SPECCHIARSI: UNA RIFLESSIONE SUI LINGUAGGI E SUL ROMANZO

In questi giorni sto riflettendo intorno al romanzo e alle sue mutazioni, in Italia e non solo. Dal romanzo-porta al romanzo specchio. Ne sto discutendo su Facebook, con le implicazioni che questo comporta nel mercato, in chi legge e in scrive. Ci tornerò, ma oggi parto da lontano.
Come qualcuno forse sa, partecipo a un bellissimo corso a tre voci per Scuola Holden, che si chiama Magia del linguaggio e mi vede in compagnia di Vera Gheno e Federico Faloppa, che sono la parte seria del corso. Nelle mie lezioni, infatti, racconto i miei strani mondi, che come tutti i mondi, però, hanno bisogno di una lingua per esistere. Non essendo una linguista, quel che mi interessa è come attraverso la creazione di un linguaggio artificiale si modelli la civiltà che gli scrittori hanno in mente. E che, come sempre, è simile alla nostra, perché se il nostro straordinario potere è quello di inventare, nell’invenzione trasferiamo quel che già conosciamo. Vale per le lingue, vale per i mondi.
Le lingue artistiche, che sono una branca delle lingue artificiali, sono esattamente quelle che sono state create per un’opera di finzione e, ovviamente, differiscono profondamente dalle lingue naturali perché non sono nate da una popolazione di parlanti ma da un autore, o da un gruppo di autori. Anche se ho scoperto che è stato fatto almeno un tentativo in proposito: un membro dell’Istituto della lingua Klingon (quella di Star Trek) ha provato a educare il figlio come un parlante di Klingon, ma ha desistito per mancanza di vocaboli (tavolo e bottiglia, per esempio, non erano presenti nel linguaggio klingoniano).
E qui torna in ballo la già citata ipotesi di Sapir-Whorf di cui avevo scritto a proposito di Arrival e di Ted Chiang, secondo la quale una lingua condiziona la visione del mondo di chi la parla.
Sempre da non linguista, ne sono affascinata. Una lingua che serve a creare un mondo fantastico come agisce? E a cosa serve quel mondo? Serve soltanto a farci da specchio? E allora dovremmo chiederci: si sta espandendo o contraendo? Intendo quella nostra, quella che usiamo tutti i giorni. E’ vero che la narrativa tende a diventare sempre più piana da quando la prima persona ha sostituito la terza? Pensateci. I romanzi che chiamiamo autofiction sono romanzi del sé, dove gli stessi lettori decretano il successo di una storia nel momento in cui parla dell’io che sta dietro lo scrittore e si pretende vera e chiama a sé il lettore, mon semblable, – mon frère!. Un amico mi ha fatto notare che quando, nel 2008, Facebook si diffonde in Italia, ci chiedeva di esprimerci in terza persona: Loredana sta pensando, Loredana sostiene che. Solo nel 2011 ci chiede di usare la prima. Nel frattempo c’erano stati i blog. E c’era stata quella famosa copertina.
Fummo felici quando, ed era il 2006, Time uscì con una copertina a specchio dove il lettore poteva vedere il proprio volto riflesso: you, tu, proprio tu che stai guardando e leggendo in questo momento, e noi lo abbiamo interpretato nel modo che si credeva corretto, ovvero che chiunque poteva prendere la parola, senza legittimazioni di ordini professionali o di appartenenze, ma solo per proprio merito. Significava che il giornalismo, la scrittura, la fotografia, la musica, potevano aprirsi al contributo di una moltitudine geniale, allegra e combattiva. Che ne avremmo guadagnato tutti, da un rinnovamento così vasto, fatto di saperi condivisi, di storie e musiche che avrebbero vagato, grazie a Internet, da un continente all’altro, gratuitamente. Una nuova stagione era iniziata, pensavamo: dall’inizio degli anni Zero i blog portavano parole, pensieri, critiche, idee che sfuggivano alla carta stampata, e c’erano musiche nuove da ascoltare, e tutto sembrava andare nella giusta direzione, e in fondo l’aveva detto Andy Warhol, e quante volte era stata citata quella frasetta, i quindici minuti di celebrità per tutti, gratis, facile e indolore.
