STORIE DI DEE PER ASPETTARE IL MATTINO – 3

Torno alle dee, ovvero alla lezione che ho tenuto a fine luglio per Gaia, evento al Mattatoio di Roma. In questo periodo scrivo con difficoltà. Sono consapevole che sia faccenda transitoria, eppure mi mette a disagio, come sempre quando non riesco a fare quel che amo fare. Pazienza, e avanti. Terza parte.
Gaia è la grande madre, è la terra, la natura, il punto di partenza di ogni cosa. Per renderla meno oscura, il Cristianesimo fa quadrare il cerchio: una vergine che partorisce, restando (nonostante le dispute infinite su questo punto) vergine anche dopo la nascita di suo figlio. Mantenendo chiuso quel varco attraverso cui spettri e anime perdute possono passare. Anche Eva è vergine prima di cogliere il frutto. Ireneo, in Adversus haeres, lo certifica. La perdita della verginità di Eva porta la morte nel mondo (come è avvenuto per altre dee disobbedienti di altre culture). Occorre attendere l’arrivo di un’altra vergine per sanare la ferita. Maria è puro tramite ed è perfetta. E’ Madre ma priva di sessualità e di forza creatrice. Vaso spirituale e Tempio sono fra gli appellativi ricorrenti. “La mia natura divina scese nel vaso sigillato senza frattura né violenza”, dice Gesù a Santa Brigida.
Dunque le dee diventano una madre, Gaia o Gea torna a essere rassicurante: nessuna Dea potrà più competere con il dio geloso e spaventato, perché quando le dee devono riprodursi c’è sempre un dio che serve a questo scopo, e subito dopo muore, mentre un altro, simile a lui, prende il suo posto.
Si crede che fosse Gaia a parlare, originariamente, per bocca dell’Oracolo di Delfi, per poi passare i suoi poteri ad Apollo.
Avviene così.
C’è una festa di compleanno, e gli adulti si sono affaticati per prepararla, e si sono stupiti della loro fatica perché non credevano, prima di avere figli, che occorresse avere tante energie, e certe volte la madre si ferma a guardare dall’alto verso il basso, e vede il mare calmo e azzurro e respira l’aria che sa di agavi e di piante di cappero anche se il solo odore che sente davvero è proprio quello del mare e si chiede come sarebbe stato poter immaginare la vita quando era piccola e se poter conoscere il futuro l’avrebbe preservata dal dolore. C’è sole e la pelle della madre è calda e profumata, le dita della mano destra sono appiccicose perché le ha intinte nel miele per farle succhiare ai bambini, che probabilmente stanno giocando chissà dove adesso, non sono mai stanchi i bambini, a differenza di lei che fra un istante dovrà ricominciare a correre, e ascoltare le richieste di un ospite e le lamentele di un altro, e invece vorrebbe soltanto bere fino a avere le ginocchia molli e lasciarsi cadere e dimenticare la stanchezza fino al mattino.
E così, infine, fa, rendendosi a mala pena conto, prima di rannicchiarsi sul fianco sinistro, che sta trascurando i suoi doveri e che suo marito non ne sarà contento, ma intanto ha guadagnato qualche ora di riposo e ai bambini qualcuno dovrà pur pensare, qualcuno che non sia lei.
I bambini, pensa quando il sole del giorno dopo le fa aprire gli occhi. E a quel punto è già in piedi, e vorrebbe guardare nella loro stanza e naturalmente non ci sono, perché neanche lei è nella sua stanza e non è nella sua casa ma nel prato davanti al santuario di Apollo, dove ieri sera si è ubriacata durante la festa per il compleanno del marito, e i bambini dovevano essere portati a lei da una delle ancelle, ma anche le ancelle dormono un sonno ubriaco sotto gli alberi, i capelli sciolti, e dormono anche gli uomini e dorme suo marito, e il sole illumina le facce gonfie e le bocche aperte a questo punto lei è sveglissima e corre nel santuario e là ci sono i bambini e lei urla.
