Intanto, un benvenuto a chi segue da pochi giorni questo blog, dopo il lungo addio a Fahrenheit che di fatto ha occupato l’intero mese di giugno. Ma ora è tempo di ricominciare, e approfitto per ricordare dove sarò nei prossimi giorni:
Domani, 2 luglio, alle 21.15 a San Mauro Pascoli, per Cortocircuiti narrativi, per parlare di King, e non solo
Giovedì 3 luglio, triplo appuntamento:
A Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, ore 17.30, per la tappa conclusiva di Welcome Stories.
A Cavriago, ore 20, 𝐚𝐥 𝐊𝐨𝐫𝐧𝐞𝐫, 𝐩𝐚𝐫𝐜𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐩𝐚𝐥𝐚𝐳𝐳𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐬𝐩𝐨𝐫𝐭 𝐀𝐓𝐓𝐑𝐀𝐕𝐄𝐑𝐒𝐎 𝐋𝐀 𝐍𝐎𝐓𝐓𝐄. Ovvero: “𝐐𝐮𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐯𝐞𝐝𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐦𝐚 𝐞𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞: 𝐮𝐧’𝐞𝐬𝐩𝐥𝐨𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐥𝐞𝐭𝐭𝐞𝐫𝐚𝐭𝐮𝐫𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐟𝐚𝐧𝐭𝐚𝐬𝐭𝐢𝐜𝐨, 𝐝𝐚 𝐒𝐡𝐢𝐫𝐥𝐞𝐲 𝐉𝐚𝐜𝐤𝐬𝐨𝐧 𝐚 𝐒𝐭𝐞𝐩𝐡𝐞𝐧 𝐊𝐢𝐧𝐠, 𝐝𝐚 𝐓𝐨𝐥𝐤𝐢𝐞𝐧 𝐚 𝐇𝐚𝐫𝐫𝐲 𝐏𝐨𝐭𝐭𝐞𝐫.”
Stesso posto, ore 21.30, Il potere delle parole, con Enrico Galiano e Amir Issaa
Da venerdì 5 a domenica 7 luglio a Sorci, workshop di Scuola Holden Abbiamo sempre vissuto nel castello (il sabato sera, piccola chiacchierata al castello su Nome non ha)
Come immaginate, il blog va in pausa fino al prossimo lunedì. Nel frattempo, alla luce di quanto sta avvenendo in Francia, ripubblico una lezione esemplare di Tolkien che forse Macron dovrebbe apprendere: avviene nel momento in cui il professore dà il giusto significato a una parola, e quella parola è ofermod. Non audacia, ma orgoglio. Vale la pena, allora, rileggere quello che Wu Ming 4, ormai dodici anni fa, raccontò in L’eroe imperfetto. E farne tesoro, proprio ora.
“Il 10 agosto 991 d.C., sulla sponda meridionale del fiume Pante, presso Maldon, Essex, Inghilterra, un uomo imponente contempla lo stretto braccio d’acqua davanti a sé. E’ il conte inglese Byrhtnoth che, schierato alla testa di un migliaio di uomini, osserva il contingente d’invasione vichingo attestato sull’isola di Northey, proprio in mezzo all’estuario del fiume. I vichinghi sono guidati da Olaf Tryggvason, determinato a saccheggiare l’Inghilterra sud-orientale o a imporre un riscatto umiliante e oneroso a Byrhtnoth e al re inglese Aethelred, di cui il conte è vassallo.
Anche da quella distanza Byrhtnoth può rendersi conto del rapporto di forze a lui sfavorevole, almeno tre a uno. Nonostante questo si trova in una posizione di netto vantaggio tattico, che può consentirgli di inchiodare i nemici in mezzo al guado. L’isola di Northey infatti è collegata alla terraferma solo da una sottile striscia di terra, che per due ore al giorno viene coperta dall’alta marea. Una schiera determinata di armati può tenere lo stretto passaggio e resistere con successo anche a forze molto superiori. Come gli Spartani alle Termopili.
Soltanto il riflusso della marea quindi separa i due eserciti da quella che passerà alla storia come la Battaglia di Maldon. L’episodio ispirerà l’omonimo poema anglosassone, composto verosimilmente pochi decenni dopo i fatti da un testimone oculare o da qualcuno che ebbe accesso a una fonte diretta. Il testo ci è giunto privo di inizio e di fine a causa della perdita del foglio esterno che racchiudeva le pagine. Di conseguenza per noi il racconto comincia in medias res, quando Byrhtnoth dà ordine di allontanare i cavalli (tutti tranne il suo, ricordiamoci questo dettaglio), affinché nessuno possa cedere alla tentazione di scappare, e schiera i suoi uomini per lo scontro, dichiarando così l’intenzione di resistere. Ecco dunque il conte dell’Essex davanti allo stretto, in attesa che la marea si ritiri e che l’avversario faccia la sua mossa. Tuttavia la quiete apparente prima della tempesta sta per essere turbata da un evento inaspettato. Dalla sponda opposta infatti, giunge la voce di un araldo che annuncia un’offerta da parte del pirata Tryggvason. Il capo dei vichinghi si dichiara disposto a risalire sulle sue navi e andarsene subito in cambio di un riscatto in oro.
