SILENCE

Riporto, dal sito del Manifesto, l’articolo di Gilda Policastro di ieri, 20 luglio. Non lo commento, perchè chi ha seguito la discussione su Lipperatura è in grado, da solo, di trarre le proprie conclusioni. E perchè, come dice Lisa Simpson, citando Lincoln,   è meglio rimanere in silenzio ed essere considerati imbecilli che aprire bocca e togliere ogni dubbio.
Conclusa la stagione dei premi letterari, parte quella dei festival: l’occasione per riflettere sugli uni e sugli altri è il recente documentario di Andrea Cortellessa e Luca Archibugi, Senza scrittori (prodotto da Rai Cinema), un’indagine che da premi e festival muove, mostrandone dall’interno alcuni tra i più noti passando dal Ninfeo di Villa Giulia, sede storica del Premio Strega, al Festival di Mantova, e sbarcando infine, provocatoriamente, alla Stazione di Topolò, in Friuli, dove da più di dieci anni ha sede un anti-festival di poesia eco-compatibile, ovvero con pochi ospiti scelti, alloggiati presso le case degli sparuti abitanti del paese. Un’indagine, quella di Cortellessa e Archibugi, ricca di informazioni e totalmente disincantata, che a partire dal «basso-materiale» sviscera i meccanismi e i parametri economici in base ai quali si regolano la produzione, la distribuzione e le vendite (il libro come merce in un sistema produttivo, cioè), oltre che la costruzione delle delle dinamiche del consenso (il libro come prodotto in un contesto concorrenziale). Meccanismi e dinamiche che vengono amplificati da premi e festival, ma che evidentemente sostengono, come lo scheletro il corpo, l’editoria italiana, orientandone o determinandone (quel che è più preoccupante) la progettualità, e limitando, di contro, gli spazi per la ricerca e le proposte eccentriche, relegate in ambiti di nicchia (editori semiclandestini, librerie in estinzione come la storica Tombolini di Roma, lettori-reduci impossibilitati a rinvenire libri che non siano best-seller).
Le questioni in esame nel documentario sono tutte di grande momento, a partire dalla constatazione dello strapotere ormai inarrestabile del mercato editoriale. Un’industria che fin dai suoi albori ha badato ai profitti, ma che mai come in questo momento parrebbe aver abdicato interamente alla qualità in favore del «successo», con la conseguenza perniciosa che sia l’idea stessa di letterario o di artistico a depotenziarsi, in nome del solo obiettivo della diffusione ad ampio raggio e dell’appeal generalista «che rende tutto più divertente», come sostenuto (e non dimostrato) nel documentario da Antonio Franchini, editor Mondadori (oltre che scrittore in proprio).
Se l’editoria senza mercato, rovesciando la tesi di Cortellessa, non potrebbe sopravvivere all’invadenza di altri media (nonché allo strapotere della rete presso le generazioni under 40), è vero altresì che i contrappesi storici al mercato (i luoghi della formazione e dell’analisi critica) si sono ridotti a zone del tutto marginali o ininfluenti. Le categorie dominanti all’interno del discorso letterario (sed commerciale) non sono così la qualità, il valore, la «longevità» (dicevano una volta i culturologi), o – volesse mai il cielo – le possibilità di canonizzazione di un’opera, bensì il successo quantificato dalle classifiche di vendita: «vera spada di Damocle settimanale per ogni editore», citando ancora dall’intervista a Franchini. Proprio nel web, da un articolo di commento a Senza scrittori apparso su «Repubblica» a firma di Francesco Erbani (e successivamente postato nel blog Lipperatura), si è sviluppato un dibattito tra lo stesso Cortellessa (insieme ad altri, tra cui chi scrive) e il gruppo bolognese dei Wu Ming, fenomeno mediale da oltre un decennio, con un’ampia produzione d’intrattenimento all’attivo. È dello scorso anno, ad esempio, l’edizione di un pamphlet costituzionalmente destrutturato e dichiaratamente scevro da ambizioni canonizzanti, intitolato New Italian Epic: etichetta di una qualche immediata fortuna mediatica, subito smontata però nella sua consistenza teorica dai critici «cartacei» (Emanuele Trevi, ad esempio, su «Alias»). Ma l’aspetto che in questo caso fa conto sottolineare è come i Wu Ming, da un’angolatura opposta, arrivino a sancire nei fatti uno status quo molto simile a quello delineato nel doc di Cortellessa-Archibugi, a partire dalla considerazione (in quel caso salutata con malcontenuto entusiasmo) che l’idea stessa di letteratura sia divenuta arbitraria o rinegoziabile in nome di altre urgenze (sociologiche, documentarie, o della famigerata «evasione»), sempre secondo i nuovi parametri «popolari», coincidenti, com’è superfluo ribadire, col successo commerciale.
Esisterebbe cioè una nuova genia di scrittori, a partire dai Wu Ming medesimi, formatasi più nella rete che nelle aule universitarie, e felicemente affrancata dal bellettrismo novecentista, come dagli eccessi della sperimentazione avanguardista e neoavanguardista. Categorie peraltro mai chiamate in causa, in quanto riconducibili a un metodo d’approccio – la vetusta critica cartacea, appunto – per niente al passo con le magnifiche sorti e progressive della tecnologia informatica, che tutto fagocita: tanto che i Wu Ming stessi arrivano a definire superato il loro Nie, di appena un anno fa. Il bando va anche all’idea romantica dello scrittore separato dalla massa «zotica e vil» in virtù della pregressa formazione: lo scrittore è, viceversa, pienamente integrato nelle dinamiche di produzione-smercio dei libri (o degli yogurt? per riprendere la metafora Cortellessa) e se non lo è, peggio per lui, perché intanto c’è una pletora di «scriventi» (citando stavolta Malerba) pronti a far valere le necessarie consapevolezze in termini tanto di produzione di una letteratura affabulatoria e accessibile (perché «piatta come un lago»: così un commentatore nel web) quanto di potere contrattuale, e dunque di influenza sul mercato.
Viene in mente l’antiapologia del successo di un saggio manganelliano sul best-seller, libro cordiale, comunicativo, «sciarmoso», con la pretesa di parlare a tutti, mentre l’auspicato worst-seller si consentirebbe ancora il «lei», rivolgendosi «a pochi, a pochissimi, a nessuno»: e come farà mai a farsi acquistare, vien da domandarsi coi Wu Ming, un libro così scorbutico, oggi. Ma acquistare o leggere? Un libro-vasetto può far figura in dispensa, cioè nella libreria di casa: manca un passaggio, perché si muti in libro «longevo», ovvero entri in un discorso estetico e non già (solo) economico. Bisogna intanto che sia superfluo guardargli la data di scadenza, ma, prima ancora, che possa arrivare a essere 1) scritto (il che non è banale, se l’influenza del mercato vale anche in termini prospettici; 2) pubblicato; 3) presente in libreria 4) resistente al quotidiano afflusso in essa di vampiri o romanzi criminali.
La prima edizione dei testi teatrali di Shakespeare, ricordava Manganelli, uscì dopo la sua morte: Shakespeare odiava il successo o si rammaricava della fama mancata coi poemetti giovanili? «Forse, voleva anche lui vincere un premio importante: dopo tutto non è detto che sapesse di essere Shakespeare».

406 pensieri su “SILENCE

  1. Vincent, in effetti mi immischio in cose non mie, ma tanto per raffazzonare un commento in più, “tafano” ti sta proprio a pennello 🙂

  2. @ Moroni: guardi sto andando a dormire, perché non sto bene, ma è più forte di me. Lei è pessimo. Loredana Lipperini “dice e non dice” (mio nipote novenne usa questo modo di dire quando parla con il suo coniglio immaginario), poi cambia le parole degli altri (mon dieu), infine sta perdendo l’autorevolezza (il potere logora chi non ce l’ha eh Moroni, è dura vivere accusando gli altri di qualsiasi misfatto). A chiudere il comportamento grottesco (lei ha perso ogni vergogna?). E STIAMO ANCORA CON IL METODO? Vada a Filicudi, è quasi agosto, oppure faccia un corso di yoga.
    Se io sono fastidioso e lo ammetto, lei è tutto quello che stigmatizzo. Scusa Loredana se mi sono inserito puoi anche arrabbiarti, ma si è passato il segno. Ci sono altre delegittimazioni reali dell’avversario che dovrebbero interessarci, non le offese gratuite di un frustrato.