Perché i due fratelli sono al centro del tempio, avvolti nelle spire dei serpenti sacri, e i serpenti lambiscono le orecchie dei piccoli che ridono nel sonno, come se il solletico venisse dalla madre, o dall’altro gemello, e naturalmente all’urlo di Ecuba i serpenti ritirano le lingue e strisciano indignati in un cespuglio di alloro. Da quel momento Cassandra, la bambina, ha il dono della profezia. La versione della leggenda è più bella di quella del dio tradito, di Apollo offeso dal rifiuto carnale che dà a Cassandra la possibilità di vedere ma le sputa sulle labbra affinché non venga mai creduta. La bambina leccata dai serpenti cresce con il suo potere ricevuto per distrazione. E’, come diceChrista Wolf, una giovane donna che si concede anche il tempo per una cecità parziale, perché vedere tutt’a un tratto, e vedere tutto, può distruggere.
Gaia parla attraverso Cassandra, Gaia parla attraverso le piccole dee del nostro paese, le sibille.
Joyce Lussu le racconta nel Libro perogno, che significa perogno seculu secloru, ovvero per omnia saecula saeculorum, nella traduzione della sibilla di Orgosolo che Lussu ha intervistato, furiosa per il silenzio in cui vennero costrette le donne, e la Sibilla, dalla protervia dei monaci inquisitori che le rendono creature del diavolo: “Madre mediterranea, vergine profetessa, corrotta maliarda. Attraverso queste manipolazioni, la cultura maschile fa rientrare le sibille nei suoi schemi che dividono le donne in tre sole categorie: madri, vergini e puttane”. E dunque, secondo Lussu, il Guerrino e i cavalieri e Tannhäuser e tutti coloro che si impegnarono nella cerca identificando la Sibilla con una maga, auspicano il momento in cui la grotta d’ingresso crollerà, seppellendo per sempre il regno della Signora, che per Lussu era bella e ridente come tutte le donne come lei, quelle che conoscevano l’artigianato e l’agricoltura, che distinguevano le erbe benefiche e tramandavano le parole giuste per curare la malattia e l’infelicità. A Orgosolo, Lussu cerca dunque la sibilla barbaricina: Elisabetta Lovico, la curandera, la tiina, la divinatrice, che sa guarire le ferite e vedere chi sta architettando una mala azione. Quando Lussu la incontra, ridente anche lei, e anche lei vestita di panni colorati come le sibille, ha un pensiero bellissimo: “E’ tutta, lei. E’ una donna intera.” Una donna a cui nulla è stato tolto, che ha “autonomia, autorità e identità; e le usava bene, non per sopraffare, ma per aiutare la sua comunità, in maniera interamente femminile, diversa e opposta al potere patriarcale e guerriero; come le sibille delle antiche società comunitarie”. La tiina sana i contrasti fra vita e morte, fra male e bene. Per questo, dice Lussu, il Guerrino e i cavalieri descritti da libri e leggende si ritraggono all’offerta di rimanere nel regno della Sibilla. Perché quel regno è pacifico e non sanguinario come quello da cui provengono e di cui portano le armi, e perché, proprio in virtù delle armi, hanno perso la capacità di vedere, di ascoltare le persone e di studiarne i gesti, e dunque di indovinare i cambiamenti in atto.
La Sibilla è la parte nascosta del reale, il ponte, la donna serpente, la melusina, il punto d’incrocio di tutti i culti, quelli antichissimi e quelli vicini, perché in tutti i culti c’è una donna che vive una grotta e vede quel che gli altri non vedono. Ha avuto tutti i nomi che ha voluto: la prima Sibilla si chiamava Erofile e visse nove generazioni, Lamia era la Sibilla libica e fu regina prima di trasformarsi in mostro, nella Lamia che conosciamo, perché le morirono i figli, e per vivere dovette uccidere quelli delle altre donne. Le Sibille sono suono: colei che respinse l’amore di Apollo visse tanti anni quanti i granelli di polvere nella sua mano, e poi si ridusse a pura voce. La voce delle donne, come quella delle sirene, che nell’Oriente antico cantavano per i morti, è segno di sventura per i maschi, e infatti è femminile il coro di Persefone che accompagna il momento del trapasso. Le Sibille sono ovunque: vivono nei deserti nelle montagne e nelle grotte, ballano nei boschi come le ninfe e sono fatte di luce come le elfe e insegnano a filare ai mortali. Le Sibille sono dee come Cupra e Bona, il cui nome non deve essere pronunciato pubblicamente e quando le donne la celebravano nei riti segreti bevevano vino dandogli il nome di latte, perché nominare significa creare e dunque cambiare la realtà. Le Sibille sono doppie come la dea Carmenta che protegge le partorienti e difende i bambini dalle streghe e dagli uccelli vampiri, e che ha un doppio aspetto: Postuorta che conosce il passato e Anteuorta che conosce il futuro, e che è madre di Evandro, il dio incognito dei sabini, e della ninfa Porrina, che reca nella mano destra il candido e profumato fiore della salute e stringe nella sinistra un serpente.