Ma Warhol ha conosciuto il cinema e la televisione, dove la fama è magari passeggera, certamente impietosa perché con gli anni che passano non si molla l’osso, e chi ricorda più i partecipanti del secondo Grande Fratello e magari neanche più i primi a pensarci molto bene. Questa affermazione del sé viene interpretata come un diritto, non un sogno, non un traguardo a cui tendere, non una meta. E’ una pretesa, qualcosa che si riceve alla nascita e che qualcuno, semmai, ha ostacolato con il proprio successo.
E sia. Ma quando parliamo di noi, concepiamo un mondo o continuiamo a replicare quello in cui abitiamo? Quando guardiamo Black Mirror vediamo noi stessi, la distorsione è leggera, la prefigurazione è già reale. Il terribile complotto di Hate in the Nation per distruggere gli odiatori di Twitter fingendosi a sua volta un hater, ci parla di cose che sappiamo già, e se alla fine dell’episodio un’ape entrasse dalla finestra sobbalzeremmo davvero, perché il mondo in cui api meccaniche ti entrano nell’orecchio per farti morire fra dolori atroci è già quasi possibile. A volte neppure il fantastico riesce a creare visioni diverse da quelle che conosciamo, e non parliamo ovviamente di replicare l’irripetibile euforia (o gli irripetibili timori) di inizio Novecento, ma di tutto quello che è stato creato dopo, nella meravigliosa discarica della serie zeta e nelle visioni sofisticate di Ballard e Dick e, certo, King, che quel fascio di tenebra presagivano e rilanciavano.
Il problema, forse, non è tanto scardinare il reale con il possibile, ma andare ancora avanti nell’immaginare cosa potrebbe esserci oltre l’immobilità che è nostra. Uno dei motivi per cui qui si ama Ted Chiang, l’autore di Storie della tua vita e Respiro, è che lavora quasi ossessivamente sul tempo, su come piegarlo, curvarlo, attraversarlo, stringa per stringa, spirale dopo spirale. Non è una questione di viaggiare nel passato, ma di farlo tornare a muovere. Siamo fermi, come aveva presagito anche Ray Bradbury alla metà del secolo scorso, in Fahrenheit 451, e ci illudiamo in movimento. Siamo fermi nel rancore, meravigliosamente autoconsolatorio laddove ci rassicura che no, non siamo noi a sbagliare, ma il Sistema, il Potere, il Male, gli Altri che sono più furbi e più abili o più vecchi o più giovani e che ci accerchiano e soffocano, e ogni volta che lo scriviamo le nostre ferite dolgono meno perché altri, molti altri, dicono che abbiamo ragione, e like, like, like.
Ma in questo modo guardiamo nello specchio, e vediamo solo noi stessi. Siamo tutti soli, diceva molto tempo fa Stephen King, e magari i contatti umani sono un’illusione, ma i sentimenti degli umani sono, diceva ancora, uno sforzo per realizzare un contatto, per collegare e integrare, e illuderci benevolmente che il fardello della mortalità sia più leggero.

2 pensieri su “SPECCHIARSI: UNA RIFLESSIONE SUI LINGUAGGI E SUL ROMANZO

  1. Non ho letto Stephen King, mi piace questo riferimento alla valenza dei sentimenti per creare un contatto capace sopportare la finitezza del nostro essere

  2. Anche a me colpì molto “Arrival. l’idea del linguaggio come sovrapponibile alla realtà (: i limiti del linguaggio definiscono i confini del reale) o forse anche di più: il linguaggio poietico- generatore della realtà. Certo un idea non del tutto originale quella della storia , ma presentata in maniera originale e anche se probabilmente le varie filosofie del linguaggio, se ne erano già in qualche modo occupate. (tipo anche Wittengstein.- e in certo modo anche le afferenze religiose si trovano di certo, e platealmente nel quarto Vangelo, quando dice che in Principio era il Verbo. Comunque la storia mi ha sempre fatto pensare a cosa succederebbe se un Federico secondo terzo, prendesse i pieni poteri sul meridione italiano e imponesse lo studio del tedesco dalle squole elementari …von was man nicht sprechen kann, muss man schweigen.
    ciao,k.

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