STATI GENERALI DEL GENERE: PAOLACCI, RONCO E LA RANA BOLLITA

Giorno due. Ovvero altro intervento agli Stati Generali del Genere dello scorso 4 febbraio a Bologna. Questa volta è di Antonio Paolacci e Paola Ronco

 

«Ora che ha la sua nicchia di mercato, con tanto di apparato di critici specializzati, anch’essi sistemati nel mercato, il polar non cambierà più, non conoscerà più sviluppi degni di nota. È morto. Non perché non usciranno più libri polar, ma perché tutti i polar che usciranno avranno già una propria collocazione. […] La rabbia incontenibile del noir è diventata il borbottio familiare del thriller rétro o del pietismo di sinistra, fin troppo recensito.»

 

Queste cose che vi ho appena letto le ha scritte Jean-Patrick Manchette, in Francia, nel 1981. Più di 40 anni fa.

 

Di cosa parlava Manchette?

Parlava di un elemento costitutivo del polar, che stavamo perdendo, e che nel frattempo – infatti – abbiamo perso.

Manchette spiega che il noir racconta «il dominio sociale e politico in mano ai delinquenti. — sto di nuovo citando — Più precisamente capitalisti senza scrupoli, alleati o identici alle organizzazioni criminali, hanno assoldato politici, giornalisti e altri ideologi, magistrati e poliziotti […] e lottano con ogni mezzo per accaparrarsi mercati e profitti». 

 

In questi ultimi decenni, dopo Manchette, un po’ alla volta e secondo il famoso principio della rana bollita, l’etichetta di genere è stata invece spesso appiccicata su narrazioni che non toccano la società nel suo complesso, ma raccontano per esempio una polizia efficiente che lotta in difesa di un paese onesto, contro delinquenti isolati, considerati come eccezioni, anomalie.

 

Il genere è stato assorbito da un sistema che, guardando principalmente al fatturato, ha trasformato autrici e autori in persone private di quella “rabbia incontenibile” di cui parlava Manchette perché costrette a sgomitare per esistere nel mercato, a lottare tra loro, come nemici e avversari che cercano di accontentare il mercato che agisce secondo i dettami del monopolio editoriale.

 

Siamo incastrati in un sistema che ci imprigiona, ci ricatta, ci fa lavorare senza libertà e in gran parte senza guadagni, trasformandoci in fornitori che si sbracciano per sopravvivere, con il compito di fare l’uovo a comando come galline d’allevamento.

 

Mentre noi annaspiamo e sopravviviamo con altri lavori, comunque, il mercato editoriale sta bene — dicono i dati.

Anzi, addirittura cresce.

Solo che non cresce con noi. Non cresce per noi che facciamo questo mestiere.

Cresce con i libri di influencer, politici, reali inglesi, giornalisti televisivi, discutibili generali dell’esercito. Oppure con le mode omologate: i libri fatti in serie, uguali tra loro e senza coraggio né identità.

Cresce per l’industria, i distributori, le multinazionali come Amazon.

 

In questo sistema industriale del libro, la letteratura di genere — che è nata per criticare il potere e la società — è diventata un’etichetta: un modo per riconoscere un certo tipo di svago, di passatempo. Non a caso la scrittura del giallo può essere presentata al grande pubblico come un hobby per conduttori televisivi, o un divertimento per politici in pensione come Veltroni.

Dove prima era popolare, ecco allora che la narrazione diventa istituzionale. E anche per questo smette di mettere in discussione la cultura dominante e la società.

 

Il noir è morto, scriveva Manchette.

E precisava che no, non sono morti e non moriranno i libri con questa etichetta.

Quello che è morto è il suo spirito. La sua anima.

 

Si dice che è il mercato.

Che è il pubblico a decidere.

Che l’editoria risponde alle richieste della maggioranza. E che il fatturato sta crescendo. Quindi va bene: è ossigeno per tutti.

 

Ma la verità è che, a fronte di un fatturato che cresce solo per pochissime realtà, le voci indipendenti dell’editoria – che siano case editrici o scrittrici e scrittori working class – non gareggiano in questo mercato; queste voci sono tagliate fuori prima ancora di poter gareggiare.

 

E un’altra verità è che il numero delle persone che leggono più di due o tre libri l’anno è crollato.

E questo significa che il fatturato cresce, sì, ma vendendo pochissimi titoli a persone che non leggono molto.

 

Quindi non è vero che è il pubblico a decidere.

La capacità di penetrazione di un libro tra i lettori oggi dipende da quanto quel libro è visibile, non da quanto è apprezzato. E infatti a vendere sono in gran parte libri che nascono già di successo: gli unici sui quali si investe, seguendo una logica appunto industriale, e cioè a colpo sicuro.

