IL PASSO LEGGERO CHE DOVREMMO AVERE: PER ALEX LANGER

Era il 3 luglio di ventiquattro anni fa. Alex Langer disse addio alla vita, volontariamente. Aveva 49 anni. L’11 dello stesso mese, di quello stesso 1995, Adriano Sofri usò queste parole per la commemorazione al Parlamento europeo. Sono parole preziose, specie oggi, soprattutto oggi.

Di tutti i viaggi comuni il più bizzarro fu un viaggio in Libia, quindici anni fa, cui partecipò anche un gruppo di pacifisti europei e di Verdi del nord Europa. Alex mi aveva invitato, oltre tutto, perché ne scrivessi al ritorno: una specie di misura cautelare.
Conobbi allora, di alcuni di quei Verdi settentrionali, la sensibilità al conflitto Nord-Sud (che in Alex sarebbe stata sempre vivissima), e anche una tentazione ingenua di trovare pregi antimperialisti in regimi nazionalistici, dispotici e antisemiti. Ne conobbi il metodico attaccamento alla consultazione e alla decisione democratica, e anche una riluttanza all’ironia e una specie di Mania del Regolamento. Incontrammo Gheddafi. Spiegò seraficamente che il suo libretto verde era un’anticipazione del verde ecologista. Uno scarafaggio camminò verso di lui, dalla sabbia sul tappeto nella tenda in cui ci riceveva, finché con un movimento improvviso il colonnello lo afferrò tra le dita di un piede, e lo ributtò nella sabbia. Fu il solo punto ecologico di un incontro allarmante, sebbene ad alcuni dei nostri compagni di viaggio non sembrasse immediatamente così. Ero un po’ sconcertato, benché sapessi che la Mania del Regolamento è anche la chiave della grandezza di don Chisciotte. Alexander stava scrupolosamente alle regole, pur di informare e persuadere i suoi compagni di ciò che gli sembrava giusto; e a me spiegava altrettanto pazientemente quegli usi di discussione infinita, come si insegnano a un principiante i rudimenti di una lingua straniera. Ha fatto sempre così, con la sua intelligenza di minoranza.
Alex era figlio di un padre medico, ebreo viennese non praticante, e di una madre rigorosamente laica, e diventò lui stesso, da ragazzo, “una specie di cattolico autodidatta”. Studiò dai francescani a Bolzano, poi giurisprudenza a Firenze, dove conobbe don Milani e la sua scuola di esiliati, poi sociologia a Bonn e a Trento. Dopo una militanza locale nell’attivismo cattolico, e poi nella “sinistra informale”, Alex aderì alla sinistra extraparlamentare di Lotta Continua. Ma anche in quella esperienza, invero trascinante, tenne sempre una sua autonomia personale e “regionale”. In nessun momento accettò per sé tentazioni centralistiche, che riguardassero le proiezioni ideologiche o la pratica quotidiana. Più che riserve – impensabili per l’intransigenza e la franchezza che lo animavano- quelli di Alexander erano antidoti misurati con cura. Il primo antidoto era l’attenzione a conservare il legame più stretto con il Sud Tirolo-Alto Adige, e con le persone con cui aveva condiviso la propria formazione lì radicata. Una specie di federalismo di fatto lo distingueva dalla assimilazione frettolosa, o anche solo dalla distrazione, con cui, in nome della Grande Causa, la maggior parte di noi tendeva a procedere. Il secondo antidoto era la decisione di tenersi scrupolosamente un lavoro proprio, un ambiente proprio, una stanza insomma tutta per sé, distante e indipendente dalle stanze comuni di una politica che tendeva a bruciare tutto dentro di sé. Parecchi anni dopo, ne parlò così: “Cercavo, con altri, una linea che mi consentisse di restare solidale con la mia comunità (o anche solo di non esserne rigettato) e insieme di non essere nemico dell’altra. Di non esaurirmi nell’identificazione con una fazione, una situazione: di essere anche “altrove”. Anche più tardi, quando collaboravo a “Lotta Continua”, e mi ero trasferito a Roma, ero contento di avere un altro lavoro, di insegnante, e un altro quartiere, lontano da Trastevere, di non essere sempre e solo lì, come mi pareva che succedesse ad altri. Anche se magari li invidiavo perché erano ‘dentro’ senza residui, giorno, sera, notte.