  3. Mi spiace continuare a torturarvi ma in questi tempi di delegittimazioni è accaduto un fatto grave: premetto che so pochissimo di social network, non sono registrato a fb, ma un conoscente (non rivelo di quale sesso, non sto ancora alla delazione), amico a quanto pare di Gilda Policastro, mi sta intasando la posta con tutto ciò che la riguarda: status, commenti, foto e mail all’interno di fb. Tutto questo per scaramucce su un blog. Come sceglie gli amici la Policastro non so, io spero mettendolo per iscritto che questa persona prenda coscienza della sconcezza di tutto ciò, che va al di là della privacy.
    Quindi, persona senza nome, piantala perché questa cosa mi ha destabilizzato, ho passato un fine domenica di cacca (così ntrascorri le tue ferie?).
    In caso contrario chiederò in privato la mail della Policastro a Loredana affinché si prendano dei provvedimenti. Che tristezza.

  4. Sarebbe interessante cercare di capire fino in fondo di che cosa sono sintomi la resistenza al popular che emerge dall’articolo di Gilda Policastro e dallo scempio di Deleuze fatto da Andrea Cortellessa (perche’ tralasciare l’interesse di Deluze per il cinema di genere? Kubrick, Minelli, Jerry Lewis, Capra, tra gli altri). Perche’ tanta energia spesa a falsificare la posizione altrui e poi, una volta eretto un bel fantoccio di carta, a distruggerla?
    Prima Policastro attribuisce a Wu Ming una posizione risibile – l’equazione tra letterarieta’ e vendite – poi Cortellessa interviene per suggerire invece tale distinzione e’ importante farla: l’ha detto Deleuze che commerciale e creativo non sono la stessa cosa! Ma chi l’hai mai messa in discussione la distinzione tra commerciale e creativo? Dove? In che testo? Non mi pare che ne’ nella cartografia tentata nel NIE ne’ nello scambio precedente finito nel pdf si tratti di negare una tale distinzione, ma di suggerire che anche opere “generiche” possono essere creative, esattamente come anche opere che si vogliono d’autore alcune volte si rivelano delle pure operazioni commerciali. Il problema non e’ la distinzione in se’, ma piuttosto la lotta di potere intorno al “chi” che ha l’autorita’ di tracciarla: i critici cartacei (e Policastro si dimentica di citare altri c.c. che hanno speso parole positive sul NIE) sono davvero tanto disinteressati, cosi’ poco commerciali e cosi’ tanto creativi, quanto vogliono far credere?
    Nei passaggi conclusivi di una intervista a Toni Negri Deluze suggerisce che nella situazione attuale – vale a dire un’epoca in cui il denaro ha pervaso linguaggio e comunicazione (e cio’ e’ successo, aggiunge Deleuze – e questo mi pare fondamentale – non per un puro caso, ma a causa dell’essenza stessa di linguaggio e comunicazione), forse cio’ che e’ importante fare e’ “dirottare il linguaggio”, cercando di creare corto-circuiti, e spazi vuoti che eludano il controllo della forma-merce. In questo modo il mondo, la fiducia nel mondo – che secondo Deleuze ci sono stati tolti – vengono riconsegnati nelle nostre mani. Avere un mondo e crederci, significa infatti moltiplicare gli eventi di resistenza – per quanto futili e fallimentari possano essere.
    Ecco, la scommessa di molti autori che oggi, in Italia, si confrontano con la narrazione di genere e’ mossa propria dalla fiducia nel mondo di cui la filosofia di Deleuze si nutriva. Scrivere per creare spazi comunitari, scrivere per creare occasioni di divenire, scrivere evocando un popolo che ancora non esiste (che e’ cosa diversa da scrivere per creare una popolazione, come invece fanno gli scrittori commerciali). Forse e’ una scommessa persa in partenza, ma il tempo della vita e’ breve, e se si scrive…

  5. @vincent i miei ”amici” (cioè contatti: i miei amici della vita reale su Fb non ci sono) Fb li scelgo come li scelgono tutti, ossia cliccando ”conferma” sotto la richiesta di ”amicizia”: e fin quando non mi disturbano o non mi insultano direttamente non ho motivo, come si dice in gergo, di ”bannarli”. Ma in questo caso, se non hai Fb e Mr x non ti ha cercato in quel contesto (dove è possibile indirizzare mail anche a persone che non siano ancora ”amiche”), direi che si tratta di un amico o di un contatto reale più tuo che mio: o altrimenti come farebbe a intasarti una casella di posta privata.
    Ma se credi, scrivimi pure all’indirizzo che Loredana potrà darti: nei limiti delle mie possibilità, vedrò di arginare lo stalking.

  6. @ Gilda Policastro: sembra che il post precedente abbia funzionato. Come riuscisse a mettere le pagine di fb su mail per me resta un mistero. Si è arginato lo stalking, per ora.
    Laddove dovesse continuare grazie per la disponibilità. Saluti.

  7. @ Davide: le cose che dici ormai le hanno capite tutti, secondo me.
    Per altro, una volta chiariti gli equivoci, restano solo i maldestri sotterfugi retorici della Policastro e una paradossale (?) coincidenza di vedute con Cortellessa. Molto rumore per nulla, insomma.
    Ti chiedi: “Perche’ tanta energia spesa a falsificare la posizione altrui e poi, una volta eretto un bel fantoccio di carta, a distruggerla?”
    La risposta che trovo io è che questo tipo di azione retorica falsante agevola un’autorappresentazione di comodo. Se vuoi raccontarti di essere Don Chisciottte ti servono i mulini a vento. E questo è tanto più evidente nella misura in cui, come giustamente fai notare tu, tale fantomatica posizione altrui viene individuata in testi che non ne contengono traccia, come ad esempio “New Italian Epic”.
    In fondo cosa c’è scritto in quel saggio di tanto scandaloso? Che negli ultimi tre lustri sono usciti alcuni testi narrativi di autori italiani che ci paiono avere certe caratteristiche in comune (e si prova a individuare quali); caratteristiche che a nostro avviso tracciano una controtendenza rispetto a certo post-modernismo esasperato e ormai frollato. Per altro non lo si definisce mai come un’insieme qualitativo, un “best of”, anzi, si specifica che in certi casi si tratta proprio di esperimenti letterari non riusciti. Quindi non c’è nobilitazione di questo o di quell’altro testo, solo una ricerca critica di temi, archetipi, stili. E chi, come Cortellessa al contrario ad esempio della Policastro, l’ha letto, sa che è un testo già datato, certo, perché fotografa una situazione trascorsa, ben definita nel tempo e riferita a uno specifico momento storico: è uno sguardo all’indietro, non in avanti, come è detto a chiare lettere nel saggio stesso. Questo – sia detto ad usum dei finti tonti in ascolto – non significa che noi rinneghiamo ciò che abbiamo scritto due anni fa, ma che nel frattempo il dibattito è proseguito fitto in Italia e all’estero, (in contesti accademici, extra-accademici, letterari, giornalistici, etc.), sono state pubblicate molte altre opere narrative, e il fatto stesso di essere su questo blog o altrove a discutere di NIE implica che (se Hiesenberg non era proprio uno stupido) la discussione stessa modifica lo stato e la percezione delle cose.
    Cortellessa in uno dei suoi commenti nel thread sulla letterarietà disse che NIE conteneva una “teoria della letteratura”. Se ci riferiamo al saggio maggiore questo non è vero. Nel volume cartaceo però è incluso un secondo saggio, scritto da Wu Ming 2, che si intitola “La salvezza di Euridice”, il quale in effetti contiene non già una teoria della letteratura, ma una teoria della narrazione (e un’enunciazione di poetica). Da qualche tempo questo secondo saggio è disponibile online sul nostro blog, spezzato in tre parti:
    http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=847
    http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=955
    http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=1041
    Di questo testo, che in effetti, nonostante l’approccio empirico e il procedere analitico, potrebbe essere definito “teorico”, nessun critico ha voluto discutere. Io è questo che non capisco, Davide. Eppure lì le spariamo ben più grosse che in NIE. Però nessuno si è scandalizzato come quando abbiamo parlato della ricerca linguistica di Camilleri o del ciclo del metallo urlante di Evangelisti. Boh.

  8. Vincent, io non fornisco indirizzi mail di nessuno. Approfitto per chiederti, sia pure con ritardo (perdonatemi, ma sono giornate molto complicate per me) di cercare di mantenere toni morbidi. Proprio per non dare adito a interventi come quelli di cui sopra. Grazie.

