SOLFA

No, non è la solita solfa.
O anche: sì, è esattamente la solita solfa (noia, tedio. Usato per qualcosa di poco interessante, un brano musicale o più spesso un discorso, una lamentela, una raccomandazione e simili, che vengono ripetuti fino a diventare monotono, noiosi, fastidiosi).
Dunque.
La parola femminicidio è nei titoli degli articoli, nel testo delle notizie di agenzia.  Ma, appunto, non basta.  Ieri, a Milano Marittima, un uomo, a lungo persecutore della propria ex compagna, fa fuoco su di lei e si uccide (” l’ha trascinata fuori dal negozio e l’ha colpita tre volte al petto, uccidendola. Poi ha rivolto la pistola verso se stesso sparandosi un colpo alla testa”). Non basta, per forza: perché le cose da fare sono note e non si avanza di un sol passo. Perché, si sa, le priorità sono altre.
Quale altra priorità possa esserci rispetto alla tutela della vita e della salute non saprei. Ma se affrontiamo l’argomento lavoro, le cose non sono cambiate. Che le donne lavorino (ancora) poco, che vengano licenziate, che vengano spinte a licenziarsi, che vengano ricattate con lo spauracchio del costo della maternità per l’azienda, che vengano non ricontrattualizzate, è, ancora una volta, la solita solfa.
Domenica scorsa ho dedicato la rubrica su Repubblica ai precari dell’editoria.  Soprattutto, guarda un po’, di sesso femminile. La rubrica, per inciso, diceva così:
“Mentre ci si sfinisce a dibattere su digitale e futuro del libro, il presente di chi ai libri lavora come redattore, traduttore, editor, viene raccontato in rete. E non è un presente sereno. Visitare, per credere, il blog editorinmaniototo. A gestirlo è un “redattore da laboratorio”, che di precarietà molto sa e molto scrive: nell’ultimo post, per esempio, invita i colleghi a fare un figlio come protesta e ribellione contro una situazione durissima, senza contratti veri o con part time «per lavorare full time, con contributi dimezzati» offerti da editori che «si beano del 30 e passa percento di disoccupati italiani giovani, perché così il terrore vi terrà silentemente aggiogati a loro, e dovrete abbeverarvi alla loro elemosina». Per scoprire cosa accade a una traduttrice divenuta madre da poco, vale la visita operaidelleditoriaunitevi (quanto rende una lettura dal russo di un libro di oltre trecento pagine? Poco più di cinque euro l’ora). Non solo: la titolare (Denisocka) per avere un figlio ha perso il contratto: «Un contratto vuoto il mio, a zero ore, a cottimo, a prestazione. Avvilente, umiliante, immeritato (nel senso che meriterei di meglio). Eppure averlo mi dava la sensazione di essere meno inguaiata di quello che sono, di sperare in qualcosa di meglio per il futuro. Diventare felicemente mamma mi è costato quella schifezza di pezzo di carta». Su editoriainvisibile, infine, ci sono i primi risultati di un’inchiesta sui precari dell’editoria. Dicono che l’inverno, davvero, sta arrivando”.
E’ la solita solfa? Ma certo che lo è. Vita, lavoro, rappresentazione, salute (possibile che non si riesca a fare una riflessione condivisa sul cancro al seno, su cui Grazia De Michele insiste giorno dopo giorno?). E in tutto questo, chiacchierando ieri pomeriggio con Dacia Maraini, ci guardiamo negli occhi e ci chiediamo come sia possibile quel che sta avvenendo in questi mesi, con il rapidissimo dissolversi non solo dell’attenzione ma anche dell’idea stessa di rilevanza delle questioni poste. Che non sono state risolte, ma chisseneimporta, passiamo ad altro.
E’ la solita solfa e, guarda un po’, continueremo a riproporla (perchè poi, come è scritto su Femminismo a Sud, c’è anche la parte del bicchiere piena a metà).

36 pensieri su “SOLFA

  1. … e poi, se si continuano a dire le stesse cose si vede che queste non cambiano.E’ facile accusare di “solita solfa”, più difficile è comprendere che si ripetano le stesse violenze… e non taceremo.

  2. Io invece penso che sarebbe ora di passare all’azione. La denuncia, da sola, rischia persino di portare all’assuefazione, cosa che, se si ascolta bene, sta avvenendo con la parola Femminicidio. La quale non dice niente se non si traduce in riconoscimento giuridico del reato al quale si darebbe quel nome. La domanda da porsi è: come mai le donne si esercitano quasi esclusivamente nella denuncia e non convergono quasi mai su niente, nemmeno sulla difesa della propria incolumità psico-fisica?

  3. Hai ragione, ma come? Sai cosa temo? Che anche diverse donne la pensano come quelli che si sono seccati della stessa solfa (se lo dico è perché ho avuto modo di confrontarmi diverse volte su questo) e questo è controproducente perché ci priva degli strumenti per agire. Sembra come se anche noi fossimo talvolta divise in fazioni… per questo parlare è importante, oltrepassare il muro del silenzio che molte e per svariate ragioni, costruiscono dentro se stesse.