Parlare più lingue è una condizione pratica e metaforica di questa possibilità di essere qui e altrove”.
Così, ora, pensando ad Alex -e a tanti altri, troppi, che stettero insieme allora e non sono più vivi- quella distanza conservata, quella capacità di restare se stessi nella spinta alla fusione e all’anonimato, mi sembrano l’indizio di un pregio involontario, fra tanti difetti ostinati, di Lotta Continua. E’ un fatto che, lungo le peripezie successive degli schieramenti e dei colori, Alexander sembra aver raggiunto precocissimamente un punto fermo cui non avrebbe mai cessato di tornare. Era qualcosa di più peculiare della scelta di stare dalla parte degli ultimi, o della cura per le minoranze e per le dimensioni prossime, o della diffidenza per tutto ciò che è troppo grande e pesante. Era, di queste scelte fondamentali, una conseguenza meditata, un metodo.
Chi abbia seguito la fatica che chiamerò eroica di Alex sulla ex Jugoslavia degli ultimi quattro anni, non stenterà a riconoscerne l’ispirazione limpida e impressionante nei criteri che enunciava in un colloquio di dieci anni fa, così:
“Possiamo chiamare ‘realismo’ lo spazio fra un discorso limite e una situazione data. Il caso principale è il rapporto fra pacifismo e trattativa politico-diplomatica. Anche qui proverei a ricavare dalla circoscritta esperienza dei ‘blocchi etnici’ poche e modeste regolette. La prima, che c’è bisogno dal basso, dai ranghi, di molti traditori del proprio blocco che non passino dall’altra parte, non diventino semplicemente dei transfughi.
Questi ‘disertori’ devono poter contare su loro omologhi nell’altro blocco perché il loro credito cresca, e perché la loro maturazione sia reciproca. A un certo punto diventa possibile associarsi, arrivare a un grado molto alto di integrazione e di efficacia congiunta -ma alla condizione di aver conservato un’appartenenza. Per fare una pace bisogna che qualcuno, senza dover essere un eroe, dimostri che è possibile, e che in qualche modo ne sperimenti in anticipo le condizioni, passi attraverso il ponte che si è sforzato di gettare fra le parti”.
Se mi chiedo che cosa abbia reso Alex così precocemente e profondamente sensibile alla difesa della natura cui apparteniamo, penso soprattutto a due spiegazioni. La prima viene dal paesaggio stesso della sua terra di origine, dalla bellezza piccola del suo paese e da quella imponente dei monti e dei boschi che lo circondano, dalla tradizione di rispetto che vi si respira, e che la casa di famiglia di Alexander custodiva quasi con solennità.
Quel paesaggio tirolese, che può diventare geloso e chiuso, è stato portato nei viaggi di Alexander come uno spirito di aria pura e di cielo aperto. La seconda spiegazione sta nella religiosità di Alex, nella sua compassione col mondo, forte com’è solo in certi poeti o in certi santi. Più esattamente, nel modo bruciante in cui Alexander ha provato il desiderio cruciale di ogni vera religiosità: il desiderio della conversione, della metanoia, del cambiamento di vita. Come e più di chi ha amato la rivoluzione, gli ecologisti, quando non sono solo dei funzionari o degli esperti, conoscono il richiamo della conversione: e persino il lessico tecnico, della riconversione economica o del riciclaggio, ne serba l’eco. In Alexander questa suggestione era estrema, e ne ha accompagnato l’impegno politico a volte ispirandolo, altre volte prendendone le distanze e suggerendo l’abbandono, la dimissione, la fuga. Alexander era attirato dal raccoglimento monastico, e i suoi itinerari privati ne seguivano spesso i luoghi: anche la visita, forse solo casuale, all’abbazia di San Miniato e al cimitero bellissimo, a due passi dalla sua casa fiorentina e dal giardino della sua morte, compiuta alla vigilia. C’era stato un momento in cui il modello dei monasteri era sembrato un paradigma prezioso per le scelte verdi, e ricordo l’attenzione con cui Alex aveva ascoltato la proposta benedettina di Rudolf Bahro, salvo concludere poi per la vocazione meno conventuale alle strade aperte dei francescani camminatori, e dei loro sandali: ad Alex piacevano i sandali.