  9. Visto che GP mi chiama in causa mi sento obbligato a intervenire per ribadire che le contrapposizioni frontali non solo non m’interessano, ma mi sembrano un modo sterile per darsi identità nella negazione dell’altro: se X è reazionario, io sono rivoluzionario; se X è commerciale, io sono di qualità. Opposizioni inesistenti, da cui non è mai nata un’esperienza artistica, perché sono funzionali all’immagine anziché al prodotto. Non ho citato Sanguineti, perché m’interessava Pasolini: potrò rileggere Ideologia e linguaggio, ringraziandoti per il consiglio, ma tu dovrai rileggere Passione e ideologia, perché di Pasolini io parlavo anziché di Sanguineti.
    Il punto che stava a cuore a Pasolini in quel momento (al momento della riflessione che ho rudimentalmente riassunto: 1962) era quello del rapporto tra mercato e popolo: si tende spesso, ancora oggi, a considerare ‘popolari’ i fenomeni di mercato o di massa, quando essi sono specificamente ‘borghesi’ (mi scuso per la rozzezza degli strumenti d’analisi, ma credo che la questione vada posta proprio così). Il popolo ne è inesorabilmente fuori, perché, come classe, il popolo non è e non può essere consumista: ha ben altri bisogni. Certo, con l’avanzata del capitalismo e dei media il popolo è sempre meno popolare e sempre più borghese, come lo stesso Pasolini denunciava.
    Ora, cos’è più borghese oggi, il mercato o la critica (o tutt’e due, in bella e facile alleanza)? Io non voglio fare schemini oppositivi, perché compito del critico, secondo me, è porre problemi anziché dare giudizi: individuare le pieghe, le zone d’ombra, le incrinature e tuffarcisi a capofitto invece che stabilire cos’è buono e cos’è cattivo (Simone Ghelli ricordava la foucaultiana “arte di non essere eccessivamente governati”). Riporto una citazione di Gramsci a me cara: «Marinetti è diventato accademico e lotta contro la tradizione della pastasciutta».
    Dopo aver lottato contro le istituzioni, chi nell’istituzione è entrato grazie alla sua immagine pubblica di polemista non riesce a far altro che continuare il suo atteggiamento polemico: solo che il bersaglio non sarà più l’istituzione, di cui il polemista ormai fa parte, ma ciò che prima era il suo alleato contro l’establishment, cioè la tradizione popolare.
    Io credo che questo gioco vada denunciato e destabilizzato. Perché è funzionale ad un potere che non si confronta con le trasformazioni, produce conflitto e genera disagio.

  10. RIASSUMENDO: la Lipperini è sempre la stessa componente occulta del gruppo Wu Ming, censuratrice indefessa (e anche un po’ fessa) di chi non li appoggia, e Lipperatura uno dei principali MEGAFONI delle loro auto-celebrazioni.

  11. @Jossa non ho bisogno di rileggere un saggio del ’60 le cui posizioni sono state ritrattate dallo stesso autore, nel ’75. Pasolini stesso ripensò infatti alla propria ideologia popolare (=populista) in termini assai critici, ribadisco, tanto nella Visione di Petrolio, quanto, ancora più esplicitamente nell’Abiura: i bisogni delle masse tendono a riprodurre a calco i (falsi) bisogni borghesi, e il dissidio con Sanguineti è illuminante, perché è su questo punto che l’ideologia pasoliniana falla: nel non riconoscere alla rivoluzione borghese il ruolo di scardinamento di secolari privilegi e il punto di partenza inevitabile per l’emancipazione delle masse. Quella vera, che parta dalla consapevolezza dei limiti e dei bisogni degli sfruttati, come Sanguineti preferisce dire, invece che poveri (si può essere poveri e sfruttatori, e ricchi e sfruttati allo stesso modo). Questa consapevolezza è opportuno che la inculchi l’intellettuale (o se no, chi?), che altrimenti sta o nella sua torre d’avorio a cianciare del sesso degli angeli, come si è ripreso a dire, tra l’altro, proprio in queste settimane da parte di scrittori destrorsi, oppure a coltivare il proprio personale sogno di ascesa e di potere. Riportando tutto su un terreno puramente letterario, trovo molto coerente quanto Sanguineti dichiara in Ideologia e linguaggio (che è sì del 65, ma non viene mai ritrattato e, invece, se possibile potenziato, nelle sue successive riedizioni), con la sua visione politica, opposta a quella pasoliniana. Il mondo popolare mitizzato da Pasolini nella Trilogia della vita non esiste, non è mai esistito. Pasolini pensava a un mondo contadino mitologizzato e comunque ricco. I borgatari, come lui stesso comprenderà molto bene nei suoi ultimi anni, non hanno nessuna intenzione di passare la vita a coltivar patate, ma vogliono le moto, i bei vestiti, i soldi, il potere (la traversata infernale del Merda e di Cinzia in Petrolio è uno dei momenti più icastici della palinodia del primigenio mito borgataro).
    Ora: per Sanguineti se qualcuno ti chiede l’elemosina o, traslando, di leggere libri scorrevoli, accessibili, facili, tu non sei democratico se gli concedi i bignamini del sapere, ma se lo rimandi a scuola, a imparare a leggere Proust o Joyce, poniamo. Tout se tient, a me pare. Se a te ancora no, ci ritorniamo. Dopo le rispettive (ri)letture, si capisce.

  12. @Gilda: grazie per la risposta precisa e puntuale. Ci sarebbe molto da discutere, ma forse si rischia di anticipare le (ri)letture (gl’intellettuali, si sa, non leggono mai: solo ri-leggono, perché forse la prima volta non hanno capito, io per primo). Il tema che proponi è importantissimo e meritevole di approfondimenti, benché a me interessi più quello che pensiamo NOI oggi (confrontandoci con i maestri come strumenti) anziché la ricostruzione storica (almeno qui). Dibatterei quindi più con te che con Sanguineti, visto anche che io non sono, né voglio essere, Pasolini.
    A te, quindi, chiederei se ti riconosci nell’idea su esposta di “riconoscere alla rivoluzione borghese il ruolo di scardinamento di secolari privilegi e il punto di partenza inevitabile per l’emancipazione delle masse”, e come replicheresti a chi riconoscesse nella rivoluzione borghese il ruolo di fondazione di nuovi privilegi (spesso affiancati a quelli secolari) e il punto di partenza della subordinazione e del controllo delle masse (senza nostalgie per l’Antico Regime, ma anche senza mitologie progressiste).
    L’utopia marxista di una società postrivoluzionaria in cui tutti occupino il posto che ha l’artista nella società borghese è infatti ben lontana dalla realizzazione (non essendo avvenuta la rivoluzione) e l’intellettuale che dall’alto dei suoi privilegi educa gli altri a emanciparsi perché siano come lui non mi sembra davvero rivoluzionario.
    Il mito del riscatto, a mio giudizio, è foriero di violenza, mentre la scuola dovrebbe puntare a una società coesa e a una socialità condivisa. Nell’uguaglianza delle opportunità, che è l’unico strumento democratico per opporsi alla legge del tutti contro tutti.

  13. “I borgatari, come lui stesso comprenderà molto bene nei suoi ultimi anni, non hanno nessuna intenzione di passare la vita a coltivar patate”.
    Ok, ma nella “Trilogia della vita” Pasolini non diceva questo. Forse sì, forse la Trilogia della vita ha come tema la “patata”, ma nell’altro senso. E solo ripartendo da qui, secondo me, possiamo capire in cosa consista l’Abiura.
    La Trilogia della vita (cioè i tre film Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte) mette in scena il sesso e il suo “linguaggio”, la potenza dell’eros, la lotta contro ciò che blocca il desiderio.
    La presa di distanza che Pasolini esprime nella “Abiura della Trilogia della vita” (1975) ha molto in comune con quel che scriverà Foucault un anno dopo nel primo capitolo de La volontà di sapere, intitolato “Noialtri vittoriani”. E’ falsante descrivere il rapporto tra sesso e potere in termini di repressione del primo da parte del secondo. i due termini di questa presunta relazione sono entrambi equivoci: cos’è la sessualità? Cos’è il potere?
    Negli stessi anni in cui i movimenti omosessuali cominciano la loro lunga battaglia per libertà e apertura, Foucault e Pasolini (due omosessuali che più volte, esplicitamente o implicitamente, affermarono di preferire e/o rimpiangere e/o trovarsi bene nella dimensione “iniziatica” del segreto e della doppiezza*) mettono in guardia tutti quanti (etero e gay), esortano a sospettare di quella libertà e di quell’apertura, sostenendo che il problema della sessualità non è (non è più?) la sua repressione. Ed è (anche) questo che Pasolini cerca di mettere in scena in Petrolio. E, ovviamente, è questo il tema di Salò. L’ultimo Pasolini si interrogava su questo. E se non fosse morto nel novembre del ’75, certamente l’anno dopo avrebbe trovato un alleato nel Foucault che avviava gli studi sulla sessualità. Che “what if” affascinante! Mi azzardo a dire “certamente” perché Pasolini conosceva le opere di Klossowski (amico di Foucault) e Bataille (grande ispiratore di Foucault).
    La riflessione partita allora sfocia, trent’anni dopo, nelle rappresentazioni del sesso che dà Walter Siti (non a caso altro omosessuale e studioso di Pasolini) nei suoi “oggetti narrativi”: in un libro come Il contagio non c’è proprio più nulla che somigli alla repressione sessuale denunciata dal freudo-marxismo, dal ’68 etc.
    E’ terribilmente riduttivo dire che Pasolini fu un “reazionario”. Certamente ebbe sussulti di quel tipo e tentò contrattacchi su quel terreno (“Io sono una forza del passato” etc.), ma in realtà, soprattutto nei suoi anni “corsari” (e già a partire dal ’68), Pasolini attaccò il nemico non nelle postazioni che stava abbandonando bensì in quelle che stava per occupare. In questo, al di là delle differenze di background, di lessico e di posizionamenti tattici, potremmo scoprirlo molto vicino a certo pensiero radicale francese.

    * Cfr. James Miller, La passione di Michel Foucault, Longanesi, Milano 1993; quanto a Pasolini, si paragona – con un certo compiacimento – a Mister Hyde in una lettera aperta a Calvino dell’8 luglio 1974, ora in Scritti corsari, Garzanti, 1990, p. 52: “Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita”. Il senso nascosto dell’affermazione sarebbe stato chiaro ai più un anno e mezzo più tardi.

  14. @Wu Ming 1
    La riflessione sul sesso e il potere (per usare le sue – di Pasolini – stesse parole: ”sull’anarchia del potere”) nell’ultimo Pasolini diventa riflessione sulla dinamica sadomasochistica inevitabilmente connessa ad ogni rapporto assoggettatore/assoggettato. Ne sono un esempio molto efficace il rapporto tra l’intellettuale Tristram e la schiava Giana in Petrolio (dove l’intellettuale sadico ha un moto di compassione, la schiava ha solo eseguito il compito e quando lui va via da lei, ”non si volta nemmeno a guardarlo”: uno dei passi supremi del libro), poi nella scena del Pratone, in cui la messinscena sadica diventa esplicitamente tale (Carlo si sottopone alla violenza ”come obbedendo”) e infine ancora una volta nella Visione, che riporta la riflessione sulla sessualità a quella riflessione antiborghese cui mi riferivo prima. Certo, Pasolini era un omosessuale: e la Nota di Petrolio sulla coppia ”maledetta” (che riecheggia un momento della sceneggiatura di Salò), è in realtà la diretta conseguenza dell’esaltazione della sodomia, e, mediatamente, dell’omosessualità come freno alla sovrappopolazione del mondo (e alla fame e alla miseria conseguenti): coppia=nuove bocche da sfamare (senza stare a citare il passo, che purtroppo non ho sottomano in questo momento).
    Quello che interessa maggiormente però nell’ultimo Pasolini è la sottomissione rassegnata delle vittime: dei giovinetti torturati a Salò il solo Ezio leva in alto il pugno, a segnare una protesta isolata, velleitaria. Gli altri subiscono senza nessuna contrapposizione (altro che lotta di classe…), come la schiava Giana. Non c’è emancipazione possibile, perché essere sfruttati o sfruttatori non è per Pasolini una condizione storica, suscettibile di traumi o di fratture, ma un problema di ruoli: al posto dei signori di Salò, i giovinetti si sarebbero comportati nella identica maniera. In uno scritto su questi argomenti (in cui senz’altro li ho espressi in modo meno frettoloso: qualora vi potesse mai interessare, vi fornirei gli estremi), mi capitava di riferirmi, per una concezione analoga del sadomasochismo connesso alle dinamiche di potere, al cosiddetto esperimento di Stanford, degli anni Settanta, in cui alcuni studenti furono alternativamente posti nel ruolo di carcerieri e carcerati, dimostrando, nel primo ruolo, un’identica e condivisa attitudine alla violenza e alla sopraffazione.
    Quanto a Siti, una volta ebbi modo di chiedergli in un’occasione pubblica quanto la messinscena sadica fosse per lui un debito esplicito e dichiarato a Pasolini e in particolare a Salò, ma lui respinse decisamente ogni rapporto genetico: i borgatari che Pasolini ama fino a morirne, per Siti sono mera materia narrativa (dixit), ma quella che in Pasolini è perversione, ovvero attitudine sadomascoshistica codificata in un senso sociale e condivisibile, per Siti è invece un’ossessione, di natura personale. Da una parte, cioè, più letteratura (quanto diverso è il memorabile Ruggero di Siti dai borgatari pasoliniani, in effetti), dall’altra meno, cioè Siti ”fa” l’artista che si vuole dentro le cose (mi chiamo Walter Siti, come tutti), salvo poi ostentare in ogni momento la posizione “extralocale”, in un punto di vista eccedente e superiore (la critica, se non sbaglio, che mosse Ferroni a Troppi paradisi).
    Insomma, sì, ripensiamolo da Foucault, Pasolini, ma anche dalle sue stesse opere, che di spunti teorici ne contengono fino a dir basta (a parte la bibliografia espressamente premessa a Salò, che, certo, cita direttamente Klossowski, per dire).

  15. Credo che Siti abbia ragione a rigettare pubblicamente una “filiazione” dei suoi personaggi da quelli pasoliniani, e a rivendicare tutt’altra attitudine. Rimane che senza Pasolini, difficilmente avremmo Siti. Siti è un rovesciamento del Pasolini pre-Abiura e un inveramento di quello dell’Abiura. Non più l’imborghesimento dei corpi borgatari come fine dell’utopia (eterotopia?) di un corpo “innocente” non ancora agito dal potere, bensì un crescente “imborgatamento” dei corpi borghesi (l’esempio di Fabrizio Corona irrompe nelle pagine de Il contagio e dà la chiave di tutta l’operazione). Quando Michele Serra descrive l’Italia come “un Paese dove poveri tatuati guardano e invidiano ricchi tatuati”, sta descrivendo lo stesso fenomeno: non sono i corpi dei poveri (e qui sono d’accordo, meglio parlare di “sfruttati”) a imitare quelli dei ricchi e degli sfruttatori; sono i ricchi sfruttatori a tatuarsi come un tempo facevano solo marinai, delinquenti e membri dell’underclass. Comunque il discorso sarebbe lungo.
    Sul sadomasochismo visto da Pasolini, penso che Foucault avrebbe avuto moltissimo da dire, oppure – caratteristicamente – sarebbe rimasto in silenzio, salvo parlarne anni dopo, a sorpresa. Non ci è dato sapere se Foucault abbia visto Salò. E’ possibilissimo, vista la prossimità tematica e i riferimenti teorici comuni. Ma non mi risulta abbia mai menzionato Pasolini, a differenza di quanto fecero Deleuze & Guattari, che avevano letto Empirismo eretico e visto diversi film di PPP.
    Io, per chiarezza e per permettere a tutti di approfondire laddove possibile, darei sempre ogni sorta di estremi, link, riferimenti bibliografici etc. Le discussioni diventano viaggi, spedizioni, avventure. E’ il bello della rete.

  16. @Wu Ming 1
    D’accordo, allora, come si direbbe in un saggio accademico, su Pasolini e il potere e Pasolini e il sadomasochismo (e il neocapitalismo, con gli annessi e connessi prima accennati) mi permetto di rinviare al mio ”Il potere come degradazione e l’apocalissi come soluzione: Pasolini da Salò a Petrolio”, in ”Apocalissi e letteratura”, a c. di I. De Michelis, Bulzoni, Roma 2005 (disponibile anche, udite udite, in PDF!) al seguente indirizzo:
    http://www.disp.let.uniroma1.it/fileservices/filesDISP/POLICASTRO.XP.pdf
    E, su tematiche affini, con restrizione del campo all’ideologia antimodernista, ”Pasolini antimoderno: l’utopia negativa di Salò e Petrolio”, in Atti del convegno Adi 2008, questo addirittura SOLO in pdf:
    http://www.italianisti.it/fileservices/Policastro%20Gilda.pdf
    Infine, tangenziale ai temi trattati e specificamente dedicato alla Visione di Petrolio (ma stavolta ahinoi, senza il pdf), ”L’inferno pasoliniano tra mimesi e parodia”, in G. Policastro, ”In luoghi ulteriori. Catabasi e parodia da Leopardi al Novecento”, Giardini, Roma-Pisa, 2005. Per evitare che paia uno spot autopromozionale aggiungo che basta leggerne uno dei tre (magari l’ultimo, in ordine di tempo, cioè il secondo citato, che sussume le posizioni precedenti): il critico com’è noto si arrovella sempre attorno a un’unica questione, e la ripropone ossessivo e ossessionante…

  17. @Loredana: scusa, ma mi sono fatto prendere dalla ruvidezza. Adotterò toni più morbidi. Per quanto riguarda la mail hai espresso un parere irreversibile. Se dovesse continuare lo stalking (di uno/a che a quanto pare non e amico-a né mio, né di Gilda, non ho problemi a mettere a nudo la mia mail, ovvero sul blog.
    WM1: puoi scrivere cose interessanti senza necessariamente fare la conta degli omessuali in letteratura (per sempio Siti). Pasolini, per giunta, detestava la parola “gay”.
    Postato martedì, 27 luglio 2010 alle 2:32 pm da vincent

  18. WM1 Scusa per il pensiero monco e scemo, ma Loredana mi ha rimesso in moderazione (o dentro o fuori, dimmelo con chiarezza, dei miei commenti si può benissimo fare a meno; io li trovo quasi sempre peggiori rispetto alle intenzioni, ma sui toni moderati mi sembra di aver appreso qualcosa).
    – Se la Policastro pensa che i borgatari pasoliniani non hanno voglia di coltivare patate dice il vero (infatti lo fanno gli immigrati sottopagati e senza permesso di soggiorno), Siti parla di una forma di omologazione che Pasolini aveva previsto molto di sfuggita. Poi definire tout court PPP solamente un “reazionario” mi sembra un altro paio di maniche.
    Ma questa definizione così netta e definitiva sta perdendo mordente negli interventi degli uni e degli altri.

  19. Pasolini non poteva prevedere la forma di omologazione odierna per un fatto ovvio: è stato ucciso nel 1975 e in trentacinqueanni tanto è cambiato in meglio, ma tanto in peggio (l’elenco lo conosciamo tutti plus ou moins).
    Vincent

  20. @ Vincent,
    sono intervenuto proprio per contestare la definizione di “reazionario”. Non ho usato la parola “gay” per Pasolini, e il riferimento agli omosessuali mi sembrava abbastanza chiaro: per un omosessuale, soprattutto in quegli anni “pionieristici”, ogni riferimento alla repressione del desiderio risultava amplificato, quella repressione era vissuta sulla pelle. A maggior ragione, la constatazione che tale repressione non era quel che sembrava (per dirla con Foucault, “scegliere il sesso non significa di per sé essere contro il potere”) risultava ancor più controcorrente. Che questa riflessione l’abbiano fatta quasi contemporaneamente Foucault e Pasolini, entrambi omosessuali, non credo sia fortuito. Dopodiché, chiaro, c’era una bella differenza tra i rispettivi modi di vivere il sesso e l’omosessualità. Foucault collaborò coi movimenti di liberazione omosessuali, finanziò il giornale Le Gai Pied, mentre Pasolini si tenne ben lontano da gruppi come il F.U.O.R.I. etc.
    Non ho nemmeno detto che Pasolini abbia previsto nei dettagli l’omologazione descritta da Siti. Ho scritto che lo scenario dipinto da Siti invera quel che scriveva Pasolini nell’Abiura (e, aggiungo, anche quel che scriveva Foucault ne La volontà di sapere): il “divieto del sesso” non è LA strategia principale del potere, semmai è una strategia locale, singolare, che in certe fasi ha prevalso sulle altre. Il rapporto tra sesso e potere si basa su un continuo “discorso sul sesso”, sollecitato in tanti modi, e dunque una società può esercitare il potere sul sesso “iper-sessualizzando” le pratiche e i discorsi. Non è quello che ha fatto il berlusconismo? Nel berlusconismo non c’è “pruderie” né “divieto del sesso”, c’è anzi la continua titillazione para-pornografica dell’immaginario. Si guardi a quello che questo blog analizza ormai da anni, si pensi al documentario “Il corpo delle donne”, si rammenti il “puttanierismo” al potere nel nostro Paese. Siti descrive un mondo in cui tutti chiavano, sperimentano perversioni, hanno ogni orifizio proteso al piacere, vivono un’esistanza satura di sesso discusso e praticato, eppure sono infelici e in balìa di forze più grandi di loro, la loro vita è squallida e senza direzione. E’ lo scenario dell’Abiura, ed è la critica che Foucault faceva all’impostazione freudo-marxista (e al pensiero del ’68). Ipostatizzando una strategia locale (il “divieto del sesso”), descrivendola come operativa sempre e comunque, non si è capito che il rapporto tra sesso e potere può essere di segno molto diverso e non per questo produrre soggettività più libere.

  21. Cicliche chiacchiere, non necessariamente estive, tendenti alla grafomania, o no?
    Adesso addirittura storici del Movimento LGBT. Me ne compiaccio. Vedete di non titillarvi troppo i da voi citati orifizi. In fondo perfettamente post-berlusconiani, o no?

  22. @Wu Ming 1 Anche e proprio rispetto alla meditazione (nella teoresi o nel vivo dell’opera, che è fatalmente trasversale, in un autore come il nostro) sul sesso, io ribadirei il reazionario di prima, invece. E non tanto o non solo per l’Abiura, ma soprattutto per il ”Soggetto per un film sopra una guardia di PS”, sempre del ’75, in cui il permissivismo sessuale è associato in modo molto originale non già alla liberazione sessuale ma alla fine del mistero del sesso, e dunque alla sua perdita di sacralità e al conformismo e alla mercificazione che ne derivano. Questa posizione per Massimo Fusillo, ad esempio, anticipa la concezione neocinica di Sloterdijk, per cui, ancora una volta, un approccio apparentemente storico (il male deriva dall’imbroghesimento e dal neocapitalismo, in soldoni) diventa mitizzazione di un passato mitico e ideale e prevalentemente letterario, se vogliamo, in cui la donna era mero oggetto di contemplazione e, appunto, di mistero, mentre il neocapitalismo l’avrebbe ridotta a merce di scambio. (Se si rileggono le novelle del da lui molto amato Decameron, dove finisce però questa concezione del mistero, e della donna come ignoto da contemplare? Dove si colloca, in quest’ottica, a tacer d’altro, quella mirabile dichiarazione di indipendenza sessuale di Monna Filippa che ”quello che avanza” dalla soddisfazione dei piaceri del marito non pensa certo di ”gittarlo ai cani?”).
    Non è incongruo dunque che il sesso e la pornografia finiscano per coincidere del tutto, nel Soggetto per un film etc. dal momento che la seconda vende il primo come se fosse qualcosa di proibito, laddove il sesso è da un lato ”sempre dato e ovvio” e dall’altro ”fruibile in qualunque momento”.
    E se pensiamo all’uso giocoso (in un senso evidentemente sociale e relazionale) che del sesso ha fatto invece Sanguineti (anche lui estimatore, ma in un senso tutto diverso, evidentemente, del Decameron) ecco che la contrapposizione di cui @Jossa prima negava la legittimità torna di grande momento.
    (Piccola parentesi lessicale: prima, leggendo @Vincent uno e bino, mi è venuto in mente che il termine gay in Italia è arrivato piuttosto tardi: mi pare l’abbia introdotto Arbasino negli anni Settanta, ma posso sbagliare: ne dava, credo, notizia Franco Buffoni in Zamel, se lo ritrovo. Dunque se a Pasolini poteva parera diciamo troppo dandy, oggi credo sia pressoché equivalente a omosessuale, senza alcuna connotazione. O sbaglio?).