  4. Noi siamo state fiere di aver partecipato ieri con te, Loredana, alla “solita solfa” durante la trasmissione radio che conduci, “Fahrenheit”. Una solfa che molti continuano a voler nascondere.
    E quella solfa ieri ha dato il coraggio a molti di venire all’aperitivo organizzato a Milano dai precari dell’editoria milanese.
    Il clima era splendido, le speranze tante, il cuore gonfio.
    Ancora grazie per averci dato voce. Quando vuoi siamo pronte al bis!

  5. Parlare, certo, scriverne e ci mancherebbe! ma non limitarsi a questo perché prende il posto dell’azione. Quale azione? Parliamone. Prima di tutto elencare ciò che non ha funzionato. Non ha funzionato l la petizione la ri-petizione. Cosa funzionerebbe? non chiedere ma imporsi, e come ci si impone? sottraendosi dal costante alimentare ciò che continua a funzionare (il mondo così com’è), togliersi dalla traiettoria omicida (femminicida) ovunque: nel lavoro, nella cura, nelle relazioni, nell’accudimento, nella complementarietà all’uomo. Insegnare alla figlie a non sposare uomini che vivranno soltanto del sostegno femminile. E studiare. Studiare soprattutto ciò che il Femminismo ha già scritto: non c’è niente da inventare, ma niente. Studiamo questo testo, per esempio.
    Da Alfabeta (n.20, giugno 2012)
    col titolo “Verso una civiltà androgina”
    Se a trionfare è l’ideale androgino
    Lea Melandri
    Che la cura, sotto l’aspetto di accudimento materno e di lavoro domestico, fosse una specie di Giano Bifronte, posta al centro di un ambiguo, invisibile annodamento di servitù e onnipotenza, debolezza e forza, amore e dominio, corpo e legge, era già chiaro dalla definizione contenuta nell’ Emilio di Rousseau. Ma bisogna aspettare qualche secolo prima che ne venga data, da una coscienza femminile anticipatrice come Virginia Woolf, una versione più veritiera: non un destino legato alla contraddittoria “natura” della donna, oscillante tra l’animalità e il divino, ma il fondamento, il supporto indispensabile della civiltà dell’uomo, espressione del suo dominio ma anche della dipendenza dall’altro sesso, luogo dove si danno insieme, intrecciate e confuse, l’inermità e la nostalgia del figlio, la violenza e la legge del padre.
    “…la prima educazione degli uomini dipende dalle cure che le donne prodigano loro; dalle donne infine dipendono i loro costumi, le loro passioni, i loro gusti, i loro piaceri, la loro stessa felicità. Così tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsi amare ed onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce (…) Il più forte è apparentemente il padrone ma di fatto dipende dal più debole.” (1)
    “Per secoli le donne sono state gli specchi magici e deliziosi in cui si rifletteva la figura dell’uomo, raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra sarebbe ancora palude e giungla. Tutte le glorie delle nostre guerre non sarebbero esistite (…) Giacché se la donna cominciasse a dire la verità, la figura nello specchio si rimpicciolisce; l’uomo diventa meno adatto alla vita. Come potrebbe continuare a giudicare, a civilizzare gli indigeni, a scrivere libri, a indossare il tight e pronunciare discorsi nei banchetti, se non fosse più in grado di vedersi riflettuto, a colazione e a pranzo, almeno due volte più grande di quanto veramente sia?.” (2)
    Benché evidente, nel suo prolungarsi molto oltre i bisogni dell’infanzia, il legame della cura con la volontà dell’uomo di garantire alla sua avventura pubblica un retroterra sicuro per la sopravvivenza lasciava però aperto l’interrogativo sul perché le donne stesse ne avessero fatto, loro malgrado, una ragione di vita. Sarà il femminismo degli anni ’70 a portare l’analisi e l’istanza di cambiamento fino alle regioni più remote e inesplorate della vita psichica, e a scoprire quanto la visione maschile del mondo si fosse incorporata, oltre che nelle istituzioni della vita pubblica, nel sentire profondo di entrambi i sessi. Alla luce delle nuove consapevolezze, la femminilità -e quindi i tratti identitari, i ruoli, i valori o disvalori che vi erano tradizionalmente connessi- veniva a collocarsi all’interno dell’impianto dualistico che ha contrapposto, complementarizzato e disposto secondo una preciso ordine gerarchico corpo e polis, infanzia e storia, individuo e genere. L’autonomia da modelli acquisiti e da rapporti di potere considerati “naturali” non poteva non interessare innanzi tutto la centralità che aveva avuto fino allora la funzione materna, estesa per determinismo biologico all’esistenza intera della donna: una sessualità cancellata e messa al servizio dell’uomo, l’esclusione dal patto sociale in quanto custode degli interessi della famiglia e della conservazione della specie. L’emancipazionismo, che aveva preceduto e per molti aspetti preparato il movimento di liberazione degli anni ’70, era costretto a ripensarsi sulla base di quella che ora apparivano “una vera e propria incongruenza”.
    “…gran parte delle associazioni, così come numerose intellettuali e pensatrici, rivendicano i diritti delle donne sulla base di quella stessa ‘natura’ usata per continuare a mantenerle in uno stato di minorità sociale, oltre che giuridica e politica. Le donne ribaltano però l’accezione negativa di quel modello: della sensibilità, della oblatività ‘femminili’, della maternità, tentano di fare il loro punto di forza, sostenendo che proprio questo loro compito ‘naturale’ richiede piena assunzione di responsabilità da parte loro nella politica e nella vita sociale.” (3)