Di ambedue queste ragioni -l’amore alla bellezza e il rispetto della natura, il desiderio della conversione- trovo un segno penosamente rovesciato nell’ultima sera di Alexander. Nel campo scelto per impiccarsi, negli alberi, nei piedi scalzi, e perfino in quella corda da montagna comprata così fuori posto, in un negozio di Firenze. E soprattutto nel bisogno di conversione, il desiderio di un’altra vita, di un altro luogo, soffocato e differito fino a compiersi in quel passo senza ritorno.
Sarebbe facile, seguendo il legame fra nostalgia della conversione e suicidio, leggere nella morte di Alex il segno di un destino politico comune. Ma bisogna tenersi fermamente di qua da questa conclusione grossolana. Almeno come se n’è tenuto Alex stesso nei suoi bigliettini finali, e soprattutto dove dice la propria disperazione senza scampo, ma anche che essa non toglie niente a ciò che era buono e rimane buono, e l’augurio che altri continuino. Il suicidio di Alex è suo, come specialmente suo era un impulso di simpatia e di condivisione, e, per dire la parola vera, di amore, reso vulnerabile dal proprio stesso fervore illimitato, e infine forse ricaduto su se stesso. Alla domanda evangelica: “Chi è il mio prossimo?”, Alex aveva cercato di dare la risposta più larga, desiderando un amore che non fosse divisibile, che non diminuisse per il fatto di essere donato, salvo esserne forse lui stesso consumato, e sentirsi soccombere sotto il peso, lui che ci sembrava andare e venire col passo della leggerezza. “Empedocle dal passo leggero”, l’ha salutato l’altro giorno Peter Kammerer nella Badia Fiesolana.
Dal conflitto fra la grazia e la pesantezza su cui si tormentava Simone Weil, Alex era attirato con una forza che solo ora intuiamo. Fra le figure che tornano nei suoi colloqui e nei suoi scritti c’è il Traghettatore, il gigante San Cristoforo, che carica sulle spalle il fanciullo divino e soccombe quasi sotto il suo peso: il carico apparentemente più leggero e gioioso che si tramuta in un fardello quasi insopportabile.
“Caro san Cristoforo… Ero un ragazzo che ti vedeva dipinto all’esterno di tante piccole chiesette di montagna… Mi feci raccontare tante volte la storia da mia madre… La tua rinunzia alla forza e la decisione di metterti al servizio del bambino ci offre una bella parabola della ‘conversione ecologica’ oggi necessaria”. (1990)
Le pagine di Alexander in memoria di Petra Kelly e Gert Bastian, scritte all’indomani della loro morte, nell’ottobre 1992, e ribadite tal quali l’anno dopo, nel giugno 1993, quando si argomentò che non si fosse trattato di un doppio suicidio, ci sembrano oggi la miglior descrizione della sua propria disperazione, e confermano come il suo gesto così inaspettatamente sconvolgente venisse da lontano: “Forse è troppo arduo essere degli Hoffnungstraeger, dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze e le delusioni che inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande il carico di amore per l’umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere”.