  23. @ Gilda Policastro,
    come dicevo in un commento sopra, credo che la definizione “reazionario” applicata a Pasolini sia “riduttiva” (questo è il termine che ho usato), il che non vuol dire che sia completamente campata in aria. Ribadisco: Pasolini ha avuto sussulti di quel tipo e ha tentato contrattacchi su quel terreno, e figurarsi se io posso essere d’accordo con qualsivoglia rievocazione di presunti “bei tempi” in cui il soggetto e il suo mondo erano incontaminati etc. Come lo chiamava lui: “l’illimitato mondo contadino preindustriale e prenazionale”. Ogni origine è inventata ex post, di “bei tempi” non se ne sono mai visti e, nello specifico, l’Italia contadina faceva veramente schifo. Una mia bisnonna morì a 42 anni dopo aver partorito undici volte. Un nonno della mia compagna morì di setticemia dopo essere stato morso da un topo. Chi rimpiange questa roba non ha il mio plauso.
    Ma Pasolini è un animale più strano e sfaccettato di quanto ci consegnino la vulgata, l’agiografia e le descrizioni dei detrattori. Perché pur avendo infuso nella sua critica al neocapitalismo la nostalgia del mondo preindustriale, sapeva bene che a quel mondo non si poteva tornare in alcun modo, non se ne conservavano più “sacche” praticabili. Quindi non è un reazionario, sarebbe davvero troppo semplice. Il Pasolini nerissimo dell’ultimo biennio di vita non vagheggia alcun ritorno al passato, anzi, non vagheggia proprio nulla. Non vuole restaurare niente. E’ convinto che si possa soltanto andare avanti e più a fondo nella critica, e non rifiuta il mondo e i mezzi che gli fornisce la modernità: usa le tecnologie, va in tv, dibatte sui rotocalchi… E si imbarca in imprese titaniche, gira il film più estremo mai girato e ne prepara altri che vadano oltre, si impegna nella stesura del romanzo più mostruoso mai scritto… Affonta istanze e temi come il sadismo, il masochismo, i doppi vincoli, i dispositivi in cui è presa la soggettività. So che questa fraseologia non gli appartiene, ma forse, lungo il percorso intrapreso, l’avrebbe presto incontrata. Il Pasolini che parla male della parola “speranza” lo fa perché la speranza irretisce, e lui vuole rimanere all’erta. uno così è sempre pronto a un radicale “reset”, a incontri rivitalizzanti. La morte di Pasolini agisce retroattivamente e falsa la prospettiva, ci fa pensare a una Passione e Morte di San Pier Paolo: “è finito il mondo contadino, e adesso finisco anch’io, vado a immolarmi per le strade, muoio per voi”. Ma non è così, nel 1975 Pasolini non pensava affatto di vivere il suo ultimo anno di vita, era proiettato verso il futuro. Perché è vero che era “nerissimo” nella poetica e nella riflessione, ma è anche vero che, come scrive Paul Veyne a proposito di Foucault, “nella pratica, la più demoralizzante delle teorie non ha mai demoralizzato nessuno, neppure il suo autore”.
    Veyne prosegue così: “Si deve pur vivere. Schopenauer ha vissuto a lungo e Foucault, da buon nietzscheano, amava la vita ed esaltava l’incontenibile libertà umana. Non mi spingerò a fare del suo scetticismo una filosofia con un happy end edificante (lui stesso aveva scelto di servirsene come di una critica), ma alla fine vedremo che il pensiero del nostro filosofo-lottatore ha esiti corroboranti.”
    Veyne scrive questo in polemica con quanti – stoltamente – definiscono “paralizzante” (perché “demoralizzante”) la visione che emerge dagli scritti di Foucault. Ecco, l’opera dell’ultimo Pasolini non la trovo demoralizzante, e non demoralizzò nemmeno il suo autore, perché “bisogna pur vivere”. E non la trovo semplicemente reazionaria, perché ha come premessa una frattura irreversibile, a partire dalla quale si può solo dire: vediamo che si può fare. Senza speranze, ma vediamo che si può fare.

  24. @WM1
    Tu dici: l’ultimo Pasolini non rimpiange il mondo contadino, ed è vero, ma non perché lo demitizzi in quanto tale, bensì perché se ne sente tradito. In questo, hai ragione, il suo pensiero è talmente sfaccettato da essere contradittorio: da un lato il sesso vitale della Trilogia, la (presunta) joie de vivre borgatara gli appartengono come mitologia atemporale, dall’altro registrare come il capitalismo le abbia spazzate via pertiene certamente di più a un indirizzo di pensiero storicizzante. Nondimeno, rimpiangere mondi di miseria e di arretratezza culturale, in cui si parlava una lingua a capire la quale i nuovi borgatari imborghesiti avrebbero avuto, stando allo scritto su Accattone messo in onda in tv ”dopo il genocidio”, bisogno di un dizionario (ed è tra l’altro tornata d’attualità questa tematica della lingua con la sottotitolatura ai tg delle ragazzine ”borgatare” di Ostia che hanno impazzato su youtube col loro gergo ”coatto”, guadagnandosi non a caso l’epiteto di ”pasoliniane: ma che lingua è quella che ti ghettizza, che ti allontana dal tuo stesso pensiero, quando lo esprimi con la limitatezza di un formulario ridotto a pochi fonemi combinati a caso), mi pare, una volta di più, reazionario.

  25. Signora Gilda,
    la prego, si astenga.
    Esprima, se vuole, la sua sentenzina sulla ‘letterarietà’ di PPP. Faccia pure, se crede, uno sproloquietto su ‘lingua e stile’ del medesimo.
    Eviti, la prego, sconfinamenti etico-politici e giudizi annessi.
    Vede, oltre le epocali castronerie dei precedenti dibattiti, ero molto colpito dal trovarmi di fronte a un’impostazione di pensiero, la sua, che mi appare tra le più viete e reazionarie che abbia avuto modo di scorgere di recente.
    Eppure lei è, credo sinceramente, convinta di essere tra le punte di diamante della Revolucion prossima ventura.
    Perbacco, scrive sul Manifesto!
    Io invece ho solo fatto tre anni di militare a Cuneo.
    Dunque, la materia è vieppiù scivolosa. Le sarei davvero grato se rimanesse nel suo.
    Se continuasse a irrorarci solo di quelle dorata pioggia ‘letteraria’.
    L.

  26. Non ho il testo sotto mano, ma mi sembra di ricordare che, in un passo degli Scritti corsari, Pasolini si sia espresso più o meno in questi termini: negli anni ’40 e ’50 noi lottavamo per l’emancipazione delle classi subalterne e per migliorare le condizioni materiali di vita delle masse, ma pensavamo che, una volta raggiunto questo obiettivo, operai e contadini avrebbero comunque mantenuto la loro peculiare visione del mondo e la loro alterità rispetto alla cultura borghese. E’ invece avvenuto (continua Pasolini) l’esatto contrario: le classi subalterne sono rimaste tali, ma hanno introiettato la “Weltanschauung” della borghesia, e questa contraddizione tra essere e coscienza le rende infelici e nevrotiche, potenzialmente criminali, e disponibili ad avventure di tipo fascista. Va aggiunto che (come si può leggere sempre negli Scritti corsari) Pasolini si adirò moltissimo contro un giornalista che lo accusava di nutrire nostalgie per l’Italia del ventennio.

  27. Il giornalista era Casalegno de “La Stampa” (più tardi ucciso dalle BR) e Pasolini minacciò di prendere il treno per Torino e “passare alle vie di fatto”.
    Comunque, il fatto che stiamo qui a discuterne e ogni volta troviamo nuove sfaccettature, testimonia che quella fase della vita e della mitopoiesi di Pasolini sono ancora vitali. Vuol dire che là dentro ci sono dei nodi che sono irrisolti non per lui, ma per noi (è quello che ho cercato di dire in “Branco ’75” a proposito di branchi e femminicidio). E questo non testimonia necessariamente di una incoerenza di quel pensiero, da contrapporre a una teoria più rigorosa etc. Forse testimonia di una “incoerenza” del quadro. Le aporie sono del Paese. E forse queste aporie le coglie meglio Pasolini di quanto facciano altri più ideologicamente “quadrati”. Del resto, per dirla con Deleuze, a un filosofo chiedo i concetti, a un artista chiedo gli “affetti” e i “percetti”. Pasolini era certamente un pensatore ma non si è mai detto filosofo. Cercava di affrontare nell’arte gli stessi problemi che altri andavano affrontando in filosofia. Da qui il mio “what if” di un suo incontro con Foucault.

