GLI ESULTANTI: A PROPOSITO DEL COSIDDETTO “WOKE”, E DI TRUMP

Il 20 agosto 1799 Eleonora Pimentel Fonseca sale sul patibolo. Enzo Striano, in uno splendido libro che cito spesso e che si chiama Il resto di niente, la immagina mentre, con il cappio al collo, guarda le facce sghignazzanti intorno al palco e mormora, in latino, Forsan et haec olim meminisse juvabit (”Forse un giorno servirà ricordare tutto questo”).
Ma non ci crede.
Scrive Striano: “Di lì a poco, finita la festa si sparpaglieranno in mille direzioni. Sulla sabbia della Marinella, verso Santa Lucia, a Toledo… Domani avranno già scordato quanto succede adesso: ora però si stanno divertendo, innocenti e crudeli come infanzia”.

Ci penso e poi penso non tanto al Trump in sé ma al Trump dentro di noi. Su tre punti: lo smantellamento dei programmi di diversità e inclusione del governo federale, con congedo retribuito di tutto il personale che se ne occupa; la promessa di “riportare la libertà di parola negli Stati Uniti”; l’affermazione secondo la quale i sessi sono solo due, maschio e femmina.
Ora, i giornali di casa nostra (quelli di destra) e molti commentatori e utenti social di casa nostra, stanno esultando e gridano alla fine del “delirio woke”.
E io non capisco: perché in molti casi chi festeggia non è innocente come l’infanzia, per citare Striano. Non è neanche crudele, temo: proprio non capisce il concetto.
Che a me sembra elementare: che male faccio, cosa ti sottraggo, se uso un termine anziché un altro? E’ limitazione della tua libertà chiedere di non ascoltare parole  insultanti? Poi, liberissimo di dirle dove ti pare: ma non davanti a me, magari.
Passo indietro. Diversi anni fa uscì un articolo importante di Federico Faloppa. In particolare:

“Un altro problema, forse meno evidente ma altrettanto reale, è quello del cosiddetto “odio dei giusti” (e “delle giuste”): le espressioni di disprezzo e d’odio – misogino, razzista, classista – di chi si sente nel giusto, appunto, attaccando i misogini, i razzisti, i classisti con i loro stessi metodi. Si tratta di insulti, slogan, tentativi di umiliare l’altro, non di dialettica o di scontro politico e sul piano delle idee. Il body shaming sessista non è questione di destra o sinistra: è offensivo, arrogante, violento. Punto. Così come lo sono il classismo e il razzismo: non vi è una formulazione migliore dell’altra.
(…)
Nessuno rimpiange il politichese, l’estrema formalità (e l’estremo formalismo) di certi registri, una comunicazione elitista e ipercontrollata anche quando il mezzo – e il contesto – richiedono semplicità, chiarezza, immediatezza. Ma se il linguaggio diventa soprattutto flatus vocis, ammiccamento cameratesco, “parlacomemangi” nell’idea che – forti di un’arroganza questa sì classista e mal dissimulata – tutto si possa dire, sempre e comunque, anche in uno spazio pubblico, esentati da responsabilità e sensibilità nei confronti di chi ascolta (e delle persone di cui si sta parlando), non bisogna sorprendersi troppo se si superano i limiti della decenza e si scivola, malgré soi, nel vituperio e nel bullismo. L’hate speech, d’altronde, anche questo fa: mortifica la nostra competenza linguistica e comunicativa riducendola a una ridda di slogan, di battutacce triviali (da non confondere con l’ironia, ben altra cosa), di insulti, sparati spesso – tra l’altro – nel mucchio, al riparo di uno schermo o di un microfono e di una presunta patente di impunibilità”.

Non riesco a capire, davvero. Cosa porta nelle vite degli esultanti il poter usare la parola con la N o con la F? In cosa li fa sentire più liberi? Non sarà che siamo prigionieri di una gigantesca illusione, la stessa che induce alcuni scrittori di non eccelse fortune lamentarsi in quanto vittime della “cultura woke”, e piagnucolare sul fatto che “non si può più dire niente”.
Ma non è vero, semplicemente.
In questi anni ho letto romanzi durissimi, crudi, scorretti: chi usa questa argomentazione lo fa, a parer mio, per autogiustificarsi, nella stragrande maggioranza dei casi, almeno.
Io spero nei libri, invece. A differenza di Richard Ford che al Corriere della Sera dichiara: “Gli scrittori americani non pensano che i loro libri abbiano una qualche influenza sul dibattito interno. Non sono, non siamo, veramente interessati alla politica. Affidiamo il compito di affrontare la politica agli esperti”.
Credo e spero di no. Forsan et haec olim meminisse juvabit. Magari si potrebbe provare a crederci.

 

 

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