Tuttavia non dobbiamo neanche allungare l’ombra della morte di Alex all’indietro, e compiangere una sua doppia vita. Quella leggerezza che gli abbiamo conosciuto era vera: né la leggerezza viene senza fatica. Il modo fervido, entusiasta, infinitamente curioso e premuroso con cui Alex andava incontro alle persone e alle cose era il suo, per quanta fatica gli costasse. Erano sue, le striscioline di carta passate durante le riunioni o i ritrovi, ironiche o acute o sarcastiche. Alexander aveva sentimenti e qualità di scrittura forti, e ne ha lasciato qualche saggio: ma, come per le altre cose, non aveva tempo. Scriveva dovunque, in treno soprattutto, rubando il tempo al sonno, e sempre in ritardo, in fretta e furia, e con una destinazione urgente. Quanto alla scrittura calma e disinteressata, rinviava, come per l’altra vita che prometteva a sé e ai suoi più cari: ma badando lo stesso allo stile, negli interventi d’occasione come nelle lettere ai giornali. Alexander era, credo, la persona più brava fra quante in Italia professano la politica: ebbene, il mezzo più frequente in cui ormai cercava di far arrivare ai mezzi di informazione qualche succo della sua enorme attività era l’invio di lettere alle rubriche della posta sui giornali. Ricordo il puntiglio con cui spediva i rendiconti delle sue entrate e uscite, e immagino che passasse per uno stravagante presso quelle redazioni che per anni intitolavano a piena pagina sugli eroi e gli antieroi della corruzione e della concussione.
Alex era, e molti di voi devono saperlo per esperienza, uno scrittore di cartoline. Scrivere cartoline è un genere letterario anticonformista, e Alex compensava la sbrigatività del messaggio con la cura messa nelle parole, nell’immagine scelta, perfino, quando era possibile, nell’adattarle i francobolli: e il tempo lento delle poste perfezionava la cosa. Ricorderò ancora che, da ragazzo, Alex aveva studiato e imparato per proprio conto la stenografia: premura in cui si riconoscerà anche la passione di Alex per le cose che si traducono in altre cose, e che faceva di lui, magari nello stesso convegno che aveva organizzato e presiedeva, un traduttore simultaneo volontario, per dare un po’ di sollievo a quelle persone mirabili che sono traduttrici e traduttori di professione. Comprava anche libri antichi, Alex: anche per quelli non ha aspettato il tempo.
Fra gli amici lontani che ho risentito in questi giorni c’è Peter Schneider. Eravamo affascinati da quella sua figura, Der Mauerspringer , il saltatore di muro. Alex era il saltatore di muri, dal lato più rischioso e imprevedibile. L’altro giorno, un operaio friulano raccontava di quando, al tempo del terremoto in Friuli, un paesino esasperato aveva cacciato tutti i maldestri soccorritori, e Alex aveva deciso di andarci, benché energicamente sconsigliato: e nel giro di pochi giorni era amatissimo da tutto il paese, e si sentiva chiedere a ogni angolo: “Il todesco, dov’è il todesco?” Così, tedesco da noi, italiano a Frankfurt, europeo dell’Europa dei cittadini, Alex era un passatore di confini. Da ragazzo era un leader, nel suo modo così poco autoritario e invece affettuoso, fiducioso, femminile quasi, e aveva fondato la sua prima rivista, Offenes Wort, “Parola aperta”, e poi il suo primo gruppo, Die Brucke, “Il Ponte”.
Alla fine della sua vita il suo e nostro paesaggio è dominato dai ponti distrutti nella Bosnia Erzegovina, dal ponte di Mostar, l’arco in cielo martellato fino a stramazzare. Bisogna aggiungere che in Italia, nell’ Italia ufficiale che rifiuta di specchiarsi nella tragedia dei suoi dirimpettai, ci sono bandiere demagogicamente sventolate in nome della secessione; e c’è, nel Sud Tirolo-Alto Adige civilissimo, una legge che ha vietato ad Alexander Langer di candidarsi come sindaco di Bolzano perché aveva rifiutato di sottoporsi al Censimento etnico. Tanti anni prima della rovina jugoslava, Alex aveva pagato quel rifiuto venendo privato del suo posto di docente -riguadagnato dopo anni di cause di giustizia; l’ha ripagato ora con l’esclusione oltraggiosa da una carica che sarebbe stata la più sua. Ebbene, la reazione a questo vergognoso episodio è stata infima, tanto più se confrontata col cordoglio ampio che ha accolto la morte di Alex . Cordoglio sincero fino al pianto per tanti, ipocrita e imbarazzato in altri: in realtà anche le lacrime di coccodrillo sono a loro modo sincere e rivelatrici, confessano che anche chi mostrava di ignorarlo e lo privava di voce sapeva bene che Alex era tanto migliore. Che delle persone come lui si può dire la verità, quando non fanno più ombra.
