Un post lungo, e forse avrei dovuto scriverlo prima: perché, e questo è un mio errore, dopo tutti questi anni avrei dovuto sapere che le polemiche non si fanno sui social. Ricapitolo: qualche giorno fa, Walter Siti rilascia a Rivista Studio un’intervista. E’ un’intervista disincantata e, almeno per come l’ho letta io, anche malinconica. C’è però la risposta a una domanda che mi ha fatta sobbalzare (e non solo a me). In particolare, questa affermazione:
“Mi dicono che vincerà una donna, e sarà così per ancora due o tre anni, e poi finito un ciclo si tornerà a un regime normale.”
Si sta parlando dello Strega, che poche ore dopo la pubblicazione dell’intervista verrà vinto da Donatella Di Pietrantonio. Scoppia un bel putiferio in rete, in molti casi con la ferocia a cui la rete ci piega. C’è una rettifica in coda all’intervista, ed è questa:
“A seguito delle polemiche nate da una risposta data nell’intervista, Walter Siti ci tiene a precisare più esaustivamente il suo punto di vista: «Viviamo in una società che accetta ancora la disparità di genere e mi è evidente la necessità di riportare l’attenzione sui libri scritti da scrittrici. Il mio augurio è che nella società del futuro si possa tornare a concentrarci sull’opera letteraria indipendentemente dal genere, dall’orientamento sessuale o dall’etnia di chi l’ha scritta».
C’è anche una rettifica dello stesso Siti su Facebook, ed è questa:
“Mi spiace che una frase da me pronunciata durante un’intervista sia stata interpretata come se io avessi detto che quando una donna vince un premio letterario allora la cosa non è normale. Sono un poco meno stupido di così. Quel che penso è che la categoria di #risarcimento non può diventare un criterio per giudicare sul valore di un’opera d’arte, letteraria o figurativa ecc. Penso che ogni processo rivoluzionario possa portare con sé dei danni collaterali.”
Le due rettifiche, e la frase, mi portano a pensare una cosa: Walter Siti, e con lui molti altri, e anche altre (molte, molte, molte altre), non vedono il problema. Perché se si scrive che attualmente il genere è ancora vincolante per ottenere attenzione, e che i riconoscimenti sono nei fatti risarcimenti, significa che la questione reale non è contemplata. Ed è questo il problema, non Walter Siti. Di cui, vorrei precisare per gli sbavanti che corrono a dire che le femministe vogliono castrarlo, ho sempre avuto la massima stima. Basta fare una ricerca su questo blog per scoprire quante volte l’ho citato, e come consideri altissimo il valore letterario dei suoi romanzi.
Di più.
Nel 2017, quando si scatenò il linciaggio a Siti per l’uscita di Bruciare tutto, io l’ho difeso. Ah, per la cronaca: lo difese anche Michela Murgia, definendolo “oscuro gioiello”, su Pagina99, guarda un po’ queste femministe cosa combinano. L’ho difeso perché era ed è un grande romanzo, che fa quello che la letteratura deve fare: indagare sul male. Percorso in cui Siti è maestro. Riporto qui una sua vecchia affermazione che ho sempre condiviso:
“L’identificazione coi malvagi è sempre stata una croce del romanzo, il motivo che l’ha fatto condannare per secoli; si sa che spesso nei romanzi i cattivi sono più interessanti dei buoni, ma il grave è che a un primo sdegnato “no, io non sono certo così” del lettore segue inevitabilmente una segreta ammissione “però forse sì, è proprio così che nel mio profondo potrei o vorrei essere”. Fin che ammiro Jago passi, ma che succede se divento Raskolnikov? Nel migliore dei casi questo ha un valore catartico, nel peggiore porta all’emulazione. Dipende dalla maturità del lettore, ma anche dalla sincerità dello scrittore nel mettere le carte in tavola; e comunque è un rischio che il romanzo non può fare a meno di correre”.
Dico un’altra cosa, per fare chiarezza e, spero, mettere a tacere quelli e quelle che ogni volta che si imbattono nella mia bacheca ululano al woke e alla cancel culture e a tutto quello che volete. Una cosa che ho già scritto, peraltro, proprio qui. Ma ripetere fa bene.
Io il politicamente corretto lo detesto. Perché trasforma il nostro pensiero in faccenda binaria, il giusto di qua, l’ingiusto di là, e soprattutto per quanto riguarda le narrazioni (i libri, i film, il teatro) questo uccide ogni possibilità di approfondimento. Aggiungo: la letteratura è molto spesso maleducata, giustamente maleducata: non accarezza, ma striglia, quando è buona davvero. Anche quando apparentemente è gentile (pensate ad Alice Munro, o a Kazuo Ishiguro), sa strattonarti con una sola frase. Non è necessario essere maledetti per postura come Houellebecq: se sai cosa dire, e se quel che dici è nel mondo, e non nella tua stanza e nella tua sola vita, non sei accomodante. Dunque, accostare il bon ton alla lettura è un errore.
