SILENCE

Riporto, dal sito del Manifesto, l’articolo di Gilda Policastro di ieri, 20 luglio. Non lo commento, perchè chi ha seguito la discussione su Lipperatura è in grado, da solo, di trarre le proprie conclusioni. E perchè, come dice Lisa Simpson, citando Lincoln,   è meglio rimanere in silenzio ed essere considerati imbecilli che aprire bocca e togliere ogni dubbio.
Conclusa la stagione dei premi letterari, parte quella dei festival: l’occasione per riflettere sugli uni e sugli altri è il recente documentario di Andrea Cortellessa e Luca Archibugi, Senza scrittori (prodotto da Rai Cinema), un’indagine che da premi e festival muove, mostrandone dall’interno alcuni tra i più noti passando dal Ninfeo di Villa Giulia, sede storica del Premio Strega, al Festival di Mantova, e sbarcando infine, provocatoriamente, alla Stazione di Topolò, in Friuli, dove da più di dieci anni ha sede un anti-festival di poesia eco-compatibile, ovvero con pochi ospiti scelti, alloggiati presso le case degli sparuti abitanti del paese. Un’indagine, quella di Cortellessa e Archibugi, ricca di informazioni e totalmente disincantata, che a partire dal «basso-materiale» sviscera i meccanismi e i parametri economici in base ai quali si regolano la produzione, la distribuzione e le vendite (il libro come merce in un sistema produttivo, cioè), oltre che la costruzione delle delle dinamiche del consenso (il libro come prodotto in un contesto concorrenziale). Meccanismi e dinamiche che vengono amplificati da premi e festival, ma che evidentemente sostengono, come lo scheletro il corpo, l’editoria italiana, orientandone o determinandone (quel che è più preoccupante) la progettualità, e limitando, di contro, gli spazi per la ricerca e le proposte eccentriche, relegate in ambiti di nicchia (editori semiclandestini, librerie in estinzione come la storica Tombolini di Roma, lettori-reduci impossibilitati a rinvenire libri che non siano best-seller).
Le questioni in esame nel documentario sono tutte di grande momento, a partire dalla constatazione dello strapotere ormai inarrestabile del mercato editoriale. Un’industria che fin dai suoi albori ha badato ai profitti, ma che mai come in questo momento parrebbe aver abdicato interamente alla qualità in favore del «successo», con la conseguenza perniciosa che sia l’idea stessa di letterario o di artistico a depotenziarsi, in nome del solo obiettivo della diffusione ad ampio raggio e dell’appeal generalista «che rende tutto più divertente», come sostenuto (e non dimostrato) nel documentario da Antonio Franchini, editor Mondadori (oltre che scrittore in proprio).
Se l’editoria senza mercato, rovesciando la tesi di Cortellessa, non potrebbe sopravvivere all’invadenza di altri media (nonché allo strapotere della rete presso le generazioni under 40), è vero altresì che i contrappesi storici al mercato (i luoghi della formazione e dell’analisi critica) si sono ridotti a zone del tutto marginali o ininfluenti. Le categorie dominanti all’interno del discorso letterario (sed commerciale) non sono così la qualità, il valore, la «longevità» (dicevano una volta i culturologi), o – volesse mai il cielo – le possibilità di canonizzazione di un’opera, bensì il successo quantificato dalle classifiche di vendita: «vera spada di Damocle settimanale per ogni editore», citando ancora dall’intervista a Franchini. Proprio nel web, da un articolo di commento a Senza scrittori apparso su «Repubblica» a firma di Francesco Erbani (e successivamente postato nel blog Lipperatura), si è sviluppato un dibattito tra lo stesso Cortellessa (insieme ad altri, tra cui chi scrive) e il gruppo bolognese dei Wu Ming, fenomeno mediale da oltre un decennio, con un’ampia produzione d’intrattenimento all’attivo. È dello scorso anno, ad esempio, l’edizione di un pamphlet costituzionalmente destrutturato e dichiaratamente scevro da ambizioni canonizzanti, intitolato New Italian Epic: etichetta di una qualche immediata fortuna mediatica, subito smontata però nella sua consistenza teorica dai critici «cartacei» (Emanuele Trevi, ad esempio, su «Alias»). Ma l’aspetto che in questo caso fa conto sottolineare è come i Wu Ming, da un’angolatura opposta, arrivino a sancire nei fatti uno status quo molto simile a quello delineato nel doc di Cortellessa-Archibugi, a partire dalla considerazione (in quel caso salutata con malcontenuto entusiasmo) che l’idea stessa di letteratura sia divenuta arbitraria o rinegoziabile in nome di altre urgenze (sociologiche, documentarie, o della famigerata «evasione»), sempre secondo i nuovi parametri «popolari», coincidenti, com’è superfluo ribadire, col successo commerciale.
Esisterebbe cioè una nuova genia di scrittori, a partire dai Wu Ming medesimi, formatasi più nella rete che nelle aule universitarie, e felicemente affrancata dal bellettrismo novecentista, come dagli eccessi della sperimentazione avanguardista e neoavanguardista. Categorie peraltro mai chiamate in causa, in quanto riconducibili a un metodo d’approccio – la vetusta critica cartacea, appunto – per niente al passo con le magnifiche sorti e progressive della tecnologia informatica, che tutto fagocita: tanto che i Wu Ming stessi arrivano a definire superato il loro Nie, di appena un anno fa. Il bando va anche all’idea romantica dello scrittore separato dalla massa «zotica e vil» in virtù della pregressa formazione: lo scrittore è, viceversa, pienamente integrato nelle dinamiche di produzione-smercio dei libri (o degli yogurt? per riprendere la metafora Cortellessa) e se non lo è, peggio per lui, perché intanto c’è una pletora di «scriventi» (citando stavolta Malerba) pronti a far valere le necessarie consapevolezze in termini tanto di produzione di una letteratura affabulatoria e accessibile (perché «piatta come un lago»: così un commentatore nel web) quanto di potere contrattuale, e dunque di influenza sul mercato.
Viene in mente l’antiapologia del successo di un saggio manganelliano sul best-seller, libro cordiale, comunicativo, «sciarmoso», con la pretesa di parlare a tutti, mentre l’auspicato worst-seller si consentirebbe ancora il «lei», rivolgendosi «a pochi, a pochissimi, a nessuno»: e come farà mai a farsi acquistare, vien da domandarsi coi Wu Ming, un libro così scorbutico, oggi. Ma acquistare o leggere? Un libro-vasetto può far figura in dispensa, cioè nella libreria di casa: manca un passaggio, perché si muti in libro «longevo», ovvero entri in un discorso estetico e non già (solo) economico. Bisogna intanto che sia superfluo guardargli la data di scadenza, ma, prima ancora, che possa arrivare a essere 1) scritto (il che non è banale, se l’influenza del mercato vale anche in termini prospettici; 2) pubblicato; 3) presente in libreria 4) resistente al quotidiano afflusso in essa di vampiri o romanzi criminali.
La prima edizione dei testi teatrali di Shakespeare, ricordava Manganelli, uscì dopo la sua morte: Shakespeare odiava il successo o si rammaricava della fama mancata coi poemetti giovanili? «Forse, voleva anche lui vincere un premio importante: dopo tutto non è detto che sapesse di essere Shakespeare».