    “…l’emancipazione ha rafforzato la categoria di genere dotando di rilevanza e dignità politica un insieme di contenuti psicologici, sociali, culturali, presupposti comuni a tutte le donne.” (4)
    A muovere le donne nella rivendicazione di una cittadinanza completa era stata l’idea che bastasse ridefinire in positivo la loro “differenza”, estendere le “virtù del cuore” fuori dall’ambito privato, certe che la “maternità sociale” avrebbe creato forme più umane di convivenza. L’emancipazione, ai suoi inizi, sembra che non possa percorrere che la strada già segnata dal modello dominante: da un lato diritti “neutri”, e dall’altro ruoli “naturali”, compiti specifici di un sesso e dell’altro, che avevano solo bisogno di essere riscoperti nella loro armoniosa complementarità. Dietro il dilemma “uguaglianza/differenza”, che porterà comunque le associazioni femminili tra ‘800 e ‘900 a gettare le basi dello stato sociale, si può dire che fa il suo ingresso nella polis il sogno d’amore, come ricongiungimento dei due rami divisi dell’umanità riportati alla coppia originaria madre-figlio. “Educatrici della società, rigeneratrici della coscienza umana” le donne, che come scrive Sibilla Aleramo “uniranno le loro voci alle più intemerate del paese”, riscoprono la “divina funzione domestica” come integrante forza creativa capace di risollevare uomini “un po’ tristi e un po’ smarriti” in un periodo di “transizione ansiosa”. (5) Solo l’impeto giovanilistico e rivoluzionario di una generazione che aveva creduto di poter abbattere in un sol colpo le barriere dello psichismo inconscio e di consolidati poteri economici e politici poteva far credere alle femministe degli anni ’70 di avere avviato una volta per sempre il processo di liberazione dall’identità femminile prodotta dall’uomo e la crescita, sia pure lenta, di un “io non conforme” ai modelli dati, una singolarità capace di ripensarsi in una dimensione collettiva , relazionale, fuori dall’idea di appartenenza a un “genere” coeso, valido per tutte le donne. La storia che è venuta dopo, dagli anni ’80 ad oggi, ha reso evidente che il paradosso -o forse sarebbe meglio dire l’aporia- sta nel cuore della differenziazione originaria: celebrando la sua vittoria sul trauma della nascita, trasformandosi da figlio inerme in padre, marito dominatore, l’uomo ha lasciato aperta la strada ad altri capovolgimenti. Troppo spesso si dimentica che le figure della differenza di genere, nella loro gerarchia e complementarità, strutturano rapporti di potere ma conservano anche il desiderio primordiale di un ideale ricongiungimento, la promessa del ritorno all’unità a due della nascita: fare di due nature diverse un solo essere armonioso. E’ questa “essenza di Eros”, l’amore nella sua forma originaria, che attraverso l’oblatività femminile, la dedizione alla cura dell’altro, mantiene la famiglia e per estensione la società stessa dentro vincoli di un’infantilizzazione tenera e violenta, dipendenze e prestazioni “ancillari” coperte da illusioni salvifiche? Il dubbio che l’emancipazione rinasca sempre dai sedimenti più arcaici della dualità ereditata da secoli di cultura maschile trova oggi la sua conferma sia nella femminilizzazione dello spazio pubblico -come richiesta di “talenti femminili” da parte della nuova economia, dell’industria dello spettacolo, della pubblicità, del consumo, ma anche come precarietà diffusa, crisi della politica, ecc.- sia nel modo con cui vengono affrontate e discusse dalle donne stesse le questioni sempre più pressanti della “conciliazione” vita e lavoro, famiglia e carriera, e della sottorappresentanza nei luoghi decisionali del potere. Dalle testimonianze e dalle inchieste che si vanno moltiplicando sulle esperienze di leadership femminile, emerge con chiarezza che è proprio la convergenza tra una crisi di sistema alla ricerca di nuove “risorse” e la tentazione mai tramontata nell’aspettativa di cittadinanza completa delle donne di vedere riconosciuto il “valore imprescindibile” della loro differenza, a ricomporre fuori dall’ambito domestico il sogno di armonia che è stato finora della coppia degli innamorati. Collocate all’interno di un’organizzazione del lavoro e modalità di esercizio del potere conformi a un’idea di virilità svincolata da obblighi di cura e riproduzione della vita, le donne, in virtù della loro doppia presenza, possono pensarsi portatrici di una interezza -“professionalità sensuale”, “intelligenza emotiva”- capace di nuovi equilibri tra esperienze che si sono fatte finora la guerra. Ma se la strada fosse davvero quella della critica radicale alla divisione dei ruoli sessuali e alla separazione tra privato e pubblico, che auspicava il femminismo degli anni ’70, come mai, mentre crescono i dati sulla marginalità persistente della rappresentanza femminile, sull’aggravio delle incombenze domestiche, sullo scacco a cui va incontro la maternità nei luoghi di lavoro, sembra inspiegabilmente diminuire la conflittualità?
    “Pensiamo al tradizionale ‘lavoro’ delle donne, il prendersi cura della famiglia: un lavoro gratuito, ripagato solo dalle relazioni affettive. Non c’è retribuzione perché si fa tutto per amore. Un meccanismo che le donne finiscono spesso per attivare anche nel lavoro, appunto perché anche lì è in gioco l’amore. Quante storie abbiamo letto, dove si parla del proprio lavoro con il linguaggio dell’amore, della passione? (…) L’eros che queste donne mettono nel lavoro coinvolge anche l’azienda, con cui le donne stabiliscono una relazione tipicamente femminile, basata su una forte lealtà, su una forte dimensione etica, che si esplicita nella cura degli interessi aziendali.” (6)
    “Stabilire buone relazioni, curarsi delle persone, è anche un modo di rispondere a un bisogno non sempre esplicitato: mettersi al riparo dal conflitto. E’ uno dei problemi che le donne vivono nelle relazioni di lavoro, o forse in tutte le relazioni.” (7)
    “L’uomo greco -ha scritto Geneviève Fraisse- esclude le donne reali mentre si appropria del femminile” (8). Viene il sospetto che la civiltà che abbiamo ereditato non abbia mai smesso di attingere, materialmente e simbolicamente, alle “risorse” che ha confinato fuori dalla polis, perché restassero immobili, eternamente uguali come le leggi di natura. Il declino del patriarcato sembra aver portato allo scoperto l’ideale androgino che si è portato dietro, fonte di ispirazione di filosofi, poeti, artisti, pensatori religiosi, figura di una maschilità temperata da sentimenti, emozioni, affetti in cui non era difficile per le donne riconoscersi. Se gli intellettuali nostrani non avessero tenuto in tanto discredito autori vicini al senso comune e all’immaginario collettivo, come Bachofen, Michelet, Mantegazza, non avrebbero bisogno oggi di interpellare tanti saperi per rendersi conto che la femminilizzazione della polis era già inscritta nel suo atto fondativo.
    “…questo nuovo liberto della società moderna è tollerato, non eguagliato a noi; è come un orfano raccolto per la via, che vive coi membri di una famiglia senza farne parte integrante. Se da concubina è diventata madre, un gran passo rimane a farsi perché diventi donna, o, dirò meglio, uomo-femmina, una creatura nobilissima e delicatissima, che pensi e senta femminilmente e completi così in noi l’aspetto delle cose.” (9)
    Di fronte al cambiamento profondo del rapporto tra privato e pubblico, e alla crisi di un modello di civiltà e di sviluppo, non si può più pensare che la questione della cura sia riducibile alla richiesta di servizi sociali, riequilibrio delle responsabilità famigliari tra uomini e donne, e nemmeno al “valore aggiunto” di eticità, pulizia, ordine, trasparenza, che potrebbe venire da una democrazia paritaria. Una prospettiva diversa, volta ripensare la cura come “piacere e responsabilità del vivere” , tempo di vita -e non solo maternità, accadimento e lavoro domestico- prezioso per entrambi i sessi, si è profilata come “rivoluzione possibile” nel convegno che si è tenuto a Milano il 18 febbraio 2012, promosso da associazioni e gruppi del femminismo storico (Libera Università delle Donne, gruppo lavoro della Libreria delle Donne, gruppo del mercoledì di Roma, Unione Femminile)- e che avrà un seguito in un incontro a Paestum in ottobre. Un ritorno, dal momento che a Paestum si tenne nel 1976 l’ultimo convegno del femminismo degli anni ’70, e una ripresa in grado oggi di trovare i nessi che ci sono sempre stati tra le “acque insondate della persona” e le tante metamorfosi di un potere che ha creduto di poterle ignorare per secoli e di cui anche i suoi critici più lucidi non sembrano tenere conto. Dialogando con Latouche, così scrive Antonella Picchio:
    “Condivido con Latouche il senso di pericolo e di insostenibilità inerente al sistema economico attuale e la consapevolezza della drammaticità della condizione umana in questo capitalismo aggressivo, predatorio, senza senso del limite. Condivisa è anche la volontà di creare nuove visioni, prassi e politiche che pongono al centro come obiettivo prioritario un mutamento delle condizioni di vita partendo da una riflessione sul senso e la qualità della vita stessa (…)Fino a quando gli uomini adulti non porteranno nello spazio pubblico e politico il loro disagio del corpo e della mente e non collegheranno in modo più sano tempi di vita e di lavoro, desideri e realtà, beni e relazioni, partendo dai loro corpi, insicurezze, emozioni, non c’è speranza di arrivare ad una buona vita liberata dalle devastazioni del lavoro salariato, della crescita insana, del consumo alienante.” (10)
    Note 1) J.J.Rousseau, L’Emilio, Armando, Roma 1962, pp.238-9. 2) V.Woolf, Per le strade di Londra, Il Saggiatore, Milano 1963, p.238. 3) A. Buttafuoco, Questioni di cittadinanza, Editori Toscani, Siena 1997, p.19. 4) M.L.Boccia, La differenza politica. Donne e cittadinanza , Il Saggiatore, Milano 2002, p. 5) L.Melandri, Come nasce il sogno d’amore, Rizzoli, Milano 1988 (ristampa Bollati Boringhieri 2002), p. 44-45. 6) L.Pogliana, Donne senza guscio, Guerini & Associati, Milano 2009, p. 157. 7) Idem, p.128. 8) G.Fraisse, La differenza fra i sessi, Bollati Boringhieri, Torino 1996. 9) L.Melandri, op.cit., p. 28. 10) A. Picchio, Relazione tenuta a Ravenna il 5.3.2011 in occasione di un incontro con Serge Latouche. Vedi “Gli altri”, 18.3.2011.

  6. scusate miriam e loredana de vita, ma com’è che due siete e tutte due siete concordi nel dire che le donne non convergono quasi mai su niente o che sembra che siete divise in fazioni? di preciso di cosa parlate? state parlando di femminicidio? non so se qualcuno si è seccato di sentir parlare di femminicidio, io personalmente trovo molto confuso il modo in cui viene usato, ma non importa. ma non si può immaginare che adesso che se ne parla magicamente le cose cambiano, è un modo sbagliato di porre la questione. un conto è il piano politico e legislativo e un conto è la vita. ad esempio mi ha stupito come nell’articolo di cronaca tutti gli intervistati erano concordi nel dire che l’uomo aveva problemi.

  7. @ miriam, leggo dal testo che hai linkato:
    ” L’eros che queste donne mettono nel lavoro coinvolge anche l’azienda, con cui le donne stabiliscono una relazione tipicamente femminile, basata su una forte lealtà, su una forte dimensione etica, che si esplicita nella cura degli interessi aziendali”
    ma tu ci credi?

  8. La mia risposta alle domande confuse poste dall’anonimo qui sopra sono tutte nel testo che ho postato precisamente prima delle sue domande. Possono studiare anche gli uomini sui testi delle donne, non è vietato, anzi è auspicato.
    In più personalmente ho detto esattamente quel che l’anomino ripete ma sicccome oltre ai testi del Femminismo, ho studiato anche la fenomenologia del troll, avverto che la sua tecnica, quella di agitare un flame rovesciando addosso al proprietario un argomento, serve ad introdurre una lacerazione nel ragionamento in modo che esso venga portato sui piani e sugli obiettivi propri del troll. Si tratta di trollismo politico. Si tratta di neomaschilsmo in azione.

  9. ti ho fatto solo delle domande… visto che stiamo su un blog con i commenti aperti, non vedo stranezze in atto. ti sei posta una domanda, come mai le donne eccetera? io ti ho chiesto, è vero quello che dici, le donne non convergono mai su niente? perché lo sento ripetere spesso. eppure qua le “donne” parlano e vanno spesso d’accordo. eppure c’è sempre questo ritornello. tutto qua. non credo di poterti rassicurare sul fatto che almeno da parte mia non c’è nessun tipo di neomaschilismo, fa niente.

  10. … non solo neomaschilismo,ma anche voluta cecità nel non voler capire che nella ricerca di confronto qualcosa si muove. E poi, non generalizzare… anonimo… non abbiamo detto che le donne non convergono in niente, ma che c’è ancora del cammino da fare. Noi almeno non facciamo ostruzionismo e leggendo, studiando, confrontandoci cerchiamo delle risposte e proviamo a costruire un significato. A proposito, sai che anche molti uomini stanno provando a uscire dal silenzio ridiscutendosi?

  11. Bé Loredana, io l’ho detto anche se ho detto “quasi su niente” ma è perché trovo fonte di ricchezza le differenze ed elemento di inquietudine il fatto che non c’è un’azione collettiva decisa sulla salvaguardia delle nostra incolumità. Però c’è finalmente un buon modo di parlare del fenomeno e delle sue case, ma che rischia di essere annientato, nella sua portata, dalla petizione e dalla ri – petizione. Chiedere agli uomini di mettere di farci violenza è insensato, chiederlo alle istituzioni lo è altrettanto perché sono degli uomini, cioè del soggetto che fa violenza alle donne, ai deboli, al pianeta e alle sue creature. Ci sono uomini che disertano il patriarcato e la parola diserzione è quella esatta perché si tratta di una guerra, la più sanguinaria perché è rivolta non solo alle donne, principalmente a noi ma è un modo di intendere la permanenza su questa terra, basata sulla violenza. Sulla violenza. Anche di chi finge di porre innocenti domande.

  12. miriam, ti chiedo scusa se ti sono sembrato violento, ma sto solo discutendo. metterla sul piano della diserzione dal patriarcato non mi piace. si può dire?. così come parlare di guerra.

  13. Stamattina un giornale titolava : Uccide l’ex accecato dalle liti per i soldi. Non e’ la solita solfa, non c’entrano gelosia, rifiuto, abbandono, il problema questa volta sono i soldi. Peggio quindi della solita solfa, perché da un lato c’e una negazione del femminicidio -non sarebbe stata uccisa perché donna- dall’altro invece ne esce l’immagine della donna un po’ puttana che dissangua le finanze del povero ex.

  14. “Chiedere agli uomini di smettere di farci violenza è insensato, chiederlo alle istituzioni lo è altrettanto perché sono degli uomini, cioè del soggetto che fa violenza alle donne, ai deboli, al pianeta e alle sue creature. Ci sono uomini che disertano il patriarcato e la parola diserzione è quella esatta perché si tratta di una guerra, la più sanguinaria perché è rivolta non solo alle donne, principalmente a noi ma è un modo di intendere la permanenza su questa terra, basata sulla violenza. Sulla violenza”.
    Torvo sbagliato attribuire agli uomini la summa dei mali di questo mondo: “il soggetto che fa violenza alle donne, ai deboli, al pianeta e alle sue creature”. Mi iscrivo volentieri tra i disertori del patriarcato, ma non perché mi riconosca in una simile descrizione di genere. Non ritengo le donne in quanto tali portatrici di una idea non violenta del mondo, né gli uomini in quanto tali dei devastatori forsennati. Il problema di discorsi come questo sono le generalizzazioni, che rendono i problemi meno concreti e quindi meno attaccabili e scoraggiano chi, nel gruppo posto “sotto accusa”, cerca di sottrarsi alle logiche che in quel gruppo prevalgono. Io sono tra quelli che pensano che ognuno sia responsabile per sé, non per il gruppo o i gruppi a cui appartiene. A meno di non voler estendere a tutti gli italiani la colpa per l’esistenza della mafia, a tutti i tedeschi l’eredità del nazismo, a tutti i musulmani la responsabilità del terrorismo islamico e via dicendo. E questo sì, sarebbe un metodo estremamente violento di stare al mondo.
    Detto questo, sarebbe davvero negazionismo voler sostenere che la violenza – almeno quella più definitiva, quella omicida – non sia un problema prevalentemente maschile. Un po’ di tempo fa, in un commento a un altro post, ho citato un’analisi dei fenomeni criminali del Ministero dell’Interno un po’ vecchiotta (2006), ma che aveva il pregio di approfondire molto anche la violenza di genere. L’indagine è questa: “http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/14/0900_rapporto_criminalita.pdf..
    La tabella a pag. 122 evidenzia che le vittime di omicidio di sesso femminile sono circa il 25%, mentre il 75% sono uomini. A pag. 126 c’è poi un’altra tabella, da cui si evince che l’assassino è maschio in oltre il 90% dei casi. Incrociando queste informazioni si deduce che i maschi si ammazzano di preferenza tra loro (da soli al Nord e in branco al Sud), non disdegnando di riservare questo perverso trattamento alle donne. Questo non nega, io credo, che il femminicidio esista, come atto di violenza estrema contro una donna proprio in virtù del fatto che è donna; però allarga la prospettiva e la rende, a mio modo di vedere, più agghiacciante di quanto non appaia già. Questi dati dicono, in sostanza, che il femminicidio è solo una delle infinite declinazioni di un genere di violenza estrema praticato quasi esclusivamente dagli uomini. Tra cui sono evidentemente numerosi i soggetti che contemplano la possibilità di uccidere come soluzione dei conflitti. E’ un’analisi spicciola la mia, non pretendo di attribuirle scientificità, ma se le cose stessero così concentrarsi sulla violenza alle donne potrebbe produrre risultati scarsi, perché il problema starebbe a monte: bisognerebbe capire per quali ragioni, sperabilmente culturali e quindi modificabili (se fossero biologiche sarebbe un incubo), gli esseri umani di sesso maschile sono così propensi al comportamento violento. Se fra gli uomini sono molti i soggetti potenzialmente violenti – e con questo intendo violenti in generale, capaci di fare del male ad altri esseri umani con cui, per vari motivi, possono entrare in conflitto – non credo sia possibile arrestare o almeno mitigare il loro potenziale di violenza di genere, se non allargando l’intervento al comportamento violento in sé, indipendentemente dall’identità di chi ne è il destinatario. Quell’uomo, che un giorno ha ucciso la sua compagna per un comportamento da lui giudicato intollerabile, e quindi l’ha uccisa “proprio perché donna”, forse avrebbe potuto uccidere un amico in virtù di un comportamento scorretto o presunto tale, e quindi “proprio perché amico”. O magari un immigrato “proprio perché immigrato”, o un/una gay “proprio perché gay”. Uno che ha in sé la possibilità di un comportamento di questo tipo, perché dovrebbe essere più sensibile a un intervento contro la violenza di genere di quanto non lo sia, poniamo, a un’azione contro la violenza su base etnica? E’ il suo potenziale di violenza a 360 gradi a dover essere imbrigliato, non la componente (ammesso che la violenza sia scomponibile) diretta verso le donne. Per questo, credo che sarebbe necessario un ulteriore approfondimento della riflessione su cosa sia davvero la violenza di genere: se un fenomeno a sé stante, e quindi potenzialmente arginabile con iniziative specifiche come quelle proposte e praticate da molte/i di coloro che frequentano il blog di Loredana, o un aspetto di un fenomeno più complesso e inquietante. Non per fare del benaltrismo e arrivare di fatto a una derubricazione dell’intera tematica, ma per scoprire quali possano essere gli strumenti veramente efficaci per avvicinarci a una soluzione del problema. Qualcuno ha delle opinioni in proposito? Magari anche derivate da esperienze professionali e più scientifiche della mia semplice lettura dei dati?

  15. @ maurizio
    c’è un libro che si chiama Maschi bestiali, io non l’ho letto, che ipotizza che le origini della violenza vadano ricercate nella struttura sociale. analizza poi le somiglianze fra l’uomo e gli scimpanzé e la differenza con i bonobo che hanno una struttura sociale in cui maschi e femmine sono co-dominanti.
    gli omicidi comunque sono in calo perché ha sempre meno senso uccidere e quelli che mettiamo sotto il nome di femminicidio rimandano a dinamiche di coppia. i punti proposti dalla piattaforma cedaw sembrano sensati, anche se poi non bisogna concentrarsi sul numero dei femminicidi ( di ogni tipo ).

