SUL MONDO STAVA SCENDENDO IL BUIO: A PROPOSITO DI SOLITUDINE

Sono stata, negli anni, compagna di strada di due cani, un pesce rosso, un criceto, due pogone, che negli ultimi undici mesi sono andate nel paradiso di draghi (che include anche quelli piccoletti) e, attualmente, di due gatti. Ho conversato con piante di yucca e converso ogni sera con resistenti plumbago, rigogliosi cespugli di lavanda e rosmarino, rose insidiate dalle lumache, ostinati limoni, infestanti ma bellissime fragoline, gerani stentati, insospettabili felci.
Se vado indietro nel tempo, mi rendo conto che la mia frequentazione di specie non umane è aumentata recentemente. Se rifletto su quel che vedo nei social, mi rendo conto che le dosi di empatia, tenerezza, fiducia, anche e forse soprattutto da parte di coloro che si presentano come spietati, vengono riservate alle piante e agli animali. Dunque ha ragione Richard Powers, l’autore del molto premiato “Il sussurro del mondo” quando dice:
“Nella maggior parte di noi c’è ancora un po’ di animismo o panteismo, un tipo di credo che proviene dalla nostra infanzia personale e dalla giovinezza della civiltà umana. Tutti noi soffriamo di quello che gli psicologi chiamano “solitudine della specie umana”, l’ansia che deriva dal pensare che siamo qui da soli”.
Ha ragione, ma non basta. Ovvero: è sacrosanto rivolgere le nostre attenzioni, di scrittori o di lettori o di persone, a tutto ciò che non degnavamo forse di uno sguardo, per amarlo e preservarlo. Ma come si fa a ritrovare quello spirito di comunità che a quanto pare è innato negli alberi e che un tempo era innato anche negli umani? Perché spesso si reagisce a ogni dolore, a ogni frustrazione, a ogni delusione, cercando un bersaglio e non fermandoci a riflettere. Mi colpisce, di nuovo, l’esistenza di punti in comune fra gli inveleniti dei social: spesso donne di mezza età, in quel momento di crisi e paura che spinge a proporre di noi un’immagine di seduzione, con scollature profonde e accavallo di gamba, come per chiedere, e chiederci, attenzione e ammirazione; spesso uomini di mezza età, meno attenti all’immagine e molto attenti alla condivisione di meme e filmati chediconotuttalaveritàchecièstatanascosta. E poi, cuccioli o anche cani e gatti in età ma affettuosi e docili, e rose in boccio e palme in balcone.
Non sto dicendo niente di nuovo, me ne rendo conto. E “non è bene che l’uomo sia solo” viene, se non ricordo male, dalla Genesi. Però. Però c’è qualcosa di inedito, nei nostri tempi. Qualcosa che bisogna capire, prima che scenda la nebbia. Fu, come al solito, uno scrittore di fantascienza a dirlo. Philip K. Dick, in “La penultima verità”:
“Una nebbia può penetrare dall’esterno e impossessarsi di te; può invaderti. Alla lunga e alta finestra della sua biblioteca (una regale struttura costruita con i frammenti di cemento che un tempo, in un’altra epoca, formavano una rampa d’accesso della Bayshore Freeway), Joseph Adams rifletteva mentre guardava la nebbia, quella del Pacifico. E siccome era sera e sul mondo stava scendendo il buio, quella nebbia lo spaventava quanto l’altra, quella nebbia interiore che non invadeva ma si estendeva e si rimescolava riempiendo ogni parte vuota del suo corpo. Quasi sempre, a quest’ultima nebbia si dava il nome di solitudine.”

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