La sdegnosa risposta di Byrhtnoth non si fa attendere. Il conte guarda sprezzante il messaggero e afferma che il suo onore e quello dei suoi uomini non è in vendita, mostra alta la spada e dice che l’unico riscatto che otterranno da lui non sarà in oro ma in ferro tagliente.
I vichinghi provano dunque ad avanzare lungo il ponte naturale tra le due rive, ma a Byrhtnoth basta schierare sullo stretto passaggio i suoi tre più impavidi guerrieri per bloccare i nemici, mentre verosimilmente gli altri inglesi li bersagliano con le frecce dalla sponda.
I vichinghi devono ripiegare.
Olaf Tryggvason però è un pirata scaltro, non per niente diventerà re di Norvegia e uno dei sovrani più importanti della storia scandinava. E ha un asso nella manica.
Recita il poema:
Quando s’accorsero e chiaro videro
d’aver trovato aspri guardiani al guado,
ricorsero all’astuzia gli stranieri ostili,
chiesero di poter avere passaggio,
traversare il guado, condurre la truppa.
(84-88)
Sono versi piuttosto oscuri. Innanzi tutto ci troviamo davanti a una dinamica invertita: sarebbe più logico che prima si formulasse la richiesta di poter guadare e solo dopo avere ottenuto un rifiuto si tentasse l’attacco. Invece accade il contrario. Frustrato l’assalto, i vichinghi formulano la richiesta di essere lasciati passare.
I versi ci dicono che si tratta di una “astuzia”. Ma in cosa consista l’astuzia di Tryggvason il poeta lo dà per implicito. Per la verità i filologi non hanno trovato un vero e proprio accordo sull’uso e l’accezione in questo contesto del termine anglosassone lytegian. Alcuni studiosi sostengono infatti che la parola potrebbe essere resa con “diverbio”, “dialogo”, e che lytegian avrebbe la stessa radice del verbo latino litigare. Altri invece propendono appunto per “astuzia”, “inganno” 5. In effetti, al di là del dibattito filologico, concettualmente una cosa non esclude l’altra, poiché proprio di sotterfugio e sfida verbale potrebbe trattarsi.
E’ assai probabile che il vichingo Tryggvason sappia con chi ha a che fare e stia mettendo in atto una provocazione psicologica molto sottile e che in questo consista la sua astuta trappola. La fama di Byrhtnoth è ben nota, il suo coraggio e il suo valore sono indiscussi e indiscutibili. Il conte è ormai in là con gli anni, ancora valente ma prossimo al viale del tramonto, non vorrà mai macchiare il proprio nome ritirandosi da quella che facilmente sarà l’ultima battaglia della sua onorata carriera.
E’ precisamente su questa fedeltà alla fama e all’ideale cavalleresco che conta Tryggvason mentre gli chiede di lasciarlo passare. Mentre cioè lo sfida a essere uomo d’onore fino in fondo, sportivamente eroico, e a rinunciare al vantaggio del terreno. Anche Tryggvason, come Byrthnoth, nelle lunghe sere d’inverno, deve aver sentito recitare dai menestrelli il poema che narra le gesta dell’eroe svedese Beowulf (VIII sec. d.C.), il modello eroico per tutti i nobili guerrieri sulle sponde del Mare del Nord.
Il pirata Tryggvason sta scommettendo sulla forza della letteratura, perché conosce il potere ammaliatore dell’epica, e sta per incastrare il vecchio Byrhtnoth, offrendogli la possibilità di indossare un manto di gloria imperitura: niente meno che i panni di Beowulf. Gli sta offrendo l’eternità della poesia.
Come Beowulf contro il drago. E’ questo che pensa Byrhtnoth mentre accetta la richiesta del vichingo. Già se lo immagina cosa scriveranno i poeti di questo giorno di gloria e di morte, quando pochi inglesi cristiani affrontarono molti scandinavi pagani rinunciando al proprio sicuro vantaggio e dimostrando il proprio indomito eroismo.
Così Byrhtnoth ordina ai suoi armati di indietreggiare dalla sponda per liberare il guado.