  16. Mi scuso perché sono stata equivocabile e allora preciso che non sono gli uomini in quanto tali, né singolarmente presi ad essere violenti ma è un sistema, quello maschile, ad essere violento. Ed è violento chiunque usi i criteri e i metodi del sistema in cui viviamo per esercitare un dominio. Pensavo fosse scontato, dovrebbe esserlo, visti anche i dati, ma vedo che è necessario precisare ogni volta. E anche questo è un lavoro.

  17. Miriam, ho cercato di leggere con attenzione il tuo lungo ed articolato post, e sono convinto che una struttura sociale che coinvolga maggiormente il mondo femminile a tutti i livelli possa essere più solido e lasciare meno adito a storture (anche se la parla imposizione non mi piace. Si deve arrivare ad una congiunzione). Ammetto che non sono riuscito a capire tutto, sicuramente per colpa mia, ma secondo me manca un pezzo.
    Che la drammatica situazione che porta a parlare di femminicidio discenda da una struttura soociale come quella che viene descritta è innegabile, ma sarebbe un grave errore trascurare la componente patologica dell’ assassino. In parole povere uno che ammazza la moglie accecato dalle liti per i soldi di sicuro non è normale e probabilmente è malato di mente. Non volerlo dire perchè si ha paura che questo abbia risvolti giustificazionisti o perchè accecati da un’ideologia che qualunque problema affronti lo butta sul sociale e sulla rivoluzione (che poi guarda caso non si fa mai e non serve mai a niente) non rende un gran servizio alle donne, in questo caso. Da dove nasca questo sentire distorto e perverso che porta all’omicidio come possibile soluzione di problemi tra i due sessi, lo possono dire solo gli esperti, ma di sicuro giudico molto positiva la nascita di centri antiviolenza dedicati agli uomini violenti: perchè va a colpire quella parte del problema che di solito viene ignorata e che invece se affrontata con decisione può portare a grandi risultati.
    Visto che qui di solito si gioca a carte scoperte, devo anche dire che ho fatto molta fatica e ci è voluta tutta la mia buona volonta a leggere i post di miriam e Loredana con un atteggiamento aperto. Questa generalizzazione che vede gli uomini come una massa indistinta di mammoni sfruttatori è tutta colpa vostra brutti è davvero difficile da mandare giù anche per chi ci si mette di impegno a riflettere su un problema grave.
    Sintetizzando: la situazione è pesante e richiede reazioni altrettanto pesanti a tutti i livelli, ma non si può pensare di arrivare a risultati senza tenere conto della componente maschile, sia come soggetto su cui intervenire che come possibile fonte di risorse.

  18. Totalmente d’accordo, Paolo tranne che in un punto. Ce ne sarebbe un secondo ma l’ho già chiarito dicendo che non penso che tutti gli uomini…ecc. Il punto è che lo stigmatizzare i pazzi che uccidono per soldi o per altro non compete soltanto agli esperti ma deve arrivare ad essere un sentire diffuso, mentre da un lato la pazzia diventa giustificazione e dall’altro non c’è niente che la riconosca come problema del quale farsi carico come società. Fino all’individuazione del fenomeno come prodotto di un sistema che non può essere osservato soltanto nella sua valenza organizzativa (che è un effetto) ma dev’essere analizzato al livello della sua concezione: questa società è concepita ab origine come società che per funzionare deve servirsi della violenza, non solo per reprimere (le donne, i diversi, ecc.) ma per produrre, per funzionare, proprio. Se non si capisce questo non si ha la possibilità di cambiare niente perché si tenderà a lavorare al livello degli effetti (organizzazione o struttura sociale), i quali sono un mare magnum… e infatti quello si sta facendo, utilizando i sodli pubblici per fare, come si dice dalle mie parti, le “pezze calde” a qualcosa che come lo argini da una parte, ti spunta fuori da unìaltra e con maggiore virulenza.

  19. Io ho parecchi dubbi sul fatto che si debba considerare pazzo uno che ammazza la moglie, o chiunque altro. Per lontani che possano essere dalla nostra comprensione i motivi di un omicidio, sono portato a ritenere che essi possano comunque maturare nella piena consapevolezza di sé. Se così non fosse, dovremmo concedere l’incapacità di intendere e di volere a pressoché tutti coloro che commettono questo tipo di crimine. Fossero tutti pazzi gli omicidi, paradossalmente il problema sarebbe meno complesso di come appare oggi: si tratterebbe di far fronte a una patologia, cosa non facile ma certamente circoscritta sia nel’incidenza che nel novero delle categorie intepretative da mettere in campo. A me pare più probabile che una società che si nutre di violenza (lo sottolinea Miriam) esponga tutti i suoi membri al rischio di degenerazione dei propri comportamenti, senza che per questo chi cede possa essere definito pazzo. E’ questo che rende difficile arginare il fenomeno, secondo me: il fatto che tutti si sia sottoposti a una pressione che, in certe condizioni e ovviamente con probabilità diverse, può far apparire logico e desiderabile porre fine a una sofferenza eliminando l’agente che se ne ritiene causa. Si potrebbe obiettare che è tutto da dimostrare l’assunto secondo cui le nostre società hanno bisogno della violenza per funzionare; io francamente lo trovo convincente, secondo me è chi sostiene il contrario a doversi assumere l’onere della domostrazione: è difficile dire che non si basa sulla violenza una società in cui è normale la guerra, in cui ci si tassa per mantenere eserciti e, per rimanere a quanto sta accadendo in questo momento storico a casa nostra, interi popoli trovano normale ridurne altri alla fame in virtù di presunte condotte poco virtuose dal punto di vista economico. No, la violenza è davvero un elemento costitutivo di queste nostre società: una violenza ancora arcaica, mai sublimata né elaborata, mai incanalata verso obiettivi che non siano lo sbudellamento, individuale o di massa. Certo, resta da vedere se siamo o no capaci, di una società che funzioni senza violenza. Ma senza questa utopia non avrebbe senso l’intero esperimento umano.