Alex aveva sempre considerata sacra la vita, e, nutrendo il più attento e partecipe rispetto per la libertà delle donne, aveva tenacemente messo in guardia da quella che chiamava la “banalizzazione dell’aborto”. La battaglia contro gli arbitri nelle manipolazioni genetiche e nelle biotecnologie, condotta nel Parlamento europeo, è stata come sapete bene fra le sue più appassionate ed efficaci. Anche in questo caso, i giornali italiani gli hanno riservato poco più che le lettere al direttore.
Questa rimozione è stata soprattutto vera e grave per l’opera di Alexander sulla Jugoslavia. Era stato, Alex, preveggente come nessun altro: tutta la sua vita civile lo preparava a capire e temere ciò che covava lì. Nel suo impegno nessuna risorsa è stata risparmiata, né intellettuale e morale, né materiale. Da ogni viaggio Alex tornava pieno di conoscenze di indirizzi nuovi, e di persone in carne e ossa a suo carico. In ogni impresa, viaggi, convegni, il Verona Forum e le sue iniziative, dominava la persuasione umile e rigorosa che si dovesse dare la parola alle persone di buona volontà dei paesi travolti dai nazionalismi e dai razzismi, che si dovesse tenere insieme, nonostante tutto, una trama minima di rapporti, di incontri diretti, di colloqui. Che non si dovesse accettare la guerra, e si dovesse lavorare per la pace. In questa enorme fatica, tenace quanto minuta, Alex ha speso la parte migliore di sé e dei suoi ultimi anni. La sua era una sfida temeraria, affidata alla speranza che la brutalità si esaurisse come la furia di certi temporali, e che le autorità del mondo sapessero almeno arginarla. Ma la brutalità, senza perdere di furore, è diventata cronica: e mentre le autorità del mondo non volevano o non sapevano figurarsene la profondità, e tanto meno misurarsi con essa, le voci di buona volontà, di rispetto reciproco e di convivenza diventavano sempre più fievoli e disperate. Inoltre, quando si solidarizza con tutte le vittime, quando si lavora perché torni una pace degna, si possono accantonare provvisoriamente domande che diventano ineludibili quando ci si interroga viceversa su come fermare una violenza che, quanto a lei, è pronta a divampare fino alla distruzione totale.
Quelle domande riguardano l’equivoco della nozione indistinta di “guerra” -regolare, o civile, o quant’altro-, la differenza secca fra aggressori e aggrediti, la necessità della legittima difesa e all’opposto la responsabilità dell’omissione di soccorso, la fonte e i mezzi di un esercizio della forza a tutela dell’umanità e in adempimento della legalità internazionale. Alex non evitava di porsi queste domande, né di rispondere loro nettamente: benché fosse tormentato dallo scacco di una resistenza che si affidasse solo a parole e gesti non violenti, e benché tenesse, come sempre aveva fatto con scrupolo, a non forzare i sentimenti, le opinioni, e gli stessi pregiudizi delle persone con le quali aveva scelto di collaborare e che sentiva di rappresentare. Questo, se posso parlare anche di me, divise praticamente le nostre strade, benché non idealmente, e tanto meno umanamente -al contrario. Io ho scelto di trascorrere gran parte del mio tempo a Sarajevo, e di dire, dovunque riesca a farmi sentire, quello che sento giusto e terribilmente necessario. Ma io sono e voglio essere solo, e non devo regolare le mie parole su alcuna responsabilità comune e condivisa. Tre anni fa, al contrario, speravo di contribuire con altri ad aiutare concretamente le vittime della violenza in ex Jugoslavia, e di far crescere nella comune solidarietà la consapevolezza delle responsabilità diverse e delle cose giuste da fare e da rivendicare, senza alcun pregiudizio ideologico. Allora promossi un digiuno dedicato a “tutte le vittime”, cui aderirono alcune centinaia di persone, con una qualche modesta risonanza, e, insieme a loro, “regalai” quel digiuno ad Alexander e al suo Verona Forum, perché lo spendesse a vantaggio del suo lavoro.