 

Non è il pubblico a fare il successo, ma è la visibilità del singolo libro a fare il pubblico.

Se parliamo con le persone estranee all’ambiente editoriale, scopriamo che le voci nuove, il pensiero critico, la riflessione fuori dall’omologazione generale sono praticamente invisibili, per loro. Sono sconosciute. Dunque non evitano di sceglierle preferendo altro: molto più semplicemente non sanno che esistono.

In parallelo, il numero delle persone in grado di riconoscere il vero valore della letteratura, del cinema, del teatro e del fumetto sta crollando, perché non trova più facilmente qualcosa di interessante da leggere o da guardare.

Infatti — a fronte di questo fatturato generale che cresce grazie a pochi libri che stravendono — in Italia c’è un’evidente emorragia di lettori forti: una delle peggiori in Europa.

 

Stiamo perdendo tutti. Su questo dobbiamo capirci.

Se state pensando “io no”, “io ce la farò”, “io sarò lassù nella classifica, tra chi vende di più”, vi sbagliate.

Non è che qualcuno che lavora in editoria ci guadagni qualcosa, da tutto questo. E men che meno guadagna qualcosa chi legge.

E attenzione. A perdere non siamo solo noi scrittrici e scrittori, ma anche gli editor, i curatori di collana, i critici letterari, i librai.

Perdono anche loro, perché la loro specificità viene annientata e addomesticata. In una logica di puro marketing, la loro competenza non serve più a niente.

Non a caso, la figura del direttore editoriale ha già iniziato a sparire…

 

Ora noi possiamo anche discutere di come dovrebbe essere scritto un romanzo di genere. Possiamo dividerci per esempio tra chi sostiene che il genere debba essere solo duro, sporco e cattivo, e chi dice che invece può anche far ridere. Possiamo cioè parlare della responsabilità di chi scrive, che è sempre un discorso fondamentale.

Ma a monte resta il problema di riuscire ad arrivare in libreria. Perché puoi anche scrivere i libri che ci vorrebbero, ma se poi nessuno li legge, nessuno li consiglia, nessuno li conosce, serve a poco.

A monte resta il problema di dare a chi legge la possibilità di scegliere davvero.

 

Quello che ci ha insegnato Manchette — e prima di lui Dürrenmatt; Chandler… — è che la narrativa non è “consolatoria” quando procura piacere, ma quando lascia i lettori esattamente dove sono.

E di certo non può che lasciarli dove sono, se nemmeno riesce a raggiungerli.

 

Fin dalle sue origini — a volte  tirando pugni allo stomaco, altre volte facendo anche ridere o intrattenendo — il genere ha sempre cercato di raccontare la verità, e la verità che racconta è solitamente questa:

Che la società è ingiusta, governata da un potere iniquo e violento; regolata dal caos (per dirla alla Dürrenmatt), caratterizzata dai soprusi e dalle ingiustizie di chi la gestisce.

 

Nei generi crime da sempre si affrontano tematiche a volte esistenziali, ma più spesso sociali. Spessissimo storiche e politiche. Nell’ultimo secolo è sempre più presente il tema della sconfitta e della società iniqua.

Ma il tema davvero dominante è quello della prevaricazione.

 

È questo che lo ha reso popolare.

Il romanzo di genere scuote le coscienze addormentate e distratte. È questo che fa.

Demolisce le narrazioni banalizzanti e perbeniste delle istituzioni; smonta le propagande di regime.

 

Alle origini dei migliori romanzi di genere italiano non c’è il giallo borghese inglese: ci sono Scerbanenco, Gadda, Sciascia, Fruttero e Lucentini.

È quella letteratura senza etichette che ha ispirato le più convincenti e popolari espressioni del genere in Italia, proprio perché in essa un elemento centrale è sempre stato la denuncia delle responsabilità criminali del potere e della società.

 

E noi invece siamo qui, adesso: stiamo qui a guardare le classifiche; ad arricciare il naso se il commissario è o non è un buongustaio; se è siciliano o valdostano; se fa ridere o se è tormentato al punto giusto.

Un mondo culturale che arranca: timoroso e spaventato all’idea di pestare i piedi a chi comanda in casa editrice o in Rai…

Una narrativa pavida e insipida che si racconta che parlare di crimini non è letterario quanto parlare di crisi coniugali e amori adolescenziali, problemi personali dei benestanti di Roma Nord, o nostalgia di quando eravamo giovani e c’era solo il telefono fisso…

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