esatta. Blake Bailey ha scritto un’ottima biografia di John Cheever, che era mio amico, persona difficile da ritrarre, omosessuale e alcolista, ha passato tutta la vita a nascondersi. Bailey mi ha contattato, abbiamo trascorso due giorni interi a parlare e mi ha convinto. Ma non controllerò il suo lavoro. In ogni modo un 20% sarà falso, ma sempre meglio di un 22%.
Ha iniziato a preparare gli archivi per dopo la sua morte?
Una volta che Blake Bailey li avrà utilizzati ho chiesto ai miei esecutori testamentari, all’agente Andrew Wylie e a un’amica psicoanalista di distruggerli. Non voglio che le mie carte personali vadano in giro. Nessuno deve leggerle. Tutti i miei manoscritti sono depositati dal 1970 alla Biblioteca del Congresso.
A 78 anni come vede ciò che ha scritto?
A 74 anni mi sono reso conto di non avere più molto tempo, allora ho deciso di rileggere i romanzi che ho amato a 20 e 30 anni, perché sono proprio quelli che non si rileggono mai. Dostoïevski, Tourgueniev, Conrad, Hemingway… e quando ho finito ho deciso di rileggere tutti i miei romanzi cominciando dall’ultimo: Nemesi. Finché non ne ho potuto più: mi sono fermato poco prima di Lamento di Portnoy, che è imperfetto. Volevo vedere se avevo sprecato il mio tempo a scrivere. Invece ho pensato di aver fatto una buona cosa. In fin di vita il pugile Joe Louis ha dichiarato: “Ho fatto meglio che potessi con quel che avevo”. E’ proprio ciò che direi io del mio lavoro: ho fatto il meglio con quel che avevo. E poi ho deciso di chiudere con i romanzi. Non ne voglio più leggere, né scrivere, non ne voglio più nemmeno parlare. Ho dedicato la vita ai romanzi: li ho studiati, insegnati, ho scritto, letto. Escluso tutto il resto. È molto! Non provo più quel fanatico attaccamento alla scrittura provato tutta la vita. Impossibile affrontare ancora la scrittura.
Non sta un po’ esagerando?
Scrivere è avere torto tutto il tempo. Le nostre bozze raccontano la storia dei nostri fallimenti. Non ho più l’energia della frustrazione, non ho più la forza di affrontarla. Scrivere è frustrante: si passa il tempo a buttar giù parole sbagliate, frasi sbagliate, storie sbagliate. Ci si sbaglia in continuazione, si fallisce continuamente e si vive in una frustrazione perpetua. Si passa il tempo a dirsi: questo non funziona, devo ricominciare. Sono stanco di questo lavoro. Sto attraversando un momento difficile della mia vita: ho perso qualsiasi forma di fanatismo. E non provo malinconia, non penso che libro più libro meno, la situazioni cambi. E se scrivo un nuovo libro sarà probabilmente sbagliato. Chi ha bisogno di un libro mediocre in più?
Non ha voglia di scrivere dell’America di oggi?
Ho 78 anni, non so più cos’è l’America di oggi. La vedo alla televisione, ma non ci vivo più.

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