SOLO PER PORTARVI A DOVE SIETE: ATWOOD E LA CASA DELLE DONNE

Ieri “le portavoci e i portavoci” (no facile ironia grammaticale, per favore, conta il contenuto) del Movimento cinque stelle hanno dichiarato di non voler “essere rappresentati come “fascisti senza cultura” che ignorano il valore storico e simbolico incarnato dalla Casa Internazionale delle Donne, come certa stampa e certi personaggi politici o politicizzati stanno ripetutamente facendo in questi giorni”. Questo è importante, e neanche qui sto ironizzando: anche se non comprendo, in tutta onestà, quell’allusione spregiativa agli aggettivi “politici o politicizzati”. La politica è quella che unisce i cittadini. Non una pratica oscura. Non una pratica demonizzabile. Essere personaggi “politicizzati” è un punto d’onore, e non uno stigma. Personalmente, mi ritengo “politicizzata”, pur senza appartenenze di partito. Né smetterò di esserlo. Comunque.
Non mi sembra che sia la mancanza di cultura a essere stata sottolineata nella vicenda della Casa Internazionale delle Donne: quanto la presenza di una cultura del mercato e del riordino, e dell’appropriazione, priva di analisi. Spuntare una casella, eliminare l’Angelo Mai, il Baobab, e così via.
Ma non è questo il punto, o non solo. C’erano tante giovani donne ieri a manifestare al Campidoglio. E c’erano le compagne di antiche strade. C’era Dacia Maraini, per esempio, che ha ricordato come l’elezione di una sindaca sia qualcosa che è avvenuto proprio perché ci sono state quelle femministe “da Inti Illimani” così disprezzate dai sostenitori della sindaca stessa. Dunque, per ricordare, finché almeno possiamo, un brano dal “Racconto dell’ancella” di Margaret Atwood. Nulla è dato per scontato, tutto, a maggior ragione ora, può essere tolto.
“La ricordo così, il mento proteso in fuori con un bicchiere davanti, sul tavolo di cucina; non più giovane, seria e graziosa, com’era nel film, ma tenace, coraggiosa, quel tipo di donna matura che non si fa rubare il posto in una coda al supermercato. Le piaceva venire a casa mia a bere qualcosa mentre io e Luke preparavamo il pranzo e raccontarci che cosa non andava nella sua vita, che era poi quel che non andava nella nostra. A quel tempo aveva i capelli grigi. Non se li tingeva. Perché fingere, diceva, che bisogno ne ho? Non voglio un uomo. A che servono tranne che per quei dieci secondi che corrispondono a mezzo figlio? Un uomo è semplicemente la strategia di una donna per fare altre donne.
Era così che parlava, anche davanti a Luke. A lui non importava, la prendeva in giro, fingeva di essere un maschilista, le diceva che le donne erano incapaci di astrazioni e lei beveva un altro bicchiere con un sorriso ironico. Porco sciovinista diceva. Non è stramba tua madre? diceva Luke, e lei assumeva un’aria sorniona, furtiva. Ne ho il diritto, diceva, sono abbastanza vecchia. Ho pagato il mio scotto, posso permettermi di essere stramba. Tu hai ancora il muso sporco di latte. Quanto a te, aggiungeva rivolta a me, sei troppo superficiale, un fuoco di paglia. La storia mi darà ragione.
Ma queste cose le diceva dopo il terzo bicchiere.
Voi giovani non apprezzate quello che avete, diceva. Non sapete quante ne abbiamo passate, solo per portarvi a dove siete. Guarda tuo marito che affetta le carote. Non sai quante vite di donne, quanti corpi di donne, ci sono voluti per arrivare sin qui?
Vorrei riaverla qui. Vorrei riavere tutto com’era. Ma non serve volere”.

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