E allora?
E allora il problema non è il politicamente corretto e tutto quel che ad alcuni e alcune piace evocare per autoconsolarsi e dire che il mondo è stato crudele con loro per colpa delle femministe e che in virtù di queste baccanti folli i loro libri non vendono.
Non considerare l’autorevolezza femminile se non per una malintesa questione di quote non rientra nel discorso sul politicamente corretto, ma in un sommerso collettivo che continua a ritenere le donne poco autorevoli. E a mettere alla gogna quelle che l’autorevolezza se la sono conquistata. Quanti discorsi alti sulla letteratura, per esempio, includono le opinioni delle scrittrici? Pochi, a scorrere non solo le pagine culturali dei quotidiani, ma anche le riviste online. E’ un piccolo esempio, ma è alla base di quel ristagno culturale.
E quindi ripeto quanto detto altre volte. E’ indispensabile riflettere sul punto. Perché parlare di risarcimento, o di riconoscimenti dati in quanto donne significa non aver visto il problema. Che è legittimo, ma svia. Questo discorso riguarda non la necessità di inserire a forza libri scritti da donne nelle proprie liste di qualità pubbliche e private, ma il motivo per cui da alcune di quelle liste non appaiono titoli importanti di scrittrici, in grado di raccontare il mondo al pari di quanto avviene nei titoli importanti degli scrittori. In Italia se ne parla poco e malissimo. Altrove sì: e negli Stati Uniti nessuno si stupisce se Katha Politt, poetessa e critica letteraria, rilascia dichiarazioni come questa: «Sono convinta che ci sarà sempre posto per una Toni Morrison o una Mary McCarthy, ma solo una alla volta. Per ogni donna, c’è spazio per tre uomini.» (qui, per inciso, trovate il bell’articolo di Meg Wolitzer per il New York Times, dove si faceva il punto sulla questione).
Dunque, quello che vorrei precisare per la centesima volta è molto semplice. Non ho mai sostenuto né mai sosterrò che le donne scrivano meglio degli uomini. Ho letto pessimi libri scritti da donne e pessimi libri scritti da uomini, grosso modo in pari quantità: se proprio devo rilevare una differenza, è nel modo di porsi delle scrittrici, che sono – in genere, e dunque semplificando al massimo – meno propense ad autodefinirsi geniali e incomprese.
Uno dei criteri più importanti che adotto quando leggo un libro è quello della sua onestà. E, se permettete, cito quanto scrive Stephen King in On writing:
“D’accordo, i bugiardi prosperano, ma soltanto in linea di massima, non nella giungla dell’autentica scrittura, dove sarete costretti a raggiungere il vostro obiettivo una fottuta parola alla volta. Se, mentre siete laggiù, comincerete a mentire su ciò che conoscete e provate, sarà un disastro”. E, ancora: “sarebbe un guaio pretendere di diventare scrittori senza mirare all’onestà”.
Anche le donne scrivono libri disonesti, certo. Lo fanno quando si inseriscono in un filone, incluso il femminismo, immaginando di avere maggior attenzione perché quel filone è emergente. Lo fanno quando non scrivono perché quel libro va scritto, come abitualmente avviene per i libri onesti, ma per mantenere una posizione. E, certo, lo fanno anche gli uomini.
Non è il genere di appartenenza a fare la qualità, che sia chiaro, in questa umida mattina dell’8 luglio 2024, come ho fatto in altre mattine del mondo sullo stesso argomento. Ma esiste, e non va negato, il problema della qualità delle scrittrici che è in secondo piano, anche se non viene ammesso.
Un’ultima riflessione, che si deve a una considerazione di Costanza Jesurum, che qui scrive:
“Siti lamenta un cannibalismo dello sguardo politico su quello estetico, e trova che la troppa politica stia nuocendo all’estetica.
Anni fa Siti ha scritto un pamphlet interessante, “contro l’impegno”. Ci scrissi un post dove riuscii ad argomentare il motivo per cui sta avvenendo questo cannibalismo e il perchè io diversamente da molti di voi non lo contesti. Mi stupisce che il mio scrittore del cuore, che è del cuore per la sua intelligenza sociologica del reale, pari soltanto a quella di un Houellebecq, non colga questa cosa. Non colga la portata di una rivoluzione nella fruizione e nella produzione culturale che travolge le cose”.
E’ esattamente questo il punto. Ma rilancio: ci sono scrittrici e scrittori che non hanno disgiunto etica ed estetica. Se posso, cito David Foster Wallace, Margaret Atwood, Stephen King fra i molti altri. Per qualcuno la seconda e il terzo non sono letterari. Ma questa, permettete, è ancora un’altra storia, e non sono affari miei.