406 pensieri su “SILENCE

  1. Beh, meglio ancora di google sono le sottolineature sui libri di carta, magari affiancate da appunti e parole-chiave scritte sul margine della pagina. Questo consente una ricerca molto agile e veloce, già pre-selezionata e mirata. Perché i libri si capisce subito se uno li nomina e basta o li cita avendoli letti e vissuti (e sapendone rimettere in gioco i contenuti, anche in modi inizialmente… contro-intuitivi). Molti dei libri che ho letto e riletto sono tutti gonfi e sfasciati, grevi di scarabocchi multicolori e ormai, hélas, leggibili solo da me! Chi lascia i libri intonsi farà certo più fatica a ritrovare i passaggi. Questa è una cosa che mi mancherà degli e-book. E’ vero che col Kindle puoi sottolineare, puoi fare la ricerca per parole, ma è un’altra prassi, un altro mondo, altri affetti. [sospiro]

  2. @ WM1
    Vero. Ma non mi riferivo – almeno non nello specifico – a te. Anche se qui tendete tutti a fare i tuttologici, quindi prima o poi la falsa mossettina da parvenue ci scappa… Pero’ siete in buona fede, o no?
    Certo che si capisce subito se uno i libri li cita per farne borsettate nella mischia o semplici accessori tarocchi da esibire durante lo struscio… Le peggiori restano quelle che, pur non essendo nate per indossarne credibilmente una, non ne hanno il portamento, prostituiscono il loro prezioso tempo per sculettare con delle Vuitton in mano. In fondo un peccato veniale: si tratta solo di bbuone intenzioni di pessimo gusto, o no?

  3. Dunque, vediamo… Io non ho mai letto tanto. Solo pochi libri veri. Non piu’ di 100. Ma con la massima attenzione. Perfino fra una riga e l’altra lo spazio bianco. A volte disegnando tanti fiorellini ai margini delle pagine. Purtroppo non ho avuto buoni maestri. Una guida. Mi hanno sempre propinato tanti pamphlet che ho sfogliato ozioso. La verita’ e’ che butterei l’occhio anche sulla carta igienica se fosse scritta. Una malattia. Prendo per strada qualsiasi volantino, opuscolo mi rifilino. Addirittura ieri mi sono messo a leggere invasato il catalogo Argos, con la massima attenzione, alla fermata dell’autobus. Pero’ so riconoscere un AUTORE autentico. Entriamo subito in contatto. In qualche modo. Forse per questo mi sento cosi’ solo… Un bene. Cosi’ me ne sto tranquillo tranquillo, come annichilito, a sfogliare le riveste. Senza fare danni.
    Comunque, se proprio dovessi fare una citazione, butterei a caso il nome dell’autore che stamattina un intellettuale quasi nerd, gli occhiali erano tutto un rimando agli anni ’50 del secolo scorso, stava leggendo da Starbucks, se solo mi venisse in mente…
    Ah, ecco, credo fosse Riyoko Ikeda.

  4. @Ama: non so assolutamente che cosa è “un gay ben strutturato”, quindi “tutti bravi con Google”, andrò a verificare. Siti è stato tirato nel discorso perché è tra i massimi studiosi italiani di Pier Paolo Pasolini e senza ulteriori tiritere puoi leggerti da solo i commenti (pochi) che lo riguardano. Poi bofonchi di tuttologia, borsette e di buone intenzioni di pessimo gusto.
    Tutto è lecito, figurati, ma siamo quasi ad agosto. Non trovi sia arrivato il momento della calma e del confronto? Il blog andrà in vacanza e forse non ti farebbe male darti una calmata.
    Detto con affetto: non fai ridere, ma nemmeno un po’. O non era questo l’intento?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto