Da ieri Radio3 racconta i borghi, i paesi, le frazioni. Anche gli ascoltatori di Radio3 partecipano nominando i luoghi che conoscono e che nessuno di noi vuole considerare perduti. La loro bellezza, certo. La loro arte, certo. La loro storia, laddove quella grande si incrocia con quella piccola, di ognuno di noi.
Camerino, per esempio.
L’università, intanto. Ma anche Ugo Betti ne parlava come di un luogo che “esprime un destino di signoria”, e comunque ci sono (c’erano, ci saranno ancora) i concerti e i campi sportivi e il pub e il mojito, e le pizzerie, e i colori delle case, la pietra rosa viene da Serrapetrona, da Morro viene quella rossastra, da Massaprofoglio, Valcimarra, Campolarzo quella bianca. E qui vennero da Kamars i camerti, che ai romani fornirono seicento guerrieri nella seconda guerra punica. Poi arrivarono gli apostoli, e poi i Longobardi e monaci ed eremiti e santi, infine nel 1259 le truppe imperiali di Manfredi la distrussero, e massacrarono la maggior parte della popolazione, eccezion fatta per alcuni previdenti che si salvarono fuggendo da un buco nelle mura e portandosi via la cassettina d’argento contenente le reliquie di San Venanzio. Poi arrivarono i Varano, e costruirono case e torri e fossi e sbarramenti e la Rocca e il Palazzo Ducale e anche un monastero dove una figlia Varano divenne la Beata Battista. Ma su Camerino piombò Cesare Borgia, che fece piazza pulita dei Varano su cui riuscì a mettere le mani e fece costruire un’altra Rocca, finché non tornò il superstite Giovanni Maria da Varano e si riprese Camerino, e infine si arriva al terremoto di fine Settecento che distrugge tutto, e naturalmente si ricostruisce e persino si sperimenta la tranvia elettrica, una delle prime, che collega il centro della città con Castelraimondo, ed è addirittura il 1906 ed è straordinaria, la ferrovia con trazione elettrica a corrente continua, e tutto procede gioiosamente, con una sola interruzione dal 1930 al 1935 per un deragliamento che uccide il bigliettaio, fino alla soppressione, l’8 aprile 1956, otto mesi prima della mia nascita, perché il clima era cambiato e c’erano le autolinee.
Castelraimondo, per esempio.
A Castelraimondo della ferrovia non trovi traccia, ma trovavi il mercato con le tende e la porchetta, e se torni indietro sulla statale 77, superi Muccia.
Muccia, per esempio.
Chissà se è rimasto in piedi il santuario sopra il paese, che si chiama santuario di Col di Vento e da là, se si sale, si vede o si immagina la strada che fece Giacomo Casanova partendo da Loreto, perché la strada era sempre la stessa: Recanati, Sambucheto, Macerata, Tolentino, Valcimarra, Cappuccini, Ponte la Trave, Gelagna e Serravalle. A Valcimarra è rimasto (forse) il pennone della stazione di posta e anche un frammento di parete della locanda dove dormì Casanova, che si chiamava San Giorgio e che divenne Albergo Corona, e sulle sue mura venne incisa una frase tratta dal Discorso ai ciechi di guerra che Mussolini pronunciò a Roma nel 1923: “La salvezza della patria sta nel lavoro e nella disciplina”. Casanova arriva a Valcimarra dopo aver dato due paoli a un vetturino, e pensare che per sei sarebbe potuto arrivare a Foligno e risparmiarsi il cammino. Mentre crolla, sfinito, sul letto che prende in affitto a Valcimarra, ignora anche che all’osteria di Tolentino dove ha cenato ha dimenticato la borsa con sette zecchini d’oro. Quando lo scopre, deve cavarsela con quel che ha: i piedi che lo condurranno a Serravalle in cinque ore di marcia, se si esclude la sosta a Muccia per mangiare.
Col di Vento è una delle chiese erette a Maria, perché la Valle è popolata di madonne, madonne del piano e dell’acqua e del sasso e anche madonne che minacciano il bambinello col bastone, e madonne vendicative che uccidono Ponzio Pilato, e madonne che esigono di fermarsi proprio in un determinato punto, magari sulla cima pelata di un monte come Col di Vento, perché la chiesa da cui si guarda il cammino di Casanova è sorta fra gli alberi stregati di pere selvatiche dopo che il somaro che portava la tavola lignea con effigiata la madonna si fermò e non ci fu verso di farlo muovere, e allora il santuario venne costruito qui, dove c’era anche l’eremo di un seguace di San Francesco che si chiamava Beato Rizeiro, e oggi si può (si poteva) dormire nell’eremo del Beato Rizeiro con vista sui Sibillini, sala riunione, sala conferenze, wi fi, e se capiti al momento giusto approfitti anche della sagra della trota sotto, a Muccia, e puoi (potevi, perché ora è semicrollata) concludere la serata all’Osteria del cacciatore dove sono passati cantanti lirici e nazisti e gli operai che costruiscono la superstrada, e puoi mangiare il miglior capriolo del mondo e ammirare lo stemma della città con la mano che brucia sul fuoco, perché pare che anche Muzio Scevola sia passato di qui e abbia, pensa, fondato la città. Ma vai avanti.
Pievetorina, per esempio.
Scopri dunque che nella valle Sant’Angelo c’è un eremo in un antico santuario dedicato all’arcangelo Michele, e dalla grotta stilla l’acqua terapeutica che cura. Prosegui in val Nerina, arrivi a Ussita, per esempio.
Dunque arrivi alla montagna e ai torrenti e alle sorgenti dell’acqua minerale Roana, sfiori Castel Fantellino dove c’è una fontana col fantasma, che è quello di una ragazza che una notte sparì sul sentiero, e il suo viso si scorge nella pietra della fontana dove, chissà, è rimasta imprigionata. I Sibillini sono vicini, è vicina la piccola perla della zona.
Visso, per esempio.
Visso, che venne straziata dalla peste e dalle compagnie di ventura e che combatté la gloriosa battaglia del Pian Perduto contro Norcia nel 1522, perché anche noi abbiamo i nostri tumulilande, con le ossa dei morti che ormai sono polvere e il vento freddo di battaglie lontane, e persino un laghetto che a volte si tinge di rosso per ricordare i caduti in battaglia. E’ sempre una storia di confini, comunque: dopo lunghi conflitti per contendersi Gualdo e Castelluccio, divisi dal Pian Perduto, Vissani e Norcini si affrontano, e il poeta pastore Berrettaccia di Valleinfante racconterà dell’erba insaguinata, e di come i seicento vissani ebbero la meglio contro seimila norcini perché avevano Santa Margherita dalla loro parte, mentre i norcini erano devoti solo al vino: “E Mentre Visso in Margherita ha fede/Norcia in Bacco suo Dio confida e crede”.
Confidiamo, crediamo. Raccontiamo, per resistere.