La parola delle Sibille è segreta o difficile, coglierla significa acquisire parte della conoscenza degli dei, e infatti Pizia, Cassandra, Egeria, la Veleda germanica possiedono l’èntheos, l’ ispirazione divina, il dio, così come la poetessa e sacerdotessa Enkheduanna, figlia di Sargon, che vive a Ur duemila anni prima di Cristo e scrive un poema alla dea Inanna, Ishtar, Axieros, signora di tutti i me. Ma qui sono state tutte: Cupra, Cibele, Venere, Diana, Ecate, Sibilla, appaiono e scompaiono come certe sorgenti. E tutte hanno parlato, spesso invano, perché la parola disfa o crea il mondo ma dev’essere compresa, e Kenning, in norreno, è il sibillino, l’oscuro, ciò che non si capisce, e i Kenningar sono gli enigmi, i giochi verbali della lingua degli dei.
La lingua degli dei può essere silenziosa, come sa Angerona, la dea romana del silenzio che lavora nell’ombra come la Sibilla e che quel silenzio rompe solo per profetizzare, e nel silenzio custodisce il nome segreto di Roma, per proteggerla. I nomi segreti vanno custoditi nel silenzio finché non giunge il momento di renderli noti. Sapendo che, nel momento di disvelarli, il mondo a cui danno accesso si perderà per sempre come avvenne alla grotta della Signora sul Monte Sibilla, il cui ingresso è oggi ostruito da una frana, perché da fine Ottocento arriveranno gli speleologi, attirati dal mistero della femmina che sa, e dal pericolo che la femmina sapiente costituisce. Nel 1920 una spedizione guidata dallo storico Falzetti crede di aver trovato la grotta, nel 1926 il soprintendente archeologico delle Marche, Moretti, la misura e la descrive: otto metri di lunghezza, quattro di larghezza, tre di altezza, chiuso l’accesso alle voragini interne, “è rimasto solo il vestibolo da cui un foro lascia supporre che siano esistite o ancora esistono, se non le aule che la leggenda aveva mutuate nel Paradiso della regina Sibilla almeno altre cavità a cui la presente sia di vestibolo”. Il vestibolo crolla fra il 1952 e il 1968, le targhe di pietra con le antiche iscrizioni vengono trafugate, e ancora nel 2000 il Comitato “Grotta della Sibilla appenninica”, promuove le indagini geologiche e geofisiche confermando un “vasto complesso ipogeo alla profondità di 15 metri, fatto di cunicoli labirintici e notevoli cavità”. Poi le ricerche si interrompono.
Troppi sono saliti a cercare la grotta, fino ai tempi di Giulio Aristide Sartorio che nel 1922 mette in guardia dalle “sirene” che qui vegliano e i cui canti “fanno delirar”. E nelle notti antiche tentarono l’ascensione gli imperatori romani, e Vitellio nel 69 dopo Cristo “celebrò una sacra veglia sui gioghi dell’Appennino” e duecento anni dopo giunse Claudio II il Gotico in cerca di divinazioni, ma prima di loro si fermarono qui i pronipoti di Noè, e persino Enea in fuga dalle rovine fiammeggianti della sua città, che spaventò i piceni e li spinse a rifugiarsi nella grotta della Signora la quale, compiacente, si trasformò in una vecchia e scese con loro per aiutarli a modificare il corso del torrente Salino che confluiva nel Tenna, e renderlo così salato e poco potabile, per scoraggiare i troiani e spingerli verso Roma.

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