Ci penso e poi penso non tanto al Trump in sé ma al Trump dentro di noi. Su tre punti: lo smantellamento dei programmi di diversità e inclusione del governo federale, con congedo retribuito di tutto il personale che se ne occupa; la promessa di “riportare la libertà di parola negli Stati Uniti”; l’affermazione secondo la quale i sessi sono solo due, maschio e femmina.
Ora, i giornali di casa nostra (quelli di destra) e molti commentatori e utenti social di casa nostra, stanno esultando e gridano alla fine del “delirio woke”.
E io non capisco: perché in molti casi chi festeggia non è innocente come l’infanzia, per citare Striano. Non è neanche crudele, temo: proprio non capisce il concetto.
Che a me sembra elementare: che male faccio, cosa ti sottraggo, se uso un termine anziché un altro? E’ limitazione della tua libertà chiedere di non ascoltare parole  insultanti? Poi, liberissimo di dirle dove ti pare: ma non davanti a me, magari. 
Non sarà che siamo prigionieri di una gigantesca illusione, la stessa che induce alcuni scrittori di non eccelse fortune lamentarsi in quanto vittime della “cultura woke”, e piagnucolare sul fatto che “non si può più dire niente”. 
Ma non è vero, semplicemente. 
In questi anni ho letto romanzi durissimi, crudi, scorretti: chi usa questa argomentazione lo fa, a parer mio, per autogiustificarsi, nella stragrande maggioranza dei casi, almeno.
Io spero nei libri, invece. A differenza di Richard Ford che al Corriere della Sera dichiara: “Gli scrittori americani non pensano che i loro libri abbiano una qualche influenza sul dibattito interno. Non sono, non siamo, veramente interessati alla politica. Affidiamo il compito di affrontare la politica agli esperti”.
Credo e spero di no. Forsan et haec olim meminisse juvabit. Magari si potrebbe provare a crederci.