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Se non ricordo male la morte di Giovanni Paolo II è stata sfondo di diversi romanzi italiani (ricordo male? Il contagio di Walter Siti? La stessa Gomorra?). Se non ricordo male molti scrittori ne hanno parlato e scritto: penso a Giuseppe Genna, per esempio, e qualcosa ho ritrovato su Carmilla. 
Non è evidentemente un obbligo, ma è una considerazione sul rapporto fra romanzo e contemporaneità, che magari non ha senso, e magari altri ben più titolati di me direbbero che non deve avere senso, perché la letteratura indaga su abissi e vette che sono universali e atemporali, e certamente i propri abissi possono parlare per tutti gli altri, possono anzi e devono valere per tutti gli altri. Penso a Sebald, agli Anelli di Saturno, a come scriveva: “non conosco altro modo se non la scrittura per difendermi dai ricordi, che così spesso e così all’improvviso mi sopraffanno. Se restassero chiusi nella mia memoria, con il passar del tempo diventerebbero più gravosi, al punto che finirei per crollare sotto il loro peso via via crescente.”
Però continuo a leggere i romanzi nuovi, e non riesco nemmeno a stare dietro a tutto, come è ovvio e normale, e a volte trovo sprazzi dove si raccontano epoche e mondi passati che parlano all’oggi e a volte invece trovo semplicemente storie familiari, o biografie, o fatti. Ma appunto, quali fatti? Fatti di ieri. 
Ma insomma cosa voglio? 
Voglio, forse, pensare che ci fosse una ragione nelle parole di Jean-Paul Sartre. Certo, era il 1945. Però.
“Per noi, in realtà, lo scrittore non è né Vestale né Ariele: è “implicato”, qualsiasi cosa faccia, segnato, compromesso, sin nel suo rifugio più appartato. E se, in certe epoche, usa la propria arte per costruire gingilli d’inanità sonora, anche questo è un segno: vuol dire che le lettere e, senza dubbio, la società sono in crisi; oppure vuol dire che le classi dirigenti lo hanno polarizzato, senza che lui lo sospettasse, verso un’attività di lusso, per timore che andasse a infoltire le truppe rivoluzionarie”.

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