Ricordo ancora la gratitudine contenta e quasi fanciullesca con cui accolse questo dono, che era insieme un investimento e una testimonianza assoluta di fiducia. Voglio aggiungere il nome della persona che con me organizzò e propagò quella iniziativa, con la dedizione efficace che la distingueva, Mariateresa Di Lascia, una militante radicale. E’ morta l’anno scorso di un tumore, a 40 anni. Risentirete il suo nome: l’altra sera, la sera del giorno in cui avevamo dato l’ultimo saluto ad Alex nella Badia di Fiesole, Mariateresa ha ottenuto il più importante premio letterario italiano per un suo bellissimo romanzo, Passaggio in ombra, pubblicato postumo.
Ricordo oltre tutto quell’episodio perché su ogni problema, e tanto più sul mattatoio bosniaco, niente fa altrettanto danno che i partiti presi una volta per tutte (la litania pacifista, come avrebbe detto Alex , o il machiavellismo interventista a priori; e, peggio, il pacifismo o l’interventismo sposati per ragioni di convenienza e di schieramento). La solidarietà pratica ed esposta avrebbe dovuto essere, e per tanti è stata, l’occasione per conoscere, e decidere, su come sforzarsi di contribuire a metter fine al massacro. Sarajevo è assediata da 39 mesi: e vi si prepara un orrore finora neanche immaginato. Oggi è stata abbandonata Srebrenica. Pochi giorni fa, nella nostra ultima conversazione, Alexander mi ha parlato con scandalo e sconforto di quelli che, in nome dell’amore per la pace, mettono sullo stesso piano Karadzic e Izetbegovic; di quelli che, nella sinistra cui tutti appartenemmo, si rifiutavano ora di pubblicare le posizioni sue e dei suoi collaboratori; e mi ha parlato anche di un esaurimento drammatico del suo stesso sforzo, di fronte alla violenza incontrastata della barbarie. Si era innamorato, in questi anni, Alex, di Tuzla -ognuno di noi si è innamorato di una città martoriata e resistente, di Vukovar, di Sarajevo, della Mostar spaccata atrocemente in due. Tuzla, con la sua dimensione ravvicinata -non molto più grande di Bolzano- con la sua municipalità fiera della sua indipendenza dalle anagrafi etniche, ha offerto ad Alex l’occasione di una nuova e commovente cittadinanza. Mi aveva raccontato che il sindaco di Tuzla, Selin Beslagic, dopo l’ultima visita al Parlamento europeo, organizzata dal Forum, era appena rientrato a Tuzla, quando la più orrenda delle stragi aveva massacrato i ragazzi che se ne stavano davanti al bar nella sera d’estate. Allora Beslagic aveva spedito ad Alex in copia le lettere aperte da lui indirizzate per fax al Consiglio di Sicurezza dell’Onu: “Se restate in silenzio, se anche dopo questo non agite con la forza come unico mezzo legale rimasto per proteggere un popolo innocente dai crimini dei serbi di Karadzic, allora senza dubbio alcuno voi eravate e restate dalla parte del male, del buio e del fascismo. Voi avete dichiarato Tuzla e altre città assediate nella Bosnia Erzegovina aree protette. Voi avete esaurito tutti i mezzi diplomatici. Bambini e persone innocenti vengono uccisi senza sosta. In nome di Dio e dell’umanità usate finalmente la forza”.
