Gli scrittori e le scrittrici, incluso Stephen Markley di Ohio, tornano a raccontare il piccolo, il minimo, i campi di soia o di mais o di radicchio o di lenticchie, le fattorie e le botteghe e i negozietti sfigati. Però quando si racconta di quei luoghi piccoli si può provare a scardinarne i confini, e vedere quello che abitualmente non si vede. Inoltre, quel tipo di scrittori e le scrittrici, se letti davvero, e se letti non facendo il contropelo all’estetica (o almeno non solo, e sicuramente non per dirsi e dire quanto si era più sperimentali e intelligenti e colti in giovinezza), illuminano il presente, e ci fanno capire cosa sta accadendo. Oggi su La Stampa c’è un bellissimo articolo di Simonetta Sciandivasci che racconta non solo JD Vance, l’autore di Elegia americana e oggi vice di Donald Trump, ma coloro che hanno raccontato le zone rurali e impoverite. Non sono solo storie, ma finestre.
Succede anche in Europa, succede anche in Italia. Quando, in questi giorni, leggo le polemiche un po’ retrò sugli scrittori che non sono più i ribelli di una volta (peraltro ci sono, solo che non se ne parla: penso, per fare un paio di nomi, a Girolamo De Michele e ai Wu Ming e a Claudia Durastanti e ai working class di Alberto Prunetti), resto sconfortata ancora una volta per l’autoreferenzialità della discussione. Parlare di sè, sempre di sè, e mentre qualcuno ti sta dicendo che il mondo è davvero in fiamme tu pensi alla noia della leggibilità.
E’ legittimo, naturalmente. Ma se solo si leggesse davvero, e si leggesse con curiosità, e se magari persino coloro che fanno politica leggessero per capire, non dico che cambierebbe tutto: ma forse cambierebbe qualcosa.