  28. E aggiungo: la prassi di Pasolini è tutto fuorché anti-moderna. Continua a fare cinema, ad andare in tv, a scrivere sui giornali, per un breve periodo fa anche il direttore responsabile di “Lotta continua”. Insomma, non è Evola né Guénon! Non limitiamoci ad analizzare quello che Pasolini scrive, guardiamo al rapporto tra quello che scrive e quello che fa. La sua prassi è continuamente volta a “relativizzare” e a non rendere soffocanti i contenuti della sua predicazione, a lasciare degli spazi aperti. Anche in questo si può tentare un parallelo con Foucault.

  29. “What if”, ma poi mica tanto, perché tra Pasolini e Deleuze (che a sua volta è stato in quasi costante contatto con Foucault, con un continuo travaso di concetti) il rapporto diretto c’è (Deleuze riprende da Pasolini la teorizzazione di una lingua di divenire, e in questo modo recepisce attraverso Pasolini Contini). E perché il più acuto lettore di Foucault, in quegli anni, era l’altra figura “negativa” (nel senso nietzscheano) della cultura italiana, Leonardo Sciascia.
    Sanguineti non sembra mai aver notato (o non aver dato retta a chi glielo faceva notare) che uno dei concetti politici più caratteristici di Pasolini – la necesità di fare una rivoluzione per salvare il passato – è stato espresso con lo stesso senso e la stessa origine (“il sogno di una cosa” del giovane Marx) da Benjamin (che pure Pasolini non conosceva).
    Per riprendere Deleuze, è poco interessante sapere cosa ha veramente detto Tizio, lo è molto di più prolungare i suoi concetti in un nuovo divenire: poco interessante difendere Pasolini dal’accusa di essere effettivamente stato reazionario (fermo restando che lo si può fare, lo si è fatto, e si è dimostrato che non lo è), molto più interessante chiedersi cosa di nuovo possiamo creare a partire da Pasolini.

  30. Tutto giusto quello che scrive Girolamo, puntalizzerei però che dopo la pubblicazione de La volontà di sapere e alcuni screzi coevi sul caso Klaus Croissant e sulla questione medio-orientale, Deleuze e Foucault smisero di frequentarsi e, a quanto dicono i biografi, non si incontrarono mai più. Un divenire interrotto, e forse un ponte di corda in meno per il Pasolini del nostro mondo parallelo 🙁

  31. @WM1, girolamo Posso citare uno stralcio dall’ultima intervista lunga rilasciata da Edoardo Sanguineti, poco prima della sua morte? Lo cito. ”Quando si parla di scrittori impegnati, per i decenni passati, gli esempi che vengono addotti sono esempi secondo me tutt’altro che persuasivi. Pasolini, ho avuto molte volte occasioni dirlo, se fosse stato serio non avrebbe mai scritto quello che ha scritto collaborando al Corriere della Sera. E’ uno dei più importanti giornali del capitalismo avanzato, il più autorevole, e se in Canada e in Australia vogliono sapere qualcosa dell’Italia, il “Corriere” è notoriamente il giornale più solido, con una sua tradizione. Ma Pasolini, ho detto anche questo molte volte, era un fiero reazionario. La sua simpatia è sempre andata al sottoproletariato (prima poteva essere quello friuliano, poi i borgatari romani e poi i giovani dell’Africa settentrionale), ma aveva un’opinione che avrebbe fatto inorridire qualsiasi materialista storico. Marx ed Engels partono infatti dall’elogio della rivoluzione borghese, che è certo un elogio funebre, perché ormai ci sono i proletari, ma senza la rivoluzione borghese non sarebbe mai nato il proletariato. Questa consapevolezza mancava completamente a Pasolini. [segue lungo passaggio polemico nei confronti di Fortini]. Ecco, quando si fanno questi nomi di intellettuali politicamente impegnati, io ritengo che ci sia un unico tratto per cui si riconosce un uomo di sinistra: se un intellettuale ancora oggi deve aspirare a qualcosa, è essere organico al proletariato, alla classe. Se il proletariato è consapevole, non c’è che adeguare questa consapevolezza ai problemi che ogni nuova epoca pone; se non esiste questa consapevolezza bisogna fare quel lavoro che Gramsci splendidamente nei Quaderni definisce “molecolare”, per cui masse intere possono anche spostarsi da un partito all’altro a ogni elezione. Ciò avviene attraverso la conversazione tra le persone, al bar, dal barbiere, in treno, in gita la domenica: gruppi sociali interi, attraverso questi movimenti molecolari, da bocca a orecchio, si trasmettono le idee, e l’unica speranza che ho io oggi, in un mondo che pure affretta la propria rovina, è ancora questo lavoro molecolare”.
    (da “Reportage”, n. 2, 2010)
    Non mi pare che in Pasolini ci sia mai stato questo anelito al movimento molecolare del pensiero, quanto, piuttosto, una caparbia ostinazione a rivendicare i propri miti (sia pure attraverso la loro palinodia, come dimostra l’Abiura che è il canto nostalgico dell’utopista tradito dalla storia). Che poi questa ostinazione passi attraverso le forme della modernità, non mi pare di per sé un tratto ideologico: altrimenti non esisterebbe l’ideologia destrorsa nella rete, per dire, che è il medium più avanzato a disposizione nella nostra modernità. E invece basta leggere anche solo in questa discussione le (per fortuna stavolta sparute) azioni di disturbo dei soliti molestatori, per smentire l’equazione medium=ideologia.

  32. @ WM1 [“Non limitiamoci ad analizzare quello che Pasolini scrive, guardiamo al rapporto tra quello che scrive e quello che fa”] Sicuramente, ma secondo me è anche importante cercare di non travisare ciò che Pasolini effettivamente scrisse. L’uso di tecnologie modernissime di comunicazione, di per sé, non sarebbe una garanzia: ci sono vari esempi di reazionari che si avvalgono spregiudicatamente dei mass-media più aggiornati. In Italia abbiamo avuto D’Annunzio, che scriveva per il cinema e per la pubblicità. In generale (riprendo un’osservazione di Furio Jesi) i profeti apocalittici amano esprimersi su quotidiani a larga tiratura, come Ceronetti, oppure sono poligrafi instancabili come Cioran o lo stesso Evola. La differenza tra Pasolini e costoro è proprio nei contenuti.

  33. @ Gilda, non è una questione di medium = ideologia, cioé: se usi la rete non sei un reazionario. Figurarsi, il culto fascista delle macchine è lì a dimostrarlo. Parlo più in generale di prassi. Prassi legata allo stesso bìos di Pasolini, alla sua forma di vita. Pasolini non si chiude in una lamentazione sterile e individualistica, non perde la fiducia nel comunicare, nel fare e nel creare (perché “bisogna pur vivere”), ma approfitta di ogni occasione di incontro, anche e soprattutto delle occasioni contraddittorie, che stanno dentro le aporie di cui sopra. In questo è non paralizzante bensì (uso l’aggettivo scelto da Paul Veyne) “corroborante”.
    Su Marx, attenzione. Perché è vero che parte dall’elogio della rivoluzione borghese (e io, nonostante tutte le contro-teorizzazioni messe in piedi nel XX secolo, su molti piani continuo a essere d’accordo, senza Napoleone non saremmo nemmeno qui a parlare), ma negli ulltimi anni, in scritti tuttora poco conosciuti dai “marxisti”, appare molto più sfiduciato sul ruolo emancipatore del capitalismo e addirittura (in una celebre e più volte riscritta lettera alla socialista russa Vera Zasulich) ipotizza che la comune contadina russa (la “Obscina”) possa essere un viatico per il socialismo *senza passare per la rivoluzione borghese*. Questo è un Marx molto più vicino a Pasolini che a Sanguineti. Ma non vorrei addentrarmi nell’esegesi marxiana, per carità. Questo gigantesco OT è diventato troppo specialistico, penso ci saranno altre e più consone occasioni di confrontarsi.

  34. @ Salvatore, ci siamo incrociati.
    “La differenza tra Pasolini e costoro è proprio nei contenuti.”
    No, è proprio diversa la loro prassi (che include anche i contenuti ma va oltre). Ceronetti ed Evola sono scrittori del vaticinio calato dall’alto e del rifiuto (sovente manieristico) del mondo; Pasolini è uno scrittore dell’incontro e dello stare comunque nel mondo. E’ molto diverso.