E poi, il 26 maggio: “C’è una sola cosa che potete fare. Dovete bombardare le postazioni di artiglieria sulle colline attorno a Tuzla. Voi dovete bombardare tutte le postazioni di armi pesanti dei fascisti serbo-bosniaci in Bosnia. Altrimenti, fra voi e gli assassini dei nostri bambini qui non ci sarà alcuna differenza. Perché anche nel diritto internazionale la collaborazione col crimine è essa stessa un crimine”.
Alex era rimasto molto turbato da queste parole. Le ha citate nel suo ultimo scritto. Sapeva che, anche quando si sia rinunziato a dire, come dicemmo un tempo: “Siamo tutti ebrei tedeschi” o “vietnamiti”, e, ora: “Siamo tutti sarajevesi” -non abbiamo rinunciato tutti, del resto- e anche se non pensiamo più che le vittime dell’ingiustizia di oggi portino in se la promessa del riscatto da ogni ingiustizia futura, tuttavia non si può accettare moralmente, dunque politicamente, nessuna opinione che non possa essere decorosamente sostenuta ed argomentata davanti alle vittime. Che, qualunque posizione si sostenga sulla Bosnia, bisogna immaginare di spiegarla in una riunione di Tuzla, o in uno scantinato di Sarajevo. Alexander pensava così.
Gli sono stato vicino, per amicizia molto prima che per comunanza politica, in un arco di tempo lungo e vario, e in un modo che rende i dettagli altrettanto preziosi che le grandi questioni. Soprattutto, ho seguito il periodo non breve in cui ad Alexander, in Italia, si offriva quasi ineluttabilmente il ruolo di leader del movimento verde, quando l’orizzonte di quel movimento era aperto e promettente, quando esso avrebbe potuto raccogliere insieme l’eredità buona della politica tesa a trattare la contesa fra umani con la necessità nuova della politica disposta ad affrontare l’agonia del mondo per mano pacifica dell’umanità, la politica della guerra e quella del risarcimento del pianeta, del nemico e della solidarietà universale, delle identità di parte e della cura per il passato e il futuro. Quasi ineluttabilmente, ho detto. A quell’esito si opponevano infatti due obiezioni: la prima, la meschinità e le gelosie che nello stesso movimento verde trovano una nicchia in cui radicarsi, e poi crescere rigogliose. La seconda, il richiamo di sempre di Alexander verso il gran rifiuto, la dimissione, l’uscita secondaria, verso l’andare altrove. Se si fosse battuto, avrebbe prevalso, credo. Non voglio dire che avrebbe dovuto battersi. Al contrario, forse avrebbe dovuto cedere altre volte, e forse più radicalmente, alla voce che lo chiamava altrove. Deve aver sentito sempre di più, come il Giona che citava, la predicazione come un’imposizione, un fardello non voluto e opprimente. Al punto che, per andare altrove, ha dovuto passare di là. Ma in tutto questo lungo viaggio Alexander non ha mai cessato di pensare pensieri più grandi che non quelli di un luogo e di un momento immediati, di sognare sogni più grandi che non i muriccioli di questioni organizzative e di divieti burocratici che pretendevano di recintarli. Da tanto tempo, per tante volte era stato vicino a non avere più la forza di continuare. Che sia caduto, in un punto troppo arduo, è degno di pietà e di rispetto. Appena ieri la Chiesa cattolica respingeva i suicidi: nella chiesa dei Francescani di Bolzano un vescovo ha benedetto Alexander citando le parole del suo ultimo commiato.
Se avessi di fronte a me un uditorio di ragazze e ragazzi, non esiterei a mostrar loro com’è stata bella, com’è stata invidiabilmente ricca di viaggi e di incontri e di conoscenze e imprese, di lingue parlate e ascoltate, di amore, la vita di Alexander. Che stampino pure il suo viso serio e gentile sulle loro magliette. Che vadano incontro agli altri col suo passo leggero, e voglia il cielo che non perdano la speranza.
Adriano Sofri
Firenze 11 luglio 1995.

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