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Era il 2011. In un suo intervento, Wu Ming 1 disse:
“In Italia come in poche altre nazioni, non c’è nulla di più facile che spingere l’impoverito a odiare il povero”.
In queste ore ne abbiamo la riprova. Basta dotarsi di pazienza e andare a leggere le decine e decine di commenti contro “il weekend lungo” (definizione con cui la presidente del consiglio ha bollato le manifestazioni spontanee e organizzate nella maggior parte delle piazze italiane contro il sequestro dell’equipaggio della Flotilla): a scagliarsi contro gli scioperanti sono piccoli e medi imprenditori, indignati contro “i lazzaroni” (cit. da un’imprenditrice bresciana) e quelli che non hanno voglia di lavorare, e, ancora una volta, “i figli di papà” (cit., di nuovo, dalla presidente del consiglio). Dire che non sanno di cosa parlano è ovvio, ma non serve: in molti casi ripetono le parole dei personaggi che vengono invitati in televisione non a ragionare ma a inanellare slogan contro il nemico di turno ( e, scusate tanto, in molti casi i figli di papà sono proprio loro). In moltissimi altri casi c’è solitudine, c’è disperazione, anche, c’è la povertà vera e non semplicemente l’impoverimento: solitudine e disperazione e povertà che fin qui non sono stati intercettati dalla politica, in tutta onestà. 
In questi commentatori, quando non siano bot aizzati dalle varie “bestie” social della destra, c’è una domanda comune: perché non scendete in piazza per noi?
Quello che sfugge è che scende in piazza in queste ore lo fa anche per loro: certo, la prima e urgentissima istanza è per far sapere  che si sta compiendo un genocidio, negato ancora e al più travestito da un “piano di pace” quanto meno dubbio. Ma anche per far sentire una voce comune, finalmente collettiva, contro la deriva autoritaria che investe l’Italia e mezzo mondo. Perché la vostra infelicità, o il vostro impoverimento, non è colpa dei manifestanti, non è colpa degli immigrati, non è colpa dei “comunisti”  e di coloro verso cui è facile indirizzare l’odio. E’ colpa di qualche decennio di scelte politica sbagliate, dal Berlusconi che si vantava “Nelle mie aziende non c’è mai stata un’ora di sciopero”, a Monti, a Renzi, a Draghi, e ora a Meloni.
E ora chi è in piazza prova a ripetere questo, che tutti e tutte hanno diritto di vivere una buona e bella vita. A Gaza, in Ucraina, ovunque ci sia una guerra (e sarà presto molto vicina), e anche in Italia. Già.

Per carità, non voglio fare lezioni. E a che titolo, poi? Quindi, comincio subito con una lezione contenuta in un articolo del 2001. Lo firma Umberto Eco: “l’abilità giornalistica si è atrofizzata e i giornali spendono gran parte del loro tempo a riciclare acqua calda. La simbiosi tra stampa e potere politico deriva dallo stretto rapporto tra i proprietari dei maggiori giornali e la classe politica.”
Ora, dal paradiso dei buoni maestri, se esiste, Eco forse scuoterà bonariamente la testa dopo aver letto i giornali di oggi e visto i telegiornali di ieri sera.
Perché con pochissime eccezioni (le solite, Il Fatto e il Manifesto) i giornali aprono le cronache delle gigantesche, meravigliose piazze di ieri con la notizia degli scontri milanesi. Gli stessi che hanno dato adito alla premier e alle destre tutte di dire che chi si batte per la Palestina è violento, chi è antifascista è violento, chi scende in piazza è violento. Pare che Piantedosi abbia dichiarato che il governo non vieterà mai manifestazioni e cortei. E ci mancherebbe altro: ma è gravissimo che abbia potuto soltanto dirlo. 
Date un’occhiata ai giornali, vi prego, e poi date un’occhiata ai social, alle centinaia di fotografie gioiose, sotto il sole o la pioggia, nelle città grandi e in quelle piccole, nei porti e nelle piazze, e tirate le somme.
E a chi scrive oggi su un giornale vorrei ricordare che è esattamente questo il problema: raccontare a partire dall’eccezione e non da tutto il resto.
Dare la priorità al sampietrino e al cassonetto è una responsabilità dei giornali.
Fornire alibi a chi ci governa è una responsabilità dei giornali.
Questa lezioncina, che tale è divenuta, è inutile, ma tanto dovevo. E dunque la chiudo con un’altra lezione, stavolta di Borges:
“Un libro è un oggetto fisico in un mondo di oggetti fisici. È un insieme di simboli morti. Poi arriva il lettore giusto e le parole – o meglio la poesia che sta dietro le parole, perché le parole in sé sono semplici simboli – tornano in vita. Ed ecco la resurrezione della parola”.
Fatele tornare in vita, queste parole. Per favore.