  35. Anch’io penso che dal fondo di questo chilometrico dibattito non sia il caso di sprecare l’occasione di una discussione seria e importante, che troverà altri momenti. Mi limiti a due precisazioni.
    @ WM1
    Certo, Deleuze e Foucault avevano interrotto qualcosa che li legava. Però la pubblicazione dei Corsi di Foucault sta dimostrando che il discorso sulla società del controllo dell’ultimo Deleuze aveva presente in modo molto attento quello che Foucault andava insegnando all’Ecole Normale.
    @ Gilda
    Sul “Corriere”, all’epoca, scrivevano anche Foucault e Sciascia, certo non tacciabili di collaborazionismo con la borghesia (anche se si è liberi di pensare che scriere sul “Corriere” comporti questo). Ma negli stessi anni Sanguineti collaborava con quei “bocciofili in doppiopetto cultori della litote” (sono parole di Pasolini) che erano i dirigenti del PCI, che Pasolini considerava espressione di un imborghesimento del ceto politico che avrebbe dovuto difendere la classe operaia (mentre Sanguineti dava per scontato, nelle dichiarazioni politiche dell’epoca, che il punto di vista della classe fosse quello che si esprimeva nella poltica del PCI). E dunque, a parti invertite, anche Pasolini avrebbe potuto rilasciare un’intervista su Sanguineti dello stesso tenore di quella che citi. Ma oggi, in un momento in cui si può riconsiderare l’opera di Sanguineti e in cui è doveroso impedire che ciellini e neofascisti si approprino delle ceneri di Pasolini, è davvero importante riproporre un derby Sanguineti-Pasolini?

  36. @ Gilda Policastro: sono quasi certo che il termine gay, in Italia è arrivato nel 1969 e Pasolini lo destestava proprio perché prevedeva un gruppo di persone che lottavano per la liberazione omosessuale. Arbasino ridicolizzava il tutto e ne faceva una questione “linguistica”. uindi ribadisco quello che hai scritto tu correttamente. Ora che l’equivalenza tra gay=omosessuale sia oggi cosa acclarata mi lascia dei dubbi, ma evidentemente perché omosessulae mi fa pensare a omofobia.
    @WM1: sono d’accordo con Gilda Policastro quando scrive:”il permissivismo sessuale è associato in modo molto originale non già alla liberazione sessuale ma alla fine del mistero del sesso, e dunque alla sua perdita di sacralità e al conformismo e alla mercificazione che ne derivano”. Lei ne fa una posizione tout court “reazionaria”, che non condivido, ma nei tuoi illuminati commenti associ troppo Pier Paolo Pasolino a un mondo internettiano che non poteva certo conoscere. Semplifico in modo sgraziato, ma qui mi sembra sia il busillis.
    E in ogni caso Petrolio è illuminante anche per avallare un concetto così definitivo come “reazionario”.

  37. E che l’omobia anche sottile e ammantata di finto umorismo sia uno “spettro mostruoso” soprattutto in questi tempi cupi mi sembra evidente anche in alcuni posts precedenti.

  38. Qualcosa si e’ inceppato nel meccanismo. Fra venti anni magari ripasso e vi trovo ancora a cianciare dei soliti due o tre punti cardine su cui NON si gioca il futuro della letteratura italiana!
    Avrei tante cose da scrivere sui “gay”, ma davvero non perdo il mio tempo con dei bambini con ancora il latte alla bocca. Walter Siti compreso. Fra l’altro un autore a cui la comunita’ omosessuale dovrebbe guardare con diffidenza.

  39. @ Vincent
    “nei tuoi illuminati commenti associ troppo Pier Paolo Pasolino a un mondo internettiano che non poteva certo conoscere”
    Cioè? Mi citi dove avrei associato Pasolini a Internet? Che c’entra Internet col discorso sull’Abiura della Trilogia della vita?

  40. WM1 Chiedo venia, in questi giorni ho un po’ trascurato il blog e i vostri posts sono lunghissimi e io mi perdo – il solito mio problema – non ci sono associazioni tra Pier Paolo Pasolini e Internet nei tuoi commenti, in effetti. Ho travisato una frase di Salvatore Talia che recita: “Ma secondo me è anche importante cercare di non travisare ciò che Pasolini effettivamente scrisse. L’uso di tecnologie modernissime di comunicazione, di per sé, non sarebbe una garanzia: ci sono vari esempi di reazionari che si avvalgono spregiudicatamente dei mass-media più aggiornati”.
    Ma a anche questa non è pertinente. Come giustamente hai scritto: “Questo gigantesco OT è diventato troppo specialistico, penso ci saranno altre e più consone occasioni di confrontarsi”.
    Facciamolo però, questo confronto, mi sembra necessario, soprattutto se ci sono tizi che hanno tanto da dire sui gay ma non perdono tempo con dei bambini con il latte in bocca. Qui si parla di letteratura e anche di Siti, @AMA, non di omosessualità. Chi meglio, chi peggio.

  41. grazie @tutti per la bellissima discussione, in part @Girolamo quando scrive “molto più interessante chiedersi cosa di nuovo possiamo creare a partire da Pasolini”.
    piuttosto che ingabbiare maestri e riferimenti, come piace @GP, a me sembra utile confrontarci con loro. Senza troppe precisazioni nozionistiche (tranne quando facciamo storia), perché oggi la responsabilità tocca a noi. Disse bene qualcuno, quando disse che “dobbiamo avere il coraggio di dire senza citare”, assumendoci la responsabilità del nuovo contesto e della nuova situazione storica.
    propongo perciò uno di quei giochini di riscrittura che @GP di solito piacciono tanto:
    ”Quando si parla di scrittori impegnati, per i decenni passati, gli esempi che vengono addotti sono esempi secondo me tutt’altro che persuasivi. Sanguineti, ho avuto molte volte occasioni dirlo, se fosse stato serio non avrebbe mai detto quello che ha detto da una cattedra dell’Università. E’ una delle più importanti istituzioni del potere borghese, la più autorevole, e se in Canada e in Australia vogliono sapere cosa si fa in Italia, l’Università è notoriamente l’istituzione di riferimento, con una sua tradizione. Ma Sanguineti, ho detto anche questo molte volte, era un fiero reazionario. La sua simpatia è sempre andata agli studenti (sia invitandoli a studiare per capirlo, atto supremo di hybris da parte di chi avrebbe il compito di spiegare, sia mitizzandoli come costruttori del futuro pensante), ma aveva un’opinione che avrebbe fatto inorridire qualsiasi materialista storico. Marx ed Engels partono infatti dalla CRITICA della rivoluzione borghese, che è certo l’atto di nascita del proletariato, ma anche l’inizio di un rapporto perverso tra capitale e lavoro. Questa consapevolezza mancava completamente a Sanguineti (che voleva che i proletari lottassero contro di lui, mentre lui se ne stava bel bello nei suoi privilegi borghesi: il dibattito Marcuse-Adorno avvenne un po’ prima di questa intervista).”
    Sia chiaro che è solo un gioco, per dire che le contrapposizioni servono a ben poco quando si lotta per un obiettivo comune (se non c’è, allora è un’altra cosa). ORA S e P possono pure andare a braccetto nel nome di una lotta verso il superamento del NOSTRO capitalismo. Tocca a noi, ancora una volta.
    Che dalle contrapposizioni nasca l’ARTE, poi, umanisticamente intesa (come se l’imitatio non fosse uno dei cardini delle poetiche umanistiche), vorrei che mi venisse spiegato da chi ne sa più di me.

  42. Mi segnala su Anobii l’utente “UT”:

    C’è una recensione/testo di Foucault, del 1977 su Le Monde, di “Comizi d’amore” di Pasolini, girato nel 1963, intitolata “I mattini grigi della tolleranza”. E’ interessante, sebbene molto breve, e mostra in modo altrettanto esatto quanto Foucault conoscesse il lavoro di Pasolini, Scritti Corsari compresi. Si trova sia nella monumentale “Dits et écrits” di Gallimard, sia nel numero 345 di Aut Aut il cui titolo recita: “Inattualità di Pasolini”.

  43. Anche perche’ a volte le citazioni di cui abusate sembrano solo delle borsette Vuitton che vanno dal tarocco al vintage ebay, indossate con fare da bella parvenue, o no? Tutti bravi con Google.
    @ vincent
    Siti non potrebbe mai darla a bere ad un gay ben strutturato, non trovi? E spero che non sia considerato letteratura! O lo e’?

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