Il mio secondo figlio nacque morto, a differenza del primo, che visse sette giorni. “E’ colpa di Chernobyl”, mi disse un’infermiera rattristata mentre mi svegliavo dalla nuova anestesia. Era il 9 agosto 1986. Molti anni dopo, dopo che gli altri due figli sono faticosamente venuti al mondo, dopo che la vita, come sempre, è andata avanti, mi ritrovo a guardare una bellissima serie televisiva che ricorda a chi non c’era cosa fu quel 1986. A oggi, ci vien detto che non esiste correlazione fra quanto avvenne in Ucraina in una notte di fine aprile e problemi dovuti alle nascite o alla sterilità: non nelle regioni circostanti, figurarsi in Europa. E io ci credo, certo. Però ricordo molto bene quella primavera. Niente latte fresco, solo quello a lunga conservazione. Niente insalata, pomodori, verdure crude. Ci limitammo anche la frutta fresca. Esitammo su ogni cibo, sulle uova, sulla carne. E per la prima volta, noi che avevamo attraversato il decennio della festa e insieme delle pistole, dopo che avevamo salutato gli amici morti di overdose, per la prima volta abbiamo avuto paura di essere condannati.
Molti anni dopo, di nuovo, Svetlana Alexievich raccontò le storie di chi c’era in Preghiera per Chernobyl (vinse poi il Nobel per la letteratura, Alexievich). Poi è arrivata la serie di Craig Mazin, e di qui lo stupore per chi ignorava e si chiede “ma davvero?”.
Prima ancora, ricordava Nicola Lagioia qualche giorno fa, c’erano stati gli scrittori. Stephen King con The Stand, dove raccontava non la morte da radiazioni ma un contagio inarrestabile da SuperInfluenza dovuto a un esperimento militare. E prima ancora c’era stato Carlo Cassola.
Proprio lui, una delle “Liale” deprecate dal Gruppo 63, quello che aveva raccontato fragili e forti figure femminili in tanti romanzi fatti di niente, di speranze subito spezzate, di possibilità interrotte. Nello stesso anno in cui Stephen King scrive The Stand, Cassola scrive Il superstite. E’ il primo romanzo della cosiddetta “trilogia atomica” (gli altri due sono Ferragosto di morte e Il mondo senza nessuno). Il protagonista è un cane, Lucky, unico a essere sopravvissuto all’apocalisse nucleare, per poco. Peraltro, contiene non pochi presagi, non solo atomici:
“Gli stenti della vita erano la sola cosa che attirasse l’attenzione di tutti, uomini e donne. I partiti facevano la loro fortuna organizzando il risentimento sociale: i partiti di sinistra quello della povera gente, i partiti di destra quello dei pochi signori e dei ceti intermedi che avevano anch’essi in dispregio la condizione dei poveri. Nessuno che s’interessasse del problema della sopravvivenza: forse perché avrebbe dovuto interessare tutti, ricchi e poveri, chi viveva in ozio e chi si ammazzava dalla fatica”.
Interessante, vero? Ancor più interessante non solo la capacità di guardare lontano degli autori di fantastico, ma la nostra abilità nel dimenticarli. Tant’è.