Nel 1940 uno studente di 17 anni stila “il decalogo del buon danese”, con cui si invita alla resistenza nonviolenta ai nazisti la popolazione. Funzionò, e Arendt ne fu colpita e lo raccontò.
Nel 2025 il sindaco di Ravenna, Alessandro Barattoni, blocca la partenza delle armi destinate a Gaza.
E poi c’è una piccola storia che lo riguarda e riguarda me.
Domenica scorsa, prima della prolusione dantesca al Teatro Alighieri di Ravenna, ho provato il microfono e le luci. Avevo con me una barchetta di carta con i colori di Gaza: me l’avevano data, la sera prima, alcune donne che organizzano piccole e grandi iniziative simboliche. Lanciare barchette di carta, non potendo essere fisicamente su altre barche. Ho promesso che, nel passaggio della prolusione in cui citavo Gaza, avrei sollevato la barchetta per mostrarla al pubblico.
Solo che, una volta dietro le quinte, non la trovavo più: l’avevo infilata fra le pagine del testo, nel punto esatto in cui nominavo i bambini di Gaza. Mi sono data della cretina e della distratta. Ma quando sono entrata in scena, dopo il discorso di apertura istituzionale, fra cui quello del sindaco, ho trovato la barchetta sul leggio. Mi hanno poi raccontato che è stato lo stesso sindaco ad aver visto la barchetta in terra, ad averla avvicinata con la scarpa per raccoglierla e a posizionarla nel punto giusto.
Certo che è una cosa piccolissima. Anzi no. E’ un simbolo. E’ un segnale di attenzione. E ne abbiamo bisogno.
Grazie, sindaco, per tutto.

Sono passati quasi ventiquattro anni da Genova 2001, e ieri arriva la notizia che il nuovo questore di Monza, dal 1 giugno, sarà Filippo Ferri “attualmente dirigente della Polizia ferroviaria di Milano”.
Ferri è stato condannato in  Cassazione nel 2012 per il processo Diaz: tre anni e otto mesi di carcere per falso e calunnia e interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. All’epoca, la Cassazione parlò di “massacro ingiustificabile che ha screditato l’Italia” e di “pura esplosione di violenza”.
Del resto, non è il solo. Altri due condannati, Pasquale Troiani e Salvatore Gava , sono rientrati in polizia, passando alla polizia stradale per poi diventare entrambi vicequestore nel 2020.
Si dirà che ognuno ha diritto a una seconda possibilità. Il problema è che di seconde e terze possibilità ce ne sono state tante: pensiamo a Gianni De Gennaro, allora capo della polizia, che è stato non solo assolto ma sia stato nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri sotto il governo Monti e poi presidente di Leonardo, ex Finmeccanica.
Ma sono passati ventiquattro anni, quasi un quarto di secolo.
In ventiquattro anni la storia, come avviene fatalmente, si è avvolta in spire ed è balzata in avanti ed è tornata a riavvolgersi. E questo è banale, oltre che fatidico.
In ventiquattro anni abbiamo scoperto, di nuovo, le parole “paura” e “guerra”. Che c’erano anche prima, ma erano coperte da altre. Forse potremmo scoprirle di nuovo, se avessimo la voglia, e la forza. Abbiamo scoperto la fragilità, ma non mi sembra che ci stia servendo, almeno ora. Abbiamo scoperto il massacro premeditato, come sta avvenendo a Gaza.
Dopo ventiquattro anni, avrei voglia di chiedere al nuovo questore di Monza cosa pensa, cosa ricorda, come si sente.
Sarebbe, temo, inutile come cercare  i cinquantanove cigni di Yeats, le creature di luce cantate in “The wild swans at Coole”. Anche se i cigni ci sono, in realtà.  Sono quelli che ci fanno leggere storie di vicinanza, di affetto, di pietà.  Che domani saranno nelle piazze d’Italia con le lenzuola bianche per protestare contro i cinquantamila sudari di Gaza. Non è affatto una questione di bontà e tanto meno di buonismo. E’ preservare noi stessi. La parte viva di noi stessi. “I loro cuori non sono invecchiati”, dice Yeats dei suoi cigni. Questo bisogna pensare, dopo ventiquattro anni. Credo.

Nel 2009, Murakami Haruki ricevette il Jerusalem Prize. Subito prima, aveva ricevuto un appello del Palestine Forum Japan, dove gli si chiedeva di rivolgere la sua attenzione “ai palestinesi, a cui viene negata la libertà e la dignità di esseri umani”, e lo si pregava di considerare d il valore propagandistico che il premio avrebbe per Israele”.
Murakami andò, ma a modo suo. “Mi sono chiesto: visitare Israele è la cosa giusta da fare? Sosterrò una delle due parti? Ci ho pensato un po’. E ho deciso di venire. Come la maggior parte dei romanzieri, mi piace fare esattamente l’opposto di ciò che mi viene detto. È nella mia natura di romanziere. I romanzieri non possono fidarsi di nulla che non abbiano visto con i propri occhi o toccato con le proprie mani. Quindi ho scelto di vedere. Ho scelto di parlare qui piuttosto che tacere.”
Ma nel suo discorso di accettazione ha detto: “Se c’è un muro alto e duro e un uovo che si rompe contro di esso, non importa quanto sia giusto il muro o quanto sia sbagliato l’uovo, io starò dalla parte dell’uovo. Qualcun altro dovrà decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; sarà forse il tempo a farlo, o la storia. Ma se ci fosse un romanziere che, per qualsivoglia ragione, scrivesse stando dalla parte del muro, che valore avrebbero le sue opere?”  E ancora: “Siamo tutti fragili uova. Non abbiamo alcuna speranza contro il muro: è troppo alto, troppo buio, troppo freddo. Per combatterlo, dobbiamo unire le nostre anime per trovare calore e forza”.
Ecco, le parole di Murakami dovrebbero risuonare oggi, alla vigilia di #gazalastday. E’ ancora difficilissimo farlo: c’è davvero un muro, alto e duro, davanti a noi. Per quanto mi riguarda, è bastato un commento di solidarietà alla Taverna Santa Chiara di Napoli (che si è rivelata una tappa di un percorso mediatico molto violento, come denunciato da Donne in nero Bari) per finire nelle pubbliche liste di proscrizione di una scrittrice peraltro molto brava e molto attenta alle parole: che però, come molti e molte, vede soltanto una parte della storia e dei fatti.

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