  20. Sono molto d’accordo in generale Maurizio, resta vero il fatto che nonostante la pressione psicologica e culturale sugli uomini di oggi sia enorme, quelli che prendono il randelllo sono una minoranza. Questo porta a pensare (ed infatti molti lo fanno) che cercare elementi comuni nel modo di ragionare ( o di sragionare, che è meglio) di chi sparge sangue, e lavorare in maniera scientifica su di essi debba essere per forza e di cose una strategia se non vincente sicuramente molto migliorativa. Affrontare il problema solo dal punto di vista politico e sociale è sicuramente utile e sugggestivo, ma da un lato è scarsamente incisivo in termini di risultati (come la storia insegna), dall’altro ti priva di strumenti importanti.

  21. Anche io ho qualche difficoltà ad utilizzare la categoria della pazzia così com’è definita, nel parlare di femminicidio, di sicuro mi torna utile pensare a un disagio che investe la psiche per il quale riuscire ad immaginare e praticare forme di prevenzione che non conducano alla sua conclamazione mediante un delitto. In attesa di trovare una parola che definisca lo stato interno dei soggetti autori di femminicidio mi sporgo anch’io verso la tua stessa utopia, Maurizio.

  22. tutti cresciamo in questa società e non tutti diventiamo assassini,alcuni sì, non tutti coloro che hanno problemi mentali o disturbi della personalità (i quali però non pregiudicano, mi pare di capire, la capacità di intendere e di volere) uccidono, alcuni lo fanno, non tutti gli uomini gelosi arrivano a picchiare o ad uccidere la propria compagna, solo alcuni (particolarmente ossessivi e “malati”, secondo me) lo fanno Dirò di più: non è detto che tutti quelli con un carattere aggressivo, collerico o anche incline ad atti violenti finiscano per uccidere o tentare di uccidere la compagna, può succedere di sicuro in alcuni casi ma non in tutti. Perchè fare a botte con degli sconosciuti al bar e riempire regolarmente di calci e pugni la stessa donna con cui hai fatto l’amore, la stessa donna che dici di amare.bè non è lo stesso, sì è sempre violenza ed è sempre condannabile ma non è proprio lo stesso tipo di situazione. Tutto questo per dire che non ci capisco nulla: ogni situazione ha le sue specificità, e nessuna delle spiegazioni del femminicidio, nessuna analisi sociologica che leggo nei vari blog mi pare possa considerarsi esaustiva e valida sempre in ogni caso..mi sto convincendo che certi atti non possono essere spiegati (per quanto ia legittimo tentare) ma solo raccontati, narrati

  23. Paolo E., perdonami, ma non mi sembra proprio di aver mai considerato gli uomini indistintamente nè di averli condannati in quanto massa indistinta di mammoni sfruttatori. Mai. Da quando il blog è aperto.

  24. segnalavo un dei post dove si discusse di psicoanalisi (e del rifiuto congenito alla medesima). perchè imho il problkema e’ che non si discute di psicoanalisi. e fino a che questo non succede il problema del femminicidio rimane tale. al limite peggiora (scusate il cinismo)

  25. No problem, Paolo: siamo omonime 🙂 Luz, ci potrebbero essere delle vie per non farlo peggiorare. Vie non impossibili, peraltro. Il punto è che sembrano, quasi tutti, pensare ad altro.

  26. Scusa Paolo E., solo ora riprendo il computer e seguo il blog… mi sono un po’ persa. Vedo un riferimento, ma non lo capisco. Ci provo, ma correggimi. Guarda che io sono contenta che molti uomini ragionino e si mettano in discussione perché penso che insieme si affrontano i problemi. La discriminazione fatta al contrario, magari per rabbia o vendetta, la ritengo inutile, come pure l’aggressività da una parte e dall’altra. Ho già detto anche in altre sedi che lavorare insieme significa migliorare. Il riferimento al neomaschilismo di ritorno non era generalizzato, se ti riferisci a quello rileggi il post e quelli precedenti. Ho molta fiducia anche negli uomini e penso sia necessario parlare sempre di più proprio per capirci meglio ed evitare di fare finta di non vedere i problemi da una parte e dall’altra.

  27. No, Lipperini. Le vie del “fare” sono state chiaramente abusate in questi ultimi due o tre anni di campagne neo-fem. Vogliamo ripercorrere le vicende SNOQ? Il neo-femminismo non è più credibile.

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