IMPARARE A LEGGERE: SU VANCE, MARKLEY, KING E LE POLEMICHE DI CASA NOSTRA

“Quando si scrive si fa una cosa di cui gli altri non sanno niente, e non se ne può parlare, si torna di continuo al proprio mondo segreto per poi fare cose diverse nella vita normale”. Così dice Alice Munro. Che come altri, come Tiffany McDaniel e come, certo, Stephen King, racconta di luoghi piccoli. Circoscritti, insignificanti, dove però si può cogliere la geometria dei legami, e naturalmente gli amori e le invidie e i rancori e le rabbie e gli orrori e le meraviglie di una famiglia, di una scuola, di un piccolo quartiere. In fondo,  siamo ancora fatti di questo: una famiglia, orribile o amatissima che sia, una scuola, un quartiere, una piazza. In un luogo piccolo è più facile non solo vederlo, ma riconoscerlo. E non tanto perché le città da ultimo tendono a somigliarsi tutte, gli stessi marchi di abbigliamento, gli stessi anfratti che offrono cibo (sempre uguale peraltro: quelle patatine, quegli hamburger, quel kebab, ma anche quell’insalata di farro o quel gelato presunto artigianale), qualcosa al cui confronto i vecchi non luoghi di Augé impallidiscono.
Gli scrittori e le scrittrici, incluso Stephen Markley di Ohio, tornano a raccontare il piccolo, il minimo, i campi di soia o di mais o di radicchio o di lenticchie, le fattorie e le botteghe e i negozietti sfigati, proprio perché le modalità delle relazioni umane sono identiche, nonostante tutto. Però quando si racconta di quei luoghi piccoli si può provare a scardinarne i confini, e vedere quello che abitualmente non si vede, perché il contrasto è proprio qui, fra il consueto e l’inenarrabile.
Ma quel tipo di scrittori e le scrittrici, se letti davvero, e se letti non facendo il contropelo all’estetica (o almeno non solo, e sicuramente non per dirsi e dire quanto si era più sperimentali e intelligenti e colti in giovinezza), illuminano il presente, e ci fanno capire cosa sta accadendo. Oggi su La Stampa c’è un bellissimo articolo di Simonetta Sciandivasci che racconta non solo JD Vance, l’autore di Elegia americana e oggi vice di Donald Trump, ma coloro che hanno raccontato le zone rurali e impoverite:
“La chiamano Rust Belt, cintura di ruggine, perché la ruggine, gli scarti, gli scheletri sono quello che resta del florido polo industriale che, almeno fino agli anni Cinquanta,era il cuore pulsante dell’economia di quei posti. Che oggi cigolano e rantolano, completamente (volutamente?) dimenticati dal Paese centrale e dalle sue istituzioni, talvolta persino estromessi dalle tappe delle campagne elettorali.”
JD Vance lo ha raccontato, come lo ha raccontato Markley, e all’epoca dell’uscita si era pur detto che bisognava capire quei millennial e capire dunque il voto a Trump, ” e quanto profondo fosse stato l’errore di ritenerli una minoranza di buzzurri senza ragioni, incrinature inevitabili della Storia, tribolati scalmanati da accettare e di fatto escludere dal popolo redentore”. Non è stato fatto. Magari hanno letto Vance e Markley e, aggiungo, McDaniel e King, ma non hanno capito che quelle non erano “solo” storie, ma una finestra da cui affacciarsi per capire.
Succede anche in Europa, succede anche in Italia. Quando, in questi giorni, leggo le polemiche un po’ retrò sugli scrittori che non sono più i ribelli di una volta (peraltro ci sono, solo che non se ne parla: penso, per fare un paio di nomi, a Girolamo De Michele e ai Wu Ming e a Claudia Durastanti e ai working class di Alberto Prunetti), resto sconfortata ancora una volta per l’autoreferenzialità della discussione. Parlare di sè, sempre di sè, e mentre qualcuno ti sta dicendo che il mondo è davvero in fiamme tu pensi alla noia della leggibilità.
E’  legittimo, naturalmente. Ma se solo si leggesse davvero, e si leggesse con curiosità, e se magari persino coloro che fanno politica leggessero per capire, non dico che cambierebbe tutto: ma forse cambierebbe qualcosa.

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