Pare brutto dire “noi”, giusto? Sgusciando via dalle discussioni letterarie di questi giorni che, come prevedibile, si sono arenate nel pro-contro (tempi di dicotomia, come già detto) invece di, come sarebbe bello e forse giusto, allargare lo sguardo, rifletto su quanto ha raccontato ieri a Fahrenheit Alberto Prunetti. Si riferiva ai due anni di lotta dei lavoratori dell’ex GKN. Si riferiva al fatto che il festival della letteratura working class non è stato, come spesso o forse sempre avviene, quell’occasione in cui arrivavano gli scrittori e le scrittrici a porgere il verbo agli operai, ma il luogo dove gli operai in prima persona hanno raccontato.
E penso all’incredibile condanna a quattro mesi di Mattia Tombolini per aver dato del fascista a un signore che fa il saluto fascista. E penso al noi, penso a dove sia oggi.
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La ridicolizzazione degli intellettuali e la riduzione dei medesimi a “conventicola” è faccenda antica e insieme attualissima: rappresentarli come un gruppo di annoiati conservatori pronti a sollevare l’indice per ammonire funziona sempre, come le barzellette sui carabinieri, e “intellettuale” (come “femminista”) è ormai una parolaccia, almeno in Italia. Un gran peccato (per chi racconta le barzellette e parla di conventicole).
E però. Siamo sicurissimi che le colpe stiano solo dalla parte dei ridicolizzatori?
Un paio di esempi di lavoro culturale: gli articoli di Annamaria Testa su ChatGPT e AI, (su Nuovo e Utile) e lo strepitoso Festival di letteratura working class, organizzato da Edizioni Alegre e dal Collettivo di fabbrica Gkn in collaborazione con Arci Firenze e diretto da Alberto Prunetti. Operai e letteratura, lotta di classe e intellettuali: come ai vecchi tempi? Eh no, esattamente in questi tempi, nei modi e nelle forme da scoprire insieme. E con migliaia di persone che partecipano, peraltro.
In poche parole: i ridicolizzanti di cui sopra hanno ragione nel momento in cui chi fa lavoro culturale o dice di farlo non si guarda intorno. Ma, grazie al cielo, non funziona (sempre) così. E poi, come diceva Leonardo Sciascia: “L’intellettuale non ha più nessun potere, comunque io continuo a scrivere come se ci credessi”. Ecco. Eccetera.
A proposito di lavoro culturale. C’è un aspetto che si associa immediatamente a queste due parole ed è quello della sopravvivenza dei lavoratori della cultura. Dal momento che si avvicina il primo Festival italiano di letteratura working class (che si deve ad Alberto Prunetti e ad Alegre), e sollecitata da un articolo di Maria Teresa Carbone sul Manifesto, vado a leggere un articolo sul Guardian di Ben Quinn, che a sua volta riporta i dati del rapporto intitolato Structurally F*cked . Vi si legge fra l’altro che la proporzione di lavoratori culturali che provengono da un contesto operaio si è ridotta della metà.
Mi torna in mente la lectio sul giornalismo culturale che Nicola Lagioia tenne quasi un anno dopo la morte di Alessandro Leogrande: “Se era così bravo, così competente, così coraggioso, così in gamba come tutti quanti non smettono di dire, perché i grandi giornali non hanno fatto a cazzotti per accaparrarselo, salvo parlarne in termini di superlativo assoluto e lodarlo solo dopo che era morto?”
Ai mille lavori di Leogrande penso spesso, e penso anche a chi ha oggi la sua età e fa appunto quei mille lavori per tirar fuori uno stipendio, e penso ai dati del Guardian e al fatto che alle parole “ascensore sociale” parecchi farebbero spallucce, qualcuno ti guarderebbe storto e altri non saprebbero neanche cosa è.