In breve i due eserciti si schierano sulla piana tra il fiume e il bosco. Le urla di guerra precedono il lancio di frecce e lance, poi la corsa folle, l’impatto violentissimo di spade e asce su ossa e scudi.
Non può trattarsi d’altro che di una carneficina dall’esito segnato.
Byrhtnoth combatte alla testa dei suoi uomini finché cade colpito da una lancia e il cadavere viene mutilato dai nemici. La sua morte getta nel panico una parte dell’armata inglese. Il “vile” Godric figlio di Odda salta sul cavallo del conte e si dà alla fuga. Molti inglesi credono che il loro capo si stia ritirando, perdono coraggio e si sbandano verso il bosco. I fedelissimi del conte, invece, si incitano a vicenda a mantenere il patto di lealtà al signore e a seguirne l’esempio, condividendone l’estremo destino.
Questo slancio eroico viene esposto nei celeberrimi versi 312-313, sul finale del testo superstite. Si tratta della più limpida formulazione poetica della cosiddetta “teoria del coraggio”. Byrhtnoth è già caduto trafitto dalla lancia, l’ordine di battaglia è spezzato, la sorte degli inglesi scontata; uno dei servitori più anziani incita i compagni a seguire l’esempio del capo e a morire nel gesto estremo di vendetta:
L’animo deve esser più risoluto, il cuore più ardito,
il coraggio maggiore, quanto minore si fa la nostra forza.
Il concetto non potrebbe essere espresso meglio. L’eroismo è inversamente proporzionale alle possibilità di successo.
I versi immediatamente seguenti (314-319) esaltano proprio l’ideale di fedeltà e servizio al signore fino alla morte:
Qui giace trucidato il nostro capo,
il potente nella polvere. Sempre avrà motivo di dolersi
chi ora intenda ritrarsi da questo gioco di guerra.
Io sono vecchio d’anni; di qui non voglio muovermi,
ma io al fianco del mio signore,
accanto al tanto amato intendo giacere.
L’ideale eroico germanico considera un’onta sopravvivere al proprio capo sul campo di battaglia 6. Un precetto a cui, settantacinque anni dopo, si atterranno anche gli housecarls di re Harold, durante la battaglia di Hastings, i quali invece di fuggire insieme al resto dell’armata sassone, cadranno intorno al cadavere del loro signore sotto la carica dei cavalieri normanni.
Così, nella piana di Maldon, uno dopo l’altro gli uomini di Byrhtnoth si gettano nella mischia, trovando la morte con le armi in pugno. Ed è su questo assalto eroico che per noi si conclude il poema, monco del finale.
Non è difficile immaginare l’ultima luce del giorno che lambisce lo scenario silenzioso di una distesa di cadaveri ormai indistinguibili, tra i quali saltellano eccitati i corvi. Un’immagine da tenere a mente questa, perché è la in mezzo che ci spingeremo, dopo il tramonto. Prima però dobbiamo seguire un manipolo di sopravvissuti che si è spinto fino ai margini del bosco.
A raccontarci di loro è niente meno che Jorge Luis Borges, in un breve frammento del 1976 che si intitola 991 A.D. Si tratta di uno spin off del poema, ovvero di un possibile finale che attraverso una prosa moderna colma la lacuna dei versi mancanti.
Borges immagina che una dozzina di combattenti inglesi si siano sottratti alla battaglia e abbiano trovato scampo nel bosco vicino. Li guida il vecchio Aidan insieme ai suoi figli. Non sono nobili, ma contadini prestati alla guerra. Probabilmente Aidan è un fittavolo del conte Byrhtnoth, la sua casa è nelle vicinanze, perché racconta di quando quella mattina è stato svegliato dalla campana e ha visto le vele vichinghe in avvicinamento. Poi passa a raccontare dello scontro campale, come se solo narrandolo agli altri riuscisse a credere a ciò che ha visto e fatto. Quando il racconto arriva al punto in cui Byrhtnoth cede il passo ai nemici, Aidan trova una motivazione coerente per il gesto del suo signore:
Così operò, io penso, perché desiderava ardentemente la battaglia e per impaurire i pagani con la fede che aveva riposto nel nostro valore.
Secondo Aidan, quella del conte è stata una mossa ardita di guerra psicologica: voleva dimostrare a Tryggvason e alla sua schiera che gli inglesi non avevano alcun timore di loro, nonostante fossero in svantaggio numerico, e in questo modo metterli in soggezione. Voleva impressionarli, intimorirli con il proprio coraggio.
Narrando questo episodio Aidan intende convincere gli altri a seguirlo in ciò che sta per proporre. Dice infatti di averli condotti lì per riprendere fiato e perché ormai la battaglia era perduta. Tuttavia – come abbiamo già visto accadere nel racconto poetico – ribadisce che il debito di fedeltà verso il proprio signore impone di vendicarlo a costo della vita stessa. Quindi annuncia che precederanno i vichinghi al villaggio di Maldon sfruttando una scorciatoia e lì tenderanno loro un’imboscata con gli archi da ambo i lati del sentiero. Ne abbatteranno quanti più possibile, finché non cadranno loro stessi, sopraffatti dal numero dei nemici.
Tuttavia uno di loro dovrà sottrarsi alla missione suicida.
Aidan designa uno dei suoi figli, Werferth, il cui compito sarà quello di scrivere il romanzo della battaglia, di tramandare ai posteri l’eroismo di chi è caduto quel giorno. Aidan ci rivela così il vero motivo per cui ha differito la morte e ha condotto fuori dalla mischia i suoi uomini: guadagnare lo spazio della narrazione, della testimonianza.
Werferth lo scongiura di portarlo con sé, perché non vuole passare per vigliacco, ma Aidan è irremovibile: dovrà trasformarsi da guerriero in poeta.
Proprio come Tryggvason, il vecchio Aidan sa che le parole, i racconti, servono a fare cose. Aidan-Borges sa che la narrazione è una prosecuzione della lotta con altri mezzi, e la letteratura un’arte marziale della massima importanza. La letteratura storica, di conseguenza, è un campo di battaglia, speculare alla piana dove si scontrano gli eserciti. In quest’ottica Maldon diventa quasi un luogo simbolico, un paradigma di come lo scontro sul campo si trasforma in scontro di narrazioni, di parole. Le parole diventano frecce, lance, scudi. E perfino leve, argani capaci di scardinare intere visioni del mondo, come vedremo.
E’ di questo che dovrà tenere conto il giovane Werferth, mentre vede partire gli altri e si accinge a diventare l’autore del poema in questione. Un’immagine da western crepuscolare chiude il frammento di Borges, e già annuncia l’alba della poesia:
Werferth li vide perdersi nella penombra del giorno e del fogliame, ma le sue labbra stavano già modulando un verso.
La sera cala sulla piana di Maldon e i sopravvissuti, poeti designati, cercano di decifrare i versi che salgono loro alle labbra. Entrano in campo le parole. Non più quelle del duello verbale tra Byrhtnoth e Tryggvason, ma quelle che dovranno tramandare e rendere eterni gli eventi. Ebbene, quali parole? Con quali parole l’anonimo poeta racconterà il gesto eroico di Byrhtnoth?
Sono i versi 89-90 quelli che motivano la decisione del conte di lasciar guadare i vichinghi e contengono la chiave dell’intero poema:
Il conte concesse allora for his ofermode
troppo terreno a quella gente ostile.
Per molto tempo si è ritenuto di rendere la parola antico-inglese ofermod con “temerarietà”, “audacia”, attributi eroici del tutto compatibili con la versione dei fatti fornita dal vecchio Aidan.
Tuttavia, nel 1953 un filologo dell’università di Oxford ha proposto una traduzione assai diversa, sostenendo che il termine ofermod non avrebbe alcuna accezione positiva. Si tratterebbe infatti di una parola di condanna, che andrebbe resa piuttosto con “orgoglio” (pride). La traduzione, di conseguenza, suonerebbe così:
Il conte concesse allora per orgoglio
troppo terreno a quella gente ostile.
Il filologo in questione si chiamava John Ronald Reuel Tolkien e restituendo una singola parola alla sfumatura di significato originaria, ha cambiato segno all’intero poema.
“Questo elemento d’orgoglio, sotto forma di aspirazione a onore e gloria, in vita e dopo la morte, tende a dilatarsi, a divenire un movente fondamentale, inducendo chi lo fa proprio, al di là della mera necessità eroica, all’eccesso cavalleresco, indubbiamente tale, anche se approvato dall’opinione coeva, qualora non solo trascenda la necessità e il dovere, ma con essi addirittura interferisca” (Tolkien, Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, 1953).
In sostanza Tolkien suggerisce che l’anonimo poeta della Battaglia di Maldon abbia voluto stigmatizzare il gesto di Byrhtnoth, che è stato causa di rovina per tutti i suoi guerrieri e per il Paese. Infatti dovere di un eroe, di un capo, non è solo quello di essere onorevole, ma anche di difendere il popolo. Ed è proprio ciò che Byrhtnoth non ha fatto. Non ha difeso la sua gente, non ha difeso l’Essex, non ha difeso nemmeno il proprio re, ma soltanto il proprio onore, a esso ha sacrificato tutto e tutti. L’eccesso cavalleresco ha reso l’eroe